giovedì, settembre 30, 2004

MEDITAZIONE - 30/9/04

MANIFESTO 30-9

Un silenzio suicida

ROSSANA ROSSANDA

Neanche il sequestro delle due Simone ci ha privato della perpetua rissosità nell'opposizione. Della quale un solo punto è chiaro, che il «come battere» il cavaliere importa meno del «che cosa fare dopo» il cavaliere. Da che Follini ha rinverdito la speranza di una centralità democristiana, una parte della Margherita e dei Ds, oltre che lo Sdi, sono tentati da un governo che tagli le ali: a sinistra - Rifondazione, il correntone, il Pdci e forse altri -, a destra - la Lega, forse An, ma solo parte di Forza Italia. Sembra un sogno, ma è così. Non basta, la tregua concessa al governo per riscattare i quattro di «Un ponte per» diventerebbe volentieri per molti un metodo costante e assai dialogico di accordi e separazioni su singoli punti fra maggioranza e opposizione, destinato a mischiar le carte per il governo successivo quale che sia. Sarà per questo che l'opposizione strilla contro la Casa delle libertà, ma su quel che farebbe una volta al governo resta sibillina? Ds e Rutelli hanno laconicamente detto che «non tutto va cambiato», si sono astenuti sul primo articolo della devolution, Fassino è svolazzato alla convention di Kerry come da giovane svolazzava a Mosca. Non si rendono conto quanta credibilità hanno perduto dal 13 maggio a oggi. E discutono sulla pelle di un orso che ogni giorno di più rischiano di non catturare affatto.

Questa reticenza è stupefacente. Anche la diatriba su chi dovrebbe decidere il programma - Bertinotti insiste che non siano soltanto i partiti - finisce col suonare come un rinvio, perché intanto nessuno si espone. Lo ha fatto soltanto la Fiom che, essendo un sindacato, elenca le urgenze dei lavoratori: finirla con la precarietà, tener fermo il contratto nazionale, basta con la legge 30. Questione bruciante non solo perché va contro l'ondata liberista che ci sta scrosciando addosso, ma perché precarietà, flessibilità, competitività sono state la grande scoperta del primo governo di centrosinistra e costituiscono il cuore della Carta europea. Non che non potrebbero essere discusse, perché oggi si vede che non sono soltanto i lavoratori a essere penalizzati ma che la priorità data al mercato globale ha reso l'economia ingovernabile, introducendo il massimo dell'incertezza e del disordine in tutte le nazioni. La libera circolazione dei capitali e delle merci terremota ogni previsione di crescita, mentre la circolazione delle persone è resa più urgente dalla miserie di posizione e più repressa dalla parte del mondo verso la quale gli infelici convergono. Come invertire queste tendenze? Viene il dubbio che i moderati dell'Ulivo non ci pensano neanche, mentre metà della sinistra sta ancora pentendosi di aver difeso il lavoro e lo chiama statalismo e rigidità. Se ne preoccupano di più le confindustrie, visto che l'allargamento - fortemente voluto dagli Usa - dell'Europa all'Est sta dando luogo a un colossale sistema di dumping. Mettere un freno a questi processi, come ha proposto Zapatero, implica che i governi rivedano i parametri dei trattati europei e che i sindacati cessino di credere che in un'economia globale il lavoro possa essere organizzato nazionalmente. E che dice la nostra opposizione sulle tasse? Si propone di redistribuire il reddito colpendo le ormai enormi rendite per alleviare le fasce più deboli e garantire i servizi collettivi invece che affidarli al mercato e se li compri chi può?

E poi. La Casa della libertà ha fatto dell'Italia il miglior amico di Bush. Romano Prodi ripete che l'Europa deve parlare con una sola voce. Quale, prego? Germania, Francia e Spagna dicono no a Bush e chiedono il ritiro americano dall'Iraq, il Regno Unito, l'Italia, l'Est e altri restano avvinghiati al Pentagono. La stessa divisione entra fin nella Margherita e nei Ds. La sola voce europea che direbbe? E, attenzione, nessuna delle due scelte è indolore e asettica, come non è semplice né asettico invertire l'ondata liberista. Proprio per questo evitar di parlarne rende l'opposizione poco credibile.

Sono solo due esempi di questioni decisive, che la destra cavalca ma senza che chi chiede il voto contro Berlusconi dica quale progetto ha, sempre che l'abbia. Viene il dubbio che chi non si sforza di convincere ha già smesso di puntare a vincere.

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STAMPA 30-9

Da anti-Berlusconi ad alter-Berlusconi

La lunga marcia di Walter Veltroni

di Filippo Ceccarelli

Per la liberazione delle due Simone ha acceso il Colosseo. Click. E per la festa del ritorno a casa ha offerto come scenografia il piazzale michelangiolesco del Campidoglio. Come dire: quanto a perfezione d’allestimenti e macroscopiche luminosità, il presidente Berlusconi si dia una regolata.

Sempre più Walter Veltroni si conferma un interessante caso d’antagonismo mimetico, o mimetismo antagonista. Doverosa la spiegazione. Più che l’anti-Berlusconi sembra configurarsi come l’alter-Berlusconi, il suo doppio speculare, una copia politicamente simmetrica, un prototipo uguale e contrario, là dove questa geometrica contrarietà è orientata per così dire a sinistra.

Ma attenzione, perché la sinistra, nel caso del sindaco di Roma, appare come una categoria ideologica non solo abbastanza desueta, ma anche un po’ fuorviante. Come del resto conferma l’ultimo sondaggio Ipsos (maggio 2004) che nell’Urbe registra sul nome di Veltroni, ma sarebbe meglio dire sul suo volto e sulla sua immagine, un gradimento pressoché plebiscitario: 82 per cento. Pure su questo il Cavaliere si dia una regolata. E anche quegli altri del centrosinistra che riempiono le loro giornate a litigare o a vendicarsi.

Senza farla troppo lunga: l’interventismo di Veltroni sulla vicenda delle due volontarie rapite in Iraq - un atteggiamento a tratti addirittura crocerossino - finisce per rivelare, più che le ambizioni personali del personaggio, alcuni recentissimi sviluppi della politica e soprattutto dei suoi leader nel senso dell’emulazione strategica. In altre parole, l’ipotesi è che il sindaco di Roma abbia fatto sua la lezione del Cavaliere commutandola in maniera evoluta ben al di là del recinto berlusconiano. Ma in modo tale da risultare, il veltronismo, con i suoi romanzi, i suoi musei, le sue foto accattivanti, i suoi cd e dvd alla moda solidale (con Diaco), i suoi «villaggi della pace» e i suoi «parchi della memoria», e poi con gli artisti e gli sportivi disabili, gli ex deportati, gli eroi senegalesi, gli ultrà pentiti, le donne minacciate di lapidazione, i vecchietti rallegrati da Totti, i dipendenti comunali in permesso per volontariato, i barboni massacrati e poi premiati per il loro coraggio civico, insomma, è come se il mondo di Walter fosse più simile a un berlusconismo alternativo che non a una radicale alternativa al berlusconismo.

Va da sé che quasi tutti gli «ismi» sono inevitabili forzature giornalistiche. E che l’evoluzione delle forme espressive della politica è un fatto complesso dalle mille implicazioni. Sarebbe semplicistico, oltretutto, oltre che ingiusto, ritenere che Veltroni imita, anzi si è messo a «copiare» il Cavaliere, se non altro perché è in politica da molto prima di lui. E tuttavia, a proposito di quella ipotetica «mimesi», di quell’antagonismo alla rovescia, varrà giusto la pena di ricordare che nel 1990 Walter pubblicò con gli Editori Riuniti un volume che s’intitolava: «Io e Berlusconi (e la Rai)».

Chi vi cercasse ghiotte narrazioni intimistiche tipo «Senza Patricio» (Rizzoli) rimarrebbe deluso. Il libro è una raccolta di articoli, discorsi, interviste sulla tv. Eppure quel furbo titolo suona oggi più che giustificato che allettante perché rende bene l’idea di quanto, fin da allora, Veltroni abbia studiato Berlusconi. E ancora di più perché dimostra quanto l’abbia via via capito assimilandone i tempi rapidi, i percorsi e i calori televisivi, le esigenze spaziali e spettacolari delle rappresentazioni, i linguaggi al tempo stesso sincopati, comprensibili e immaginifici, la forza delle emozioni, i segni del consumo e le risorse simboliche da utilizzare nel grande gioco del consenso da conquistarsi a distanza.

Sempre ieri, proprio ieri, durante la presentazione del best-seller veltroniano al teatro Argentina - l’ha notato Luca Telese sul Giornale - uno dei presentatori, Vincenzo Mollica, ha ritenuto di citare adattandola al sindaco-scrittore una frase di Federico Fellini: «L’unico realista è il visionario». Ecco, neanche a farlo apposta: questo della visione e del realismo visionario è un altro tipico argomento del berlusconismo (che l’ha mutuato da Erasmo). Così tipico che nella liturgia del decennale il Cavaliere l’ha utilizzata in uno dei suoi abituali botta e risposta con la platea. Chiese dunque Berlusconi a quella folla plaudente: «Avete fatto bene a credere alla visionaria follia di chi vi sta parlando?». E quelli: «Sìììì!».

Bene, Veltroni non lo farebbe mai. Però anche perché non ha bisogno. Basta che sia se stesso e faccia emergere i contrasti. Da una parte il successo e il lusso, per dire, e dall’altra il dolore, la miseria, l’Africa (il sindaco, in effetti, è in partenza per Maputo, dove inaugurerà una scuola). Da una parte il segreto sui meravigliosi lavori a villa Certosa, dall’altro le fantasmagoriche moltitudini della notte bianca. E ancora. Berlusconi che seduce e diverte, Veltroni che protegge e cura; l’uno fa l’amicone di Bush, Blair e Putin, l’altro approfitta di un concerto per far abbracciare sul palco israeliani e palestinesi. Nel frattempo, la politica cambia. Ma il conflitto pure.

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CORSERA 30-9

Le prossime dieci ampie convergenze tra destra e sinistra

di GENE GNOCCHI 

A - Ampia convergenza sul fatto che Del Piero come prima punta fa tattica e deve ritagliarsi un’altra posizione in campo, dietro agli attaccanti. Bertinotti propenderebbe invece per la fascia sinistra a supporto di Zambrotta

9 - Ampia convergenza sul fatto che il film di Susanna Tamaro è una palla micidiale. La Lega fa presente che il ministro Castelli è riuscito a vederlo tutto senza addormentarsi

8 - Ampia convergenza sul trasferimento della discarica di rifiuti tossici sull'Isola dei famosi. Bertinotti propone di salvare Alessia Merz, dirigente della sezione di Rifondazione "Gianni Pettenati" di Sassuolo

7 - Ampia convergenza sul primo articolo della nuova Costituzione: «L'Italia è una Repubblica fondata sul fatto che la sera, di riffa o di raffa, ci si imbuca tutti a "Porta a Porta"»

6 - Ampia convergenza sull’istituzione del Parco naturale del Pubblico Ministero, in cui i giudici potranno liberamente indagarsi tra loro

5 - Ampia convergenza sul fatto che i calendari più eccitanti sono quelli di Mascia e Alessia Fabiani. La Lega rileva che di Mascia preferisce la parte nord, mentre della Fabiani vanno bene anche il Sud e le Isole

4 - Ampia convergenza su una legge che impedisca a Montezemolo di diventare Gran Mogol delle Giovani Marmotte e presidente dell’Assopiastrelle

3 - Ampia convergenza sul fatto che il decoder Sky torni a funzionare con le schede taroccate

2 - Ampia convergenza sul fatto che alla Regione Puglia vengano tolti i contributi statali perché tanto lì vincono sempre al Superenalotto

1 - Ampia convergenza sul prossimo aumento di stipendio dei parlamentari. Lega e Rifondazione sono d’accordo 


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RESISTENZA - 30/9/04

STAMPA 30-9

Il piccolo borghese ai tempi di Berlusconi

Casa dolce casa

di Massimo Gramellini

Ministro Siniscalco, ebbene lo confesso: posseggo una casa. Non so come sia potuto succedere. Un momento di debolezza, credo, o le cattive compagnie. Infatti ho un amico che di case ne possiede addirittura due: un recidivo. Non potendo abitarle entrambe, quel capitalista senza scrupoli ha avuto la faccia tosta di affittare la seconda. Ci illumini, la prego: cosa possiamo ancora fare, noi latifondisti delle due camere e cucina, per espiare fino in fondo i nostri peccati?

Abbiamo appena saputo che l’Ici aumenterà di nuovo, perché ai Comuni in bolletta i soldi qualcuno deve pur darli, ed è giusto che si sia noi reprobi a farlo. Ci è stata anche annunciata una nuova tassa, pardon, una polizza obbligatoria contro le calamità naturali: terremoti, maremoti, frane, alluvioni, inondazioni ed eruzioni vulcaniche: e io che finora mi ero sempre limitato a dare un’occhiatina al «boiler». Eppure mi riesce difficile immaginare che l’Etna possa arrivare fino al mio salotto, a meno che non sia un assicuratore a portarcelo di persona. Per cui le chiedo se non sarebbe più rapido e indolore dichiarare fuorilegge il possesso di abitazioni, procedendo senza indugi a un generale esproprio di Stato. Così il governo azzererebbe di colpo il deficit del bilancio, vendendo tutta l’Italia, tinelli compresi, a qualche fondo-pensione americano. Quanto a noi, ultimi nostalgici, potremmo sempre trasferirci in Cina, dove pare che i comunisti locali tutelino con un po’ più di rispetto la proprietà privata.

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LIBERAZIONE 30-9

La mossa del Cavaliere

Berlusconi rilancia l'unità nazionale e si dice aperto al dialogo - Intanto tira dritto su giustizia, guerra e devolution

Frida Nacinovich

Berlusconi si modera. Quel tanto di cipria che basta a rubare la scena ai centristi. L'azzurro forzista sbiadisce, quasi si annulla nel bianco democristiano. Follini finisce a chi l'ha visto, e il quasi omonimo Frattini - che di mestiere fa il ministro degli Esteri - gli fa compagnia. Un'estate fa il segretario dell'Udc veniva accostato a don Chisciotte. Ora è Sancio Panza. Prima era nell'occhio di un ciclone fatto di telecamere, bloc-notes, microfoni e registratori. Oggi vota la devolution con la Lega (An e Forza Italia). I tempi cambiano, tempi moderni.

Franco Frattini, chi era costui? Il primo a dimenticarsi del suo ministro degli Esteri è stato il capo. Il premier. Se le due Simone e gli altri due pacifisti iracheni sono liberi, il merito è tutto di Gianni Letta. Parola di Berlusconi. Il presidente del Consiglio se ne vanta, quasi il sottosegretario fosse il suo fratello gemello. Ah, qualche merito ce l'ha anche Beppe Pisanu, ministro degli Interni. Frattini scompare sotto la linea di galleggiamento. E forza diccì che siamo tantissimi.

Carlo Azeglio Ciampi apprezza lo spirito unitario del premier che si modera. Maggioranza e opposizione sono unite contro il terrorismo. Si arriva fin qui. Poi c'è la guerra. Ci sono le controriforme, da quella istituzionale a quella della giustizia passando per quella della scuola e dell'università. C'è la finanziaria che arriva come una tempesta invernale. Per non tacer della legge sulla procreazione assistita. L'unità nazionale si scioglie come un iceberg ai Caraibi. Democristiani si nasce, e la maggioranza non lo nacque.

La riprova? Ecco Sandro Bondi, ex comunista contrito, pentito e redento sulla via di Arcore. La voce (del padrone) di Forza Italia oggi è ispirata. Parla come Baget Bozzo: «La giornata di ieri ha cambiato per sempre lo scenario della politica italiana. Quel bipolarismo mite di cui parla l'onorevole Fassino e la transizione ad una democrazia compiuta di cui Berlusconi è fautore possono diventare realtà».

Berlusconi si è dato una moderata. Dialogo, strana parola.

Il premier che si modera fa finta di dialogare con le opposizioni.

Berlusconi passa in sala trucco e si fa dare un nuovo velo di cipria: «Ci ho messo tanti anni per diventare così giovane».

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EUROPA on the Web 30-9

C’è alle Poste un regalo per Berlusconi

Un regalo a lungo sospirato in barba al conflitto di interessi.

di RAFFAELLA CASCIOLI

Una voracità insaziabile che lo ha portato a scaricare il povero Tremonti per sostituirlo con Siniscalco, ovvero il ministro sofficino come qualcuno l’ha definito.

Da luglio in poi si è detto che Tremonti era stato detronizzato dalla poltrona che fu di Quintino Sella per non essere riuscito a dare a Silvio quello che Silvio gli chiedeva. In una parola, a ridurre le tasse per milioni di contribuenti.

Silvio Berlusconi, che ieri ha spento 68 candeline sul varo della Finanziaria, potrebbe ricevere di qui a poco un regalo a lungo sospirato in barba al conflitto di interessi.

Altro che taglio delle tasse. Fedele a se stesso il premier pensa prima di tutto agli affari di famiglia. L’ex ministro dell’economia aveva promesso al premier il matrimonio tra Generali e Mediolanum ma ha fallito. Là dove, però, Tremonti non è riuscito potrebbe arrivare Siniscalco che potrebbe condurre Bancoposta direttamente nelle mani  di Mediolanum Banca.

La possibilità di ricorrere alla finanza creativa per porre fuori dal perimetro della pubblica amministrazione consistenti pacchetti azionari di proprietà del Tesoro consentirebbe anche di mettere a posto il secondo tassello del puzzle Mediolanum-Bancoposta. Infatti la convenzione sottoscritta da Poste e Mediolanum, in virtù della quale la seconda potrà vendere i propri prodotti presso i 14.000 sportelli postali sparsi in tutta Italia, rappresenta la prima pietra dell’intero progetto.

Il secondo passo è quello di prevedere una cessione da parte del Tesoro alla Cassa depositi e prestiti dell’intero pacchetto azionario di Poste Italiane con il doppio obiettivo di fare cassa a vantaggio della riduzione del debito e di avviare una sorta di privatizzazione dell’istituto presieduto da Enzo Cardi.

I numeri di Poste Italiane sono imponenti: al di là di una rete capillare composta da 14.000 sportelli postali diffusi in ogni comune italiano, l’azienda eroga pensioni a circa 20 milioni di italiani, vanta 140 filiali, conta su ricavi pari nel 2003 a 7,7 miliardi di euro. E il 2004 si prevede rosa con una crescita dei ricavi sia nella componente finanziaria che postale a due cifre. Con Bancoposta a Mediolanum Berlusconi porterebbe a casa un gigante finanziario in grado di completare l’impero del biscione.


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mercoledì, settembre 29, 2004

MEDITAZIONE - 29/9/04

APRILEONLINE 29-8

Per Simona e Simona pagato un milione di dollari

Strano rapimento e dubbi sul ruolo di Scelli

 [G.I.]

Il rapimento. Le modalità del rapimento di Simona Pari e Simona Torretta, cooperanti di “Un Ponte per…” e dei loro colleghi iracheni di Intesos ha subito suscitato diversi interrogativi. Il 7 settembre, venti uomini in divisa militare hanno fatto irruzione nella sede di “Un Ponte per..” a Baghdad, hanno chiesto i nomi dei presenti e una volta individuati i loro obiettivi sono fuggiti su diversi mezzi. Il sequestro è avvenuto in pieno giorno, nel centro della città, in una zona controllata dalla polizia irachena e dall’esercito americano. I rapitori avevano equipaggiamento militare, pistole con il silenziatore e fucili Ak47, e quindi erano visibilmente diversi tanto dai terroristi quanto dagli insorti. Inoltre un membro del commando si sarebbe rivolto ad un altro sequestratore chiamandolo “signore”. Infine, particolare più importante, tre dei sequestrati erano donne, il che sarebbe considerato disdicevole dai gruppi islamici ortodossi. Insomma, tutto era diverso da quanto avvenuto in precedenti occasioni.

Subito si sono fatte due ipotesi: i servizi segreti o la polizia irachena, magari sotto dettatura della Cia, avrebbe avuto una certa “convenienza” a rapire dei volontari pacifisti. Le frange più estremiste dell’amministrazione Bush e del governo iracheno potevano considerare un’azione del genere per dimostrare al mondo che il terrorismo non risparmia nessuno e suscitare così una reazione indignata nell’opinione pubblica occidentale.

L’altra ipotesi – meno dietrologica – prevedeva il coinvolgimento di un gruppo di sostenitori del regime di Saddam Hussein, forse dei reduci dell’esercito o dei servizi segreti. Tutto ciò per spiegare l’aspetto dei rapitori.

Le rivendicazioni. Prima il gruppo Al Zawahiri, poi la sedicente Jihad islamica in Iraq, rivendicano il rapimento. Si richiede prima la liberazione delle donne prigioniere in Iraq, poi il ritiro delle truppe italiane. Successivamente gli stessi due gruppi annunceranno che poiché l’Italia non ha accontentato le loro richieste, le due volontarie saranno uccise. Infine Al Zawahiri annuncia un video dell’esecuzione. Solo quest’ultimo messaggio suscita una qualche preoccupazione, proprio per il riferimento ad un filmato. Ma i due gruppi e i siti dove i messaggi appaiono sono considerati da tutte le intelligence del mondo fortemente inattendibili.

Verso la liberazione. E’ il giornale kuwaitiano “Al Rai” che annuncia, sabato scorso, che le due donne “sono vive e stanno bene”. Lo stesso giornale dirà all’ambasciatore italiano in Kuwait che la loro liberazione è vicina e avverrà entro il venerdì successivo. Re Abdallah di Giordania, in partenza per l’Italia, annuncia che il suo governo sta cercando gli ostaggi che starebbero bene. Proprio la Giordania pare abbia avuto un ruolo fondamentale nella trattativa.

La liberazione. E’ Al Jazira che annuncia al mondo la liberazione. E poi trasmette il video in cui le due Simone si tolgono il velo e mostrano il volto alle telecamere. Con loro Maurizio Scelli, il commissario della Croce Rossa italiana. E sul ruolo di Scelli, che aveva anche contribuito alla liberazione di Stefio, Agliana e Cupertino e riportato in Italia il corpo di Quattrocchi, gli interrogativi non mancano. Alcuni giorni fa aveva annunciato una missione in Iraq, senza fornire ulteriori particolari. Inoltre, la Croce Rossa ha tenuto a far sapere nei giorni scorsi che il gruppo sciita più importante della resistenza, i miliziani di Al Sadr, proteggono la Croce Rossa.

Il riscatto. Il quotidiano “Al Rai” sostiene che i sequestratori sono un gruppo islamico “moderato” e che il loro unico scopo sarebbe la fine dell’occupazione in Iraq. I rapimenti avrebbero il fine di finanziare l’attività del gruppo. Ma rimane da chiedersi perché il rapimento non sia mai stato apertamente rivendicato da questa organizzazione. “Al Rai” sostiene inoltre che è stato pagato un riscatto di un milione di dollari.

Perché? Ma perché rapire quattro volontari pacifisti? E’ questo il vero interrogativo. Al di là delle motivazioni politiche, la chiave potrebbe chiamarsi Valeria Castellani. Nel 2003 Valeria collabora con “Un Ponte per…” cercando di far ripartire la coltivazione dei datteri a Bassora. In precedenza avava lavorato anche per Intersos in Afghanistan. Poi, nel 2004, diventa l’amministratrice delegata della Dts. E la Dts non è altro che la società di sicurezza privata per cui lavoravano Stefio, Agliana, Cupertino e Quattrocchi, con sede in Nevada la cui proprietà è di Paolo Simeone, fidanzato di Valeria. Si può quindi avanzare l’ipotesi che chi conosceva questo collegamento ha visto in Simona e Simona, in “Un Ponte per…” e in Intersos organizzazioni solo formalmente di aiuto umanitario. O chissà cos’altro è passato per la mente di chi ha compiuto questo sequestro.


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RESISTENZA - 29/9/04

EUROPA on the Web 29-9

Voi comprereste una Rai usata da quell’uomo?

Berlusconi annuncia la privatizzazione del 20 per cento -- Ma c’è il trucco

di (gio.co.)

Comprereste un’auto usata da Berlusconi? Comprereste un pezzo di Rai dal suo principale concorrente? Fa uno strano effetto vedere il presidente del consiglio annunciare la privatizzazione dell’azienda pubblica. È successo ieri. «Entro marzo il 20 per cento della Rai sarà sul mercato».

D’accordo: prima di lui lo aveva già detto il ministro Gasparri e l’aveva scritto la legge che porta il suo nome.

Ma sentirlo ripetere da colui che si è vantato pubblicamente di non occuparsi più di televisione fa comunque uno strano effetto. L’effetto di una fregatura.

Solo in un paese ormai omeopaticamente allenato a tutto quello che è successo ieri può passare inosservato.

Per un kafkiano gioco di riflessi l’annuncio della vendita arriva da colui che di quella azienda dovrebbe essere il principale concorrente. Come se Repubblica annunciasse di aver cambiato il cda del Corriere della sera.

Se la partita non fosse così delicata si penserebbe alla gaffe di un inguaribile venditore. E invece non è così.

Perché l’interesse di Berlusconi nell’unico gruppo con cui si spartisce la ricca torta della televisione italiana è serio. Anzi, serissimo. Come noto, la strada scelta dal governo per la privatizzazione è quella dell’azionariato diffuso. Tanto diffuso che nessun privato potrà possedere più dell’1 per cento. Chi vorrà potrà portarsi a casa il suo mattoncino di Rai, neanche fosse un pezzo del muro di Berlino. Per gli altri, magari interessati a comprarsi un intero canale (com’è successo per Tf1 in Francia), nessuna speranza. Praticamente una privatizzazione a misura di abbonato.

Tradotto: questa privatizzazione della Rai è una bufala. Ma anche la privatizzazione di questa Rai è una bufala.

Un’azienda decapitata ormai da sei mesi, con un consiglio di amministrazione nel congelatore e un nuovo cda destinato comunque a lavorare sotto tutela del governo. Con la vendita del 20 per cento, infatti, solo due consiglieri “indipendenti” potranno entrare nel cda che per gli altri sette componenti sarà formato da due membri nominati dall’opposizione, tre dalla maggioranza e due dal ministero dell’economia (tra i quali il presidente). Qualcuno pensa davvero che a queste condizioni la Rai privatizzata diventerà un’azienda normale? Chi si aspetta di acquistare un pezzo di Rai finalmente liberata dai partiti è meglio che non si faccia troppe illusioni.

L’avvento dei privati avrà solo l’effetto di rovinare la festa a chi pregustava l’abbuffata di poltrone di tutto l’arco costituzionale. Ma il controllo continuerà a restare ben saldo nelle mani di un uomo solo e della sua maggioranza.

Convincere l’“abbonato Rai” a mettere mano al portafoglio non sarà facile.

Già vediamo le valanghe di spot che inonderanno i palinsesti di dati e di cifre. La parola magica diventerà public company. Ma alla fine la domanda vera sarà sempre quella: voi comprereste un’auto usata da quell’uomo?

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APRILEONLINE 29-9

Gelli, Berlusconi e il Corriere della Sera

Un libro utile a comprendere la pericolosa deriva cui assistiamo

[Emiliano Sbaraglia]

“Assalto alla stampa. Controllare i media per governare l’opinione pubblica” di Gabriele Mastellarini (Edizioni Dedalo, pp.190, €15).

L’autore, un giovane giornalista collaboratore del gruppo editoriale “Il Sole 24 Ore” (già curatore qualche anno fa di un documentario su “Il caso Aldo Moro tra cronaca e politica”, prodotto dall’Università di Teramo), ripercorre in sei capitoli densi di contenuto la storia più recente dell’Italia dal punto di vista dei rapporti tra stampa e potere, comunicazione e manipolazione della notizia mediatica, accordi politici e affari economici.

Attraverso l’analisi di una serie di documenti di forte interesse per la ricostruzione di alcune delicatissime vicende della nostra travagliata democrazia, Mastellarini offre una incisiva chiave di lettura delle torbide alleanze che negli anni hanno posto alla ribalta personaggi dalla manifesta ambiguità, quali Robero Calvi e il cardinale Paul Marcinkus, Licio Gelli e l’attuale Presidente del Consiglio. E come ben sottolineato nella prefazione di Nicola Tranfaglia, il cuore di questo libro devono considerarsi proprio i paragrafi dedicati al tentativo ben riuscito da parte del Venerabile e dei suoi accoliti, di impadronirsi prima del Gruppo Rizzoli, e conseguentemente della gestione del più importante quotidiano italiano, il “Corriere della Sera”, nel periodo durante il quale con la direzione di Piero Ottone il giornale sembrava aver assunto posizioni molto più coraggiose rispetto ai precedenti orientamenti, tendenzialmente conservatori.

Le trame di tale situazione delineano nel corso delle pagine uno scenario a dir poco preoccupante, che vede recuperare negli anni l’iniziale progetto P2 per mano di imprenditori (Della Valle, Ligresti) legati poco chiaramente ai nuovi rappresentanti delle istituzioni politiche, sino ad arrivare al commento delle ultime dimissioni di Ferruccio De Bortoli, considerato troppo indipendente dai cosiddetti poteri forti, e sostituito dal più moderato Stefano Folli, grazie a questo nuovo “attacco alla stampa” condotto nei confronti del blocco RCS-Corriere, ma non solo.

Naturale è infatti il riferimento anche a tutta l'incredibile storia della televisione italiana, concentrata oggi nelle mani di un solo uomo, saldamente alla guida di palinsesto pubblico e privato, degno e fedele erede dei suoi precedenti e noti protettori. Tessera numero 1816, il Gran Maestro insegna.

Un libro da leggere, dunque, con particolare attenzione in alcuni suoi passaggi. Potrebbero tornare utili a comprendere meglio la turbolenta e pericolosa deriva cui assistiamo.


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martedì, settembre 28, 2004

MEDITAZIONE - 28/9/04

ESPRESSO on-line 28-9

Democrazia imperiale

Bush esprime l'anima nuova dell'America che è rimasta l'unica potenza

Eugenio Scalfari

 Scrive Vittorio Zucconi su 'Repubblica' del 20 settembre che tra le (quasi impossibili) elezioni irachene che dovrebbero tenersi nel prossimo gennaio e le elezioni presidenziali Usa del 2 novembre corre un filo diretto. Bush ha assoluto bisogno di mantenere nell'opinione della maggioranza degli americani la fiducia nel buon andamento della situazione irachena, premessa per lui indispensabile alla vittoria elettorale. Perciò cerca con tutti i mezzi di attenuare e nei limiti del possibile nascondere le dimensioni del disastro iracheno. Su queste reticenze e menzogne si fonda in larga misure il suo vantaggio sul rivale Kerry. Quando infine la verità apparirà lampante, sarà troppo tardi, Bush avrà conquistato il suo secondo mandato e il partito democratico dovrà rinviare a chissà quando i propositi di tornare alla Casa Bianca.

Zucconi non è il solo a formulare questa diagnosi, direi che quasi tutti i più seri analisti della politica americana concordano sul fatto che il maggior 'peccato' da imputare all'amministrazione Bush non è l'errore compiuto nello scatenamento della guerra irachena, ma nella devastazione che essa ha causato al principio della trasparenza e all'obbligo della verità come elementi basilari della democrazia.

Reticenze e menzogne sono pratiche incompatibili con la democrazia in genere e con quella sancita dai padri fondatori della Costituzione americana in particolare. La guerra preventiva contro Saddam Hussein e quel che ne è seguito hanno prodotto ferite difficilmente rimarginabili del tessuto politico e morale del più grande paese del mondo, con conseguenze ancora non valutabili sul resto dell'Occidente.

Mi permetto tuttavia di avanzare un'altra ipotesi, non necessariamente alternativa alla precedente. Secondo me non è soltanto l'iniziativa di Bush e la sua presenza al vertice ad aver indotto forti mutamenti nel sistema, ma il fatto che è il sistema in quanto tale che sta cambiando natura. La democrazia americana conserva certamente le profonde caratteristiche che presiedettero alla sua fondazione e alla sua evoluzione nel corso di duecent'anni, ma ne ha acquisite altre in tempi più recenti e son per più aspetti contraddittorie rispetto a quelle tradizionali. Per dirla in breve, il sistema americano sta rapidamente evolvendo verso una sorta di democrazia imperiale, sia a causa di proprie pulsioni interne sia a causa di mutamenti altrettanto profondi in corso in Europa e in Asia. Questa evoluzione è stata soltanto accelerata dall'evento dell'11 settembre. Secondo me sbaglia chi fa coincidere la nuova storia del pianeta con quella data e con il trauma che l'abbattimento delle torri gemelle ha cagionato nel popolo americano. Il mutamento era cominciato parecchio tempo prima. L'11 settembre ne costituisce non la causa, ma una delle concause e per certi aspetti addirittura un effetto. E Bush, con tutto il corteggio dei neo-conservatori da un lato e della religione 'crociata' dall'altro, rappresenta l'inevitabile prodotto di questo complesso di circostanze.

A questo punto si pone una domanda: quando e perché gli Stati Unti sono diventati una democrazia imperiale? Il quando si può situare nel momento della caduta del Muro di Berlino, cioè dell'implosione e del disfacimento dell'Urss e del trionfo del cosiddetto pensiero unico: esce di scena l'altra grande potenza nucleare, affonda l'ideologia comunista, si dispiega con tutta la sua forza la globalizzazione dei mercati, delle comunicazioni, del costume.

Il perché è dato dall'altra faccia della stessa medaglia ed è il dominio, conclamato e spinto al parossismo, della tecnologia su tutti gli altri aspetti della vita sociale e perfino individuale. Al punto che da parte di una linea di pensiero molto autorevole si comincia a sostenere che il rapporto di dipendenza della tecnologia dall'uomo, che ha retto l'evoluzione della nostra specie dalla comparsa dell''homo sapiens' fino a oggi, è stato da un paio di decenni almeno capovolto. Ora è la tecnologia, intesa come massa di prodotti e di saperi, che guida l'uomo e lo condiziona nelle sue scelte e quindi nella sua evoluzione; insomma nel mutamento del suo essere, nelle scelte dei suoi obiettivi, nella sua stessa struttura antropologica.

Gli Stati Uniti sono di gran lunga la prima potenza tecnologica del pianeta. In un mondo globale dominato dalla tecnologia è chiaro che l''imperium' spetterà a chi possiede le risorse tecnologiche nel guidarlo. La classe dirigente americana è perfettamente consapevole di queste verità. Forse per una parte della popolazione questa consapevolezza non è ancora del tutto chiara, ma sia pure in modo implicito tutti i cittadini di quella grande e collaudata democrazia sanno qual è ormai il ruolo dell'America nel mondo . La scomparsa di fatto del vecchio isolazionismo ne costituisce il segnale più evidente: in un mondo globale e tecnologico l'isolazionismo non ha più senso alcuno, la delocalizzazione delle attività cancella i confini e le aree di influenza. Cambiano inevitabilmente le modalità della guerra. Infine, spiace doverlo dire ma è semplicemente una constatazione, in un mondo dominato da gigantesche forze tecnologiche concentrate in un solo paese, il modo di opporvisi è soltanto quello del terrorismo. Esso costituisce la risposta del mondo debole all''imperium' dell'unica potenza planetaria esistente. Piaccia o non piaccia, la situazione è questa. Di conseguenza sta cambiando il sentire del popolo americano.

Un popolo che partecipa al suo ruolo e al suo destino imperiale giudica i fatti con una scala di valori diversa da prima e diversa da quella ancora valida per gli altri popoli. Certo anche la potenza imperiale si può dar carico di una diffusione equilibrata del benessere nella misura in cui essa rafforzi ed estenda il suo ruolo. La potenza imperiale si assegna altresì il compito di insegnare ai paesi soggetti le forme e i metodi del buon governo, sempre che sia un buon governo disposto a riconoscere e accettare l'appartenenza all'impero, dal quale deriva la legittimazione d'ogni altro potere.

In tale contrasto è del tutto naturale il 'neglect' nei confronti dell'Onu e dell'Europa quando da loro provengano segnali di resistenze e di critica: l'impero non sopporta limitazioni esterne alla sua forza e al suo potere legittimante. Questa sembra a me la realtà in cui viviamo e questo autorizza a pensare che non sia Bush a manipolare la vera anima dell'America ma che Bush esprima l'anima imperiale dell'America. Probabilmente la esprime male e forse può condurla alla sconfitta. Ma questo è un altro discorso.


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RESISTENZA - 28/9/04

LA COSTITUZIONE DI BERLUSCONI

CENTOMOVIMENTI NEWS 28-9

La Casa delle Libertà approva la devolution

Violante: "E' una minestra immangiabile”

Con 261 sì, 208 no e 6 astenuti la Camera dei Deputati ha licenziato la riforma federale voluta dalla Lega, un progetto che, modificando l'articolo 117 della Costituzione, ha introdotto di fatto la devolution nell'ordinamento italiano.

Un testo, quello approvato oggi alla Camera, bocciato "senza se e senza ma" dalle opposizioni, che hanno votato compatte per il "no".

Grande soddisfazione invece per la maggioranza, ed in particolare per il Carroccio. Subito dopo avere appreso la notizia del voto di Montecitorio, Umberto Bossi ha telefonato al ministro per le Riforme Roberto Calderoli.

"Voglio fare un plauso a Calderoli per avere portato avanti il federalismo e per il lavoro che ha fatto per la devolution - ha poi affermato il Senatur - Calderoli adesso è riuscito a chiudere una partita difficile. Il tempo poi perfezionerà le cose".

"E' una minestra immangiabile - ha invece commentato il diessino Luciano Violante - in realtà è tutto il progetto che è squinternato perché si sono incrociate logiche diverse: quella centralistica, quella federalista e quella scissionista della Lega.

E, per l'esponente della Margherita Pierluigi Castagnetti, con questa riforma "la Carta fondamentale viene stravolta nei suoi principi fondamentali".

"Vengono stravolti i presidi del presidente della Repubblica e della Corte Costituzionale, ma anche il Parlamento - ha spiegato - sono le Istituzioni che garantiscono la qualità della Democrazia nel nostro Paese".

Un appello in merito alla devoluzione era arrivato oggi dai Vescovi italiani che, presentando le conclusioni dei lavori del Consiglio permanente, avevano auspicato che Montecitorio potesse licenziare un testo che avesse un occhio di riguardo per l'unità del Paese e per la solidarietà.

Qualche giorno fa il settimanale cattolico Famiglia Cristiana aveva criticato il progetto, definendolo "una Riforma che non piace a nessuno".

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CORSERA 28-9

“Una favola per bambini di 5 anni (al massimo)”

di GIOVANNI SARTORI

Oggi la Camera approverà (ha approvato – NdR) con la consueta maggioranza a prova di bomba la cosiddetta devolution (detta in inglese per sottolineare il poliglottismo dei padani), e cioè approverà l’elemento caratterizzante dell’assetto federale che si vuole dare al Paese. E così come è scontato che tutta la riforma costituzionale passerà come la impone la maggioranza, in queste condizioni è anche scontato che l’opposizione si opporrà a oltranza. Ma che una opposizione si opponga è anche normale, e non è motivo di scandalo. Quel che non è normale, e che fa scandalo, è che una riforma costituzionale venga attuata a dispetto degli esperti, e cioè dei costituzionalisti, e platealmente infischiandosi del loro parere. E’ noto, dovrebbe essere noto, che in larghissima maggioranza i nostri costituzionalisti giudicano la riforma Bossi-Berlusconi una pessima riforma. Ora, siccome studiare le Costituzioni è il loro mestiere, si deve presumere che i costituzionalisti sanno quello che dicono. E se i politici li ignorano, si deve presumere che non sanno quello che fanno. Difatti. Scrivendo su queste colonne ho sollevato due problemi: uno di costo, l’altro di cattiva ingegneria. Ho chiesto: questo federalismo quanto costerà? E poi mi sono chiesto: sta in piedi o no?

Sul costo Berlusconi ci ha fatto sapere che non costerà niente. Troppo bravo; è anche bravissimo chi gli crede (io, senza offesa, no). Invece il ministro Calderoli ha dichiarato che le riforme costituzionali affermano principi che non possono essere sottoposti a valutazioni di costo. Sì e no. Sì, se il costo sarà prevedibilmente modesto; ma no se potrà essere colossale. Una delle stime che circolano arriva a prevedere addirittura 100 miliardi di euro (200 mila miliardi di vecchie lire) gradualizzati in cinque anni. E dunque c’è poco da scherzare.

Però, attenzione. Le cifre che circolano talvolta confondono tra consuntivi e preventivi, e anche fra trasferimenti (dal bilancio dello Stato a quello delle Regioni) e costi aggiuntivi. E il problema sono i costi aggiuntivi, i costi in più. Che dipenderanno da quanti impiegati dello Stato non si lasceranno trasferire da Roma alle capitali regionali, e da quanti saranno i nuovi uffici che le Regioni istituiranno per espletare le nuove funzioni. Un costo zero richiede che lo Stato centrale si sgonfi esattamente di quanto i sotto-Stati regionali si andranno a gonfiare. Invece lo Stato centrale non si sgonfia (Sabino Cassese nota che dal 2002, da quando funzioni, uffici e personale statali dovevano essere trasferiti alle Regioni, è successo invece che le strutture centrali dello Stato sono «aumentate in modo cospicuo»); ed è sicuro che i sotto-Stati regionali si gonfieranno ben oltre il necessario per sistemare clientele e compagnucci di partito. Il costo zero è davvero una favola per bambini di 5 anni (al massimo). Il costo vero sarà quello di una ventina di duplicazioni gonfiate.

L’altro quesito è se il federalismo in salsa italiana stia in piedi oppure no. Ho già risposto no una settimana fa. No, perché si fonda su gambe sbagliate, su un Senato federale che non è federale (come i futuri governatori delle Regioni hanno capito), e anche perché fabbrica un sistema complessivo di dissennata macchinosità che sarà anche un paradiso di litigi e di conflitti di competenze. Prima parlavo di costo finanziario. Ma esistono anche «costi decisionali», il danno provocato da ritardi, non-decisioni e disfunzionalità. E anche questi costi andranno sicuramente a crescere.

Di questo papocchio devolutivo federale chi vuol esser lieto sia. Ma lo sono davvero, nel segreto del loro cuore, i deputati che lo stanno votando? 

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L’UNITA’ on-line 28-9

Berlusconi usa la diretta per uno spot alla devolution

Alle ore 18.17 Berlusconi convoca la prima conferenza stampa. Telegrafico, rivela che stamattina il sottosegretario alla presidenza del Consiglio Gianni Letta aveva informato i leader dell’opposizione di una trattativa in corso per la liberazione delle due volontarie di Un Ponte per…. A lui dice il merito della gestione della vicenda. La trattativa, secondo quando riferisce Berlusconi, «era in fase di conclusione». Le volontarie italiane sarebbero state affidate alla Croce Rossa, in buone condizioni fisiche. Già da stasera potrebbero fare ritorno a casa.

Poco dopo Berlusconi interviene anche alla Camera. Si prende buona parte del merito, ma questo è normale. Diffonde sorrisi, fa i complimenti ai leader dell'opposizione. «Se noi come in questa vicenda riuscissimo a trovare una comunità di intenti avrebbe da guadagnarne tutto il paese». Poi non riesce a trattenersi. E inizia un assurdo spot sulla devolution, «una legge che non è così brutta come voi dite - ammicca rivolgendosi ai banchi del centrosinistra - Auguro a tutti voi buon lavoro e mi auguro che la riforma costituzionale su cui state discutendo possa migliorare il nostro paese e non invece come qualcuno teme rendere più difficile l'operatività parlamentare». Si alza qualche protesta. La diretta tv, appena in tempo, si interrompe.

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LIBERAZIONE 28-9

Corsivo

Berlusconi e la giustizia dei miracoli

DON PANCRAZIO

L'auto-miracolato Silvio Berlusconi, il miracolato apparentato Paolo Berlusconi, il miracolato accomparato Cesare Previti, il co-miracolato Marcello Dell'Utri e il miracolatissimo Gianstefano Frigerio (l'ex-segretario lombardo della Dc presentato dal partito del premier alle ultime elezioni politiche in Puglia sotto il falso nome di Carlo Frigerio - mentre era in carcere a Milano per storie varie di mazzette e corruzione - e regolarmente eletto deputato) hanno subito dichiarato che non sono affatto spaventati dalla rielezione a sorpresa, al vertice dell'Associazione Nazionale Magistrati, del temutissimo "moderato" Edmondo Bruti Liberati. Anche loro, in Forza Italia - fanno sapere - possono contare e mobilitare numerosi bruti liberati.

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EUROPA on the Web 28-9

Berlusconi ha un sogno: Bancoposta a Mediolanum

E il conflitto di interessi?

Le privatizzazioni virtuali rappresentano uno dei nodi più stretti della prima finanziaria firmata da Domenico Siniscalco. Un sentiero ripido e pieno di trabocchetti che, tuttavia, potrebbe costituire per qualcuno una grande opportunità. Se infatti al momento i tecnici di via Venti Settembre starebbero valutando il passaggio di quote azionarie di società a forte redditività, come Eni e Enel, dal Tesoro alla Cassa depositi e prestiti, un’eventuale cessione delle Poste Italiane potrebbe aprire scenari ben peggiori.

Mentre in questi giorni si rincorrono voci sempre più insistenti su una possibile cessione delle Poste alla Cassa depositi e prestiti, l’ennesima finzione giuridica di una alienazione di un bene dello stato potrebbe rappresentare un primo passo prima dell’approdo alla quotazione in Borsa.

Nel bilancio dell’azienda la privatizzazione è indicata come possibile già dalla seconda metà di quest’anno anche se si ipotizza che ci vorrebbe almeno un anno per la sua realizzazione e lo stesso amministratore delegato Massimo Sarmi ha definito i tempi maturi per la dismissione. Il rischio che si annida è che si proceda prima o poi alla vendita di Bancoposta, ovvero la parte più appetibile di Poste Italiane, e che questa finisca – anche alla luce dell’accordo sottoscritto tra Mediolanum e Poste Italiane – a Mediolanum portando alla creazione di un gigante finanziario direttamente alle dipendenze del presidente del consiglio. Si riempirebbe così l’ultimo tassello che ancora manca all’impero del biscione.

Proseguono intanto gli incontri serrati tra il ministro dell’economia Domenico Siniscalco e i colleghi in vista del varo della Finanziaria da parte del consiglio dei ministri convocato per domani. Tra i nodi da sciogliere della manovra figurano non solo i collegati su competitività e fisco, ma anche la cosiddetta manutenzione della base imponibile che dovrebbe portare nelle casse dello stato 7 miliardi di euro e che di fatto rappresenta un inasprimento della pressione fiscale per i lavoratori autonomi.


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lunedì, settembre 27, 2004

MEDITAZIONE - 27/9/04

MANIFESTO 26-9

L'invasione dei Liberali Giganti

ALESSANDRO ROBECCHI

Le idee liberali andrebbero vendute in farmacia. Con l'attuale mercato selvaggio, chi si nutre di idee liberali ne vuole di più, poi ancora di più, vuole aumentare le dosi, non gli basta mai, finisce col fregarti la pensione per comprarsi il liberismo. Seguo quindi con una certa ansia l'invasione dei Liberali Giganti, la cui missione è ovviamente conquistare il mondo, abbattere a testate il welfare e sostituirlo al più presto con le mirabilie del mercato. La storia è vecchia e gira sempre intorno alle stesse parole: (sociale, libertà, eccetera) e in certe analisi il liberissimo mercato pare proprio un paradiso con i fiumi di latte e miele. Tanto bello e mirabolante che una domanda viene spontanea: dov'è la sòla? Come spiega Giuseppe De Rita (sul Corriere), due concezioni del «sociale» si danno battaglia in campo aperto. Una, vecchia, barbogia e polverosa (lui dice «declinante») sarebbe quella che vuole il sociale come «impegno alla copertura pubblica dei bisogni collettivi». Cioè lo stato sociale: tu paghi (in proporzione) e lo stato ti assicura scuole, sanità, pensioni e altri servizietti dannatamente illiberali (mi consenta). L'altra concezione del sociale è invece più moderna e luccicante: «l'accesso popolare a beni e servizi resi sempre meno costosi dal mercato e dalla concorrenza». Insomma si dibatte su cos'è veramente sociale: avere un ospedale a portata di mano oppure comprarsi il letto svedese in truciolato per cento euro? Prendere una pensione dopo quarant'anni di lavoro oppure volare a Londra con cinquanta euro? Tutti aspettiamo il momento del Grande Baratto, quando ci verrà detto chiaro e tondo: ehi, amico, vorresti anche la scuola pubblica? Non essere avido, ti abbiamo già dato la tendina della doccia a soli 9 euro e 90! Lascerò perdere qui, per carità di patria, la boutade del professor Padoa-Schioppa (sempre sul Corriere) che i Liberali Giganti prendono tanto sul serio. Papale-papale: «Oggi la giovane coppia che vive con mille euro al mese può arredare casa, ascoltare ottima musica o andare con facilità a Londra grazie ai prezzi di Ikea, Naxos e Ryan Air... Dove sta il sociale?». Capito che culo, gente? Vivete in due con mille euro, magari con contrattini chewingum, precari, a termine o a progetto, però dovete ammettere che vi vendiamo i dischi con lo sconto. Ganzi, eh! Cominciavo a preoccuparmi. Com'è - mi dicevo - che queste lungimiranti teorie non vengono al più presto riprese e rilanciate? Detto, fatto. Ecco Piero Ostellino che (sempre sul Corriere, è un'epidemia!) ci invita a «pensare liberale» e rilancia alla grande, passando dal supermarket alla filosofia. Cosa ci impedisce di essere liberali? Il nostro ottuso identificare l'idea di benessere con l'idea di libertà, mentre è chiaro ai Liberali Giganti che benessere e libertà sono due cose completamente diverse e slegate tra loro. Testuali parole: «In realtà più benessere non genera più libertà. Chi dorme al Grand Hotel non è più libero di chi dorme sotto i ponti». Visto? Non è una questione di libertà, semmai di artrite! Non è che ti costringiamo a vivere sotto i ponti, amico, cerca di capire, sei tu che sei povero. E invece i cattivi che non vogliono abbassare le tasse e si oppongono a un «ridimensionamento del welfare» minano sì la libertà, eccome. Quale libertà viene violata? Dice Ostellino: «la libertà del cittadino di disporre a proprio piacimento di una maggiore porzione del proprio reddito». Traduco in italiano: perché dovrei privarmi di una fettina del mio reddito per farti un ospedale? Sei malato? Sei povero? Cazzi tuoi, che mi sembra una buona sintesi del «pensare liberale».

Ora non voglio essere barbogio e polveroso (e nemmeno «declinante» se De Rita permette), e voglio anzi mostrarmi aperto e disponibile agli esperimenti sul corpaccione sociale del Paese. Sono dunque pronto ad accettare una sperimentazione dei metodi teorizzati. Propongo che De Rita, Padoa-Schioppa e Ostellino vivano insieme con mille euro al mese. Potrebbero arredare la loro casetta, sentire ottima musica e ogni tanto volare a Londra a prezzi bassi. In cambio, dovrebbero soltanto rinunciare alla pensione, alla sanità e alla scuola pubblica. Siccome secondo loro questo è un buono scambio, direi di provare ad applicarlo, almeno in via sperimentale, e cominciare proprio da loro. Credo che basterebbero pochi mesi di battaglie con le bollette, l'affitto, l'inflazione, i ticket e il generale incarognimento dei prezzi e l'inarrestabile precarizzazione del lavoro per riparlare poi, un po' più sensatamente, del significato della parola «sociale».

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CITAZIONE

Tutti possono permettersi una spesa da Ikea, ma non per questo campano meglio di prima perché il prezzo da pagare non è solo quello esposto sul cartellino. E allora non c'è solo il beneficio di poter comprare da Ikea anziché da un mobiliere di Cantù, o di volare Ryanair anziché Alitalia (anche se tra il mobile di Cantù e quello di Ikea qualche differenza c'è, e se una Ryanair ti porta più dove dice lei che dove vuoi tu). C'è un saldo che va calcolato «al netto delle partite di giro» affinché non si risolva in qualcosa di simile a una presa in giro. Perché è vero che, nel mondo globale nel quale tutto si lega, c'è una offerta a basso costo che prima non c'era, ma quella offerta è la faccia amica di una medaglia che, con l'altra faccia, ci impone di ridurre ciò che costiamo noi in termini di retribuzione, di contributi, di prestazioni sociali, di certezza del posto di lavoro, di programmabilità della vita. Non è detto il saldo sia negativo, per carità; ma non è detto neppure che con certezza possa essere dato per positivo per la maggioranza delle persone. Sarebbe possibile se si fosse avverata la prospettiva che i liberisti andavano offrendo: le produzioni a basso costo verranno cedute ai Paesi emergenti e i Paesi evoluti faranno cose più sofisticate, più innovative, più redditizie in modo che tutti, emergenti ed evoluti, potranno progredire sulla via del benessere. Ma questo eldorado è rimasto una chimera: il reddito dei Paesi come l'Italia ristagna; all'interno, si sposta dalle persone alle imprese; e tra le persone da quelle che hanno meno a quelle che hanno più. Questo è «il sociale» dei nostri giorni. Un giorno forse ce ne sarà uno, tra i liberisti, che in un raptus di onestà intellettuale arriverà a riconoscere la contraddizione nella quale i suoi teoremi si sono drammaticamente impigliati.

(Alfredo Recanatesi, Stampa 27-9)


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domenica, settembre 26, 2004

MEDITAZIONE - 26/9/04

REPUBBLICA on-line 26-9

Siamo condannati all’Impero?

EUGENIO SCALFARI

A meno d'un miracolo la maggioranza degli elettori americani il 2 novembre riconfermerà Bush pur essendo convinta che Bush ha commesso gravi errori dichiarando la guerra e compromettendo la pace. I sondaggi di questi giorni confermano questa sorta di schizofrenia del popolo americano: dà torto a Bush ma vota per lui. Bisogna domandarsene il perché.

Credo dipenda dalla trasformazione della democrazia americana in una democrazia imperiale. Avvenne qualche cosa di analogo nell'antica Roma repubblicana: dopo la distruzione di Cartagine, sulle cui rovine si dice che Scipione pianse, la repubblica imboccò la via dell'impero e di lì a settant'anni il Senatus Populusque fu mandato in soffitta.

Le analogie sono arbitrarie, le situazioni sono profondamente diverse e non confrontabili, ma resta che i cittadini d'una moderna democrazia imperiale hanno una scala di valori che non è più quella dei padri fondatori di Philadelphia e a maggior ragione non è più quella delle altre nazioni dell'Occidente.

Una democrazia imperiale vede anzitutto il bene comune dell'impero perché quello è il punto di vista dal quale guarda l'evoluzione dei fatti.

Una democrazia imperiale si arroga un potere legittimante: i governi amici sono legittimati come democratici anche se non lo sono. Tutto il Maghreb dall'Egitto al Marocco si regge su regimi assai poco democratici. Idem l'Arabia e gli Emirati. Ma sono amici. Così è stato ed in gran parte è tuttora nell'America centrale e meridionale.

La democrazia imperiale salvaguarda i diritti dei suoi cittadini, ma non quelli degli altri paesi. Infatti l'altra America, quella non imperiale, può protestare e testimoniare la propria verità in piena libertà affermando e sostenendo tesi che in altre parti dell'area imperiale sono tacciate di tradimento, viltà morale e punite con la discriminazione.

Un'altra America esiste e ne registriamo tutti i giorni la combattiva presenza come pure l'identità dei valori con i nostri valori occidentali, ma temo che la forza degli interessi e dei fatti non stia dalla sua parte.

Quando un impero prende coscienza di esistere è improbabile che possa e voglia tornare indietro; quando si varca un Rubicone il dado è gettato.

Perciò credo che Bush vincerà. Non sarà un bene né per l'Europa e neppure per l'America. Ma questa sarà un'altra storia e la vedranno i figli e i nipoti.

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CITAZIONE

Dobbiamo saper vedere…

…sennò non sapremo cosa rispondere, a quel che dice Bin Laden nell'ultimatum all'Europa del 15 aprile: «In quale religione i vostri morti sono innocenti e i nostri non valgono nulla, ed il vostro sangue è sangue e il nostro acqua?». Non dimentichiamo che il grido di Osama echeggia quello dell'ebreo Shylock, nel Mercante di Venezia di Shakespeare: «Un ebreo non ha occhi? non ha mani, un ebreo, e membra, corpo, sensi, sentimenti, passioni? non si nutre dello stesso cibo, non è ferito dalle stesse armi, soggetto alle stesse malattie, guarito dalle stesse medicine, scaldato e gelato dalla stessa estate e inverno di un cristiano?... Se ci pungete non sanguiniamo? se ci fate il solletico, non ridiamo? se ci avvelenate, non moriamo? e se ci fate torto, non ci vendicheremo?».

(Barbara Spinelli, Stampa 26-9)

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CORSERA 28-9

La guerra senza fronte

di ENZO BIAGI

Cambia tutto: anche la guerra. Quella che si sta combattendo ora non ha un fronte, il pericolo può nascondersi ovunque e il nemico ha un totale disprezzo della vita, anche della sua. Non è neppure quella dei grandi gesti: Balilla, che tira un sasso all’avversario, sarebbe - credo - preso a sculaccioni. Suppongo che Enrico Toti, mutilato di una gamba, non verrebbe arruolato nei bersaglieri: probabilmente è più facile un generale senza testa. Una volta nelle vetrine un cartello ammoniva: «Taci: il nemico ti ascolta». Per la verità non c’era molto da dire. Adesso sarebbe superfluo: il nemico ti vede, si sa tutto di tutti. Maupassant diceva: «Disonoriamo la guerra». E c’è qualcuno che l’ha dichiarata anche santa. Ma quanto vale la vita di un uomo? E si tenta perfino di coinvolgere Dio; «Gott mit uns», è con noi, stava impresso nei cinturoni nazisti. Escludo che Dio fosse alleato di Hitler.

Ci sono domande alle quali è difficile rispondere: chi sono gli iracheni e che cosa vogliono? Chi è il ricercato (da anni) Bin Laden? Chi lo sostiene e chi ha contro?

Certo, il progresso avanza. Abbiamo fabbricato i «missili intelligenti»: sono quelli che ti accoppano di sicuro. Qualche volta, però, anche queste bombe volanti hanno non solo una caduta di stile, ma anche sbagliata. Una volta dovevano colpire il rifugio di Bin Laden, e invece centrarono una sede dell’Onu. Si parla di «guerre sante», ma se si pensa agli innocenti che ci lasciano la vita, questa sacralità non mi pare sia nei programmi. Abbiamo raggiunto la globalizzazione ma della paura. Il dolore e lo sgomento arrivano ovunque. Chiamano New York «la Grande Mela»: hanno scosso l’albero.


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RESISTENZA - 26/9/04

L’UNITA’ on-line 26-9

La gente è stanca – loro hanno un capo, e noi?

Berlusconi governa male ma governa

di Furio Colombo

 Viviamo in un tempo di immense complicazioni. La guerra che non doveva cominciare non può finire.

In America un candidato eroe di guerra che si batte per la pace è indicato come un traditore, un presidente imboscato nel Vietnam e sconfitto da se stesso in Iraq, si presenta come un condottiero e proclama «stiamo vincendo».

In Italia Prodi ha detto una frase che è una chiara descrizione del momento: «La gente è stanca».

Immaginiamo, da italiani, di essere già arrivati al nostro momento del confronto, il momento in cui, nel nostro Paese, dovremo scegliere fra chi governa - Silvio Berlusconi e la sua destra - e chi si candida per governare, la coalizione dell’Ulivo. La situazione che attraversa il Paese è complicata, controversa, angosciosa, illeggibile come quella americana. In più siamo parte di una guerra mai dichiarata e anzi chiamata “pace”.

I lettori di questo giornale sanno già ciò che pensiamo del governo Berlusconi. Pensiamo che sia pessimo, e non ci siamo stancati di ripeterne le ragioni. Però siamo consapevoli che per molti cittadini questa, per grave che sia, non è una ragione sufficiente per non rieleggere l’uomo che in questi anni ha governato (male) il Paese. Non lo è perché Berlusconi ha un forte scudo mediatico che in parte nasconde i suoi danni e in parte ritocca la sua immagine. Per capirlo basta un piccolo esempio: nessun capo di governo democratico ha mai potuto o potrebbe dichiarare “segreto di Stato” le modifiche apportate dai suoi architetti a una villa di sua proprietà. In nessun Paese sarebbe possibile non dichiarare il costo di quel segreto, e - se lo ha pagato lo Stato - che cosa ne sarà il giorno in cui Berlusconi lascerà il governo.

Ecco, il problema è tutto qui. Quanto è lontano quel giorno? Berlusconi governa male ma governa. Per questa sola ragione un sacco di gente sta pensando che tocchi a lui farsi carico dei problemi enormi in cui siamo caduti. Li risolva lui, che ne è responsabile. In altre parole, lo scudo mediatico non solo attenua o cancella gli aspetti più offensivi o spiacevoli della sua immagine, ma tende a stabilire una suggestione di continuità. E poiché i problemi sono troppo grandi e i cittadini non ce la fanno a reggerli, prevale il bisogno di delegare. Se Berlusconi è lì, a fare tutte quelle cose con i grandi del mondo e a darsi del tu (in inglese) con George Bush, che se la veda lui.

Fa luce, su questo, una celebre frase di Hubert Humphrey, vicepresidente di Lindon Johnson nel 1968: «Se aspetti che qualcuno venga a chiederti di governare aspetterai un pezzo. Tocca a te farti avanti e presentare le tue carte». Humphrey dà per scontato un certo effetto di inerzia: chi sta governando tende a rimanere.

L’Italia, sia pure attraverso elezioni legittime, è caduta preda del peggior governo nella storia della Repubblica. Questo governo, forte di uno spaventoso conflitto di interessi, del totale controllo dei media e di una maggioranza parlamentare totalmente subordinata e dipendente dall’esecutivo, ha attaccato la legalità, tentato di scardinare il potere giudiziario, distrutto il prestigio e la credibilità del Paese, lo ha coinvolto in una guerra rovinosa e perduta che contrasta con i principi costituzionali, ne ha seriamente danneggiato l’economia e si appresta a una vasta serie di “riforme costituzionali” destinate a spezzare l’Italia e a renderla ingovernabile. Si tratta dunque di una serie di circostanze gravi che chiamano ad una opposizione ferma e rigorosamente alternativa sia a fatti avvenuti, che a progetti in corso pericolosi e devastanti.

Chi è al governo si sente più sicuro e perde molti meno punti di quelli che dovrebbe perdere dato il modo clamorosamente inetto di governare. Chi è all’opposizione sente uno sbando.

Il trauma è tanto grande più se non possiedi Radio e Televisioni e hai solo la libertà di rispondere al rito processuale di Porta a Porta che provvede ad avvolgere tutto nell’universo della pax berlusconiana. Rafforza, cioè, ad ogni puntata, la persuasione che non c’è alcuna emergenza, non c’è alcun grave problema.

Tanto è vero che sono tutti lì seduti, in buona armonia, come se non si trattasse di salvare il Paese dalla guerra (le sue spaventose e ancora imprevedibili conseguenze) e dalla riforma costituzionale che deformerà e sfregerà irreversibilmente il volto del nostro Paese.

Trasmissioni come queste di cui stiamo parlando suggeriscono ai cittadini esausti, che non ne possono più: perché non confermare chi è già al governo e che - tramite Bruno Vespa - concede la parola persino ai comunisti e ai pacifisti, anche se uno che governa non ha certo tempo di partecipare a un dibattito con i suoi oppositori?

Se è vero che il momento è grave - e ce lo ricordano il sangue in Iraq, la bancarotta in Italia, il rischio imminente di spezzare malamente il Paese - gravi, e bene udibili da tutti dovranno essere le risposte della opposizione, senza perdere un solo istante a fare progetti “insieme”. Perché “fare insieme” qualunque cosa (leggi o convegni) rafforza chi governa. Se tutti sono altrettanto bravi e altrettanto professionisti, perché cambiare? E poi loro hanno un capo riconosciuto. Noi?


Tutto il materiale della serie RESISTENZA, da maggio 2001, è consultabile su www.bresciablob.com                          

Da giugno 2003 anche al sito www.bengodi.org/resistere-a-berlusca