domenica, novembre 23, 2003

REPUBBLICA on-line 23-11

IL giudice a libro paga

Berlusconi e Previti pagavano Squillante per comprare sentenze

di GIUSEPPE D'AVANZO

INFOMERCIAL. I cruciferi del premier cantano l'alleluja: "E' un'assoluzione piena per Silvio Berlusconi". Lo dice Gaetano Pecorella, avvocato del presidente. Con altri ingredienti, cucinano la stessa minestra Sandro Bondi, Claudio Scajola, Renato Schifani, Ignazio La Russa, Francesco Nitto Palma e "flabellieri e turiferari". "Assoluzione piena" lo si può definire un "infomercial". L'infomercial fonde due necessità: comunica un'idea e vende un prodotto. Letta la sentenza a Milano, gli infomercials della rumorosa claque diffondono quest'idea: il tribunale ha liberato Silvio Berlusconi dall'accusa di aver corrotto i giudici di Roma. Il "prodotto" che si vuole vendere è il solito: Berlusconi è la preda innocente di un'aggressione giudiziaria a fini politici. Se si vuole comprendere un'acca, conviene allontanarsi dal frastuono e chiedersi se "l'idea" abbia qualche fondamento e se "il prodotto" sia autentico o farlocco.

I verdetti dicono che la corruzione non c'è stata sull'affare Sme, sul caso Imi-Sir-Mondadori sì.

L'affresco che si ricava dai due processi: Berlusconi e Previti pagavano Squillante per comprare sentenze. Detto in altro modo, è vero che Berlusconi esce da questa vicenda senza responsabilità? E' vero che il patron di Fininvest è stato "assolto"? E' vero che non c'è, e mai c'è stata, la sua mano nei baratti delle sentenze organizzati dal suo socio Cesare Previti? Sentenze alla mano, si scopre qualche lettura avventurosa e un azzardo farfallino che animerà, c'è da giurarci, l'abituale repertorio delle verità rovesciate.

Domande. Il processo non è altro che una domanda: chi ha fatto che cosa? L'accusa formula la sua ipotesi. Le difese la contrastano con controdeduzioni. Il dibattimento pesa gli argomenti degli antagonisti e convalida, con la sentenza, una ricostruzione dei fatti attribuendone le responsabilità. Questo è il processo, e per apprezzarne gli esiti bisogna fissare subito il "che cosa" doveva essere accertato in quest'affare e i possibili responsabili dell'accaduto (il "chi" ). Nel processo, chiamato Sme, le ipotesi dell'accusa, e quindi le domande a cui i giudici devono rispondere, sono due. Silvio Berlusconi e Cesare Previti (lasciamo da parte i comprimari), hanno organizzato "un disegno criminoso per conto di Fininvest spa e sue società controllate, partecipate e collegate... affinché il giudice Renato Squillante compisse una serie di atti contrari ai suoi doveri di ufficio e in particolare ponesse le pubbliche funzioni al servizio dei loro interessi; violasse il segreto d'ufficio; intervenisse su altri appartenenti agli uffici giudiziari al fine di indurli a compiere atti contrari ai doveri del loro ufficio"? Detto in altro modo, Renato Squillante era "stabilmente retribuito" per manipolare le sentenze a vantaggio della Fininvest magari intervendo anche su altri giudici? Silvio Berlusconi, in concorso con Pietro Barilla, ha "remunerato Filippo Verde perché ponesse la sua funzione giudiziaria al servizio dei loro interessi nell'ambito della controversia intervenuta tra Iri e Buitoni in ordine alla cessione della pacchetto azionario Sme"? Detto in altro modo, Berlusconi, Previti e Barilla, con le indicazioni complici di Renato Squillante, hanno consegnato a Filippo Verde (estensore della sentenza del tribunale di Roma) 200 milioni per addomesticare l'esito della controversia?

Risposte. La macchina procedurale convalida una sola ipotesi tra quelle formulate nel dibattimento. Vediamo, allora, qual è la ricostruzione dei fatti ritenuta più attendibile e documentata dai giudici di Milano.

Sì, il dibattimento ha dimostrato che Renato Squillante era "stabilmente retribuito" da Silvio Berlusconi e Cesare Previti per favorire gli interessi di Fininvest spa e società sue controllate, partecipate e collegate. Sì, Squillante ha messo a disposizione degli interessi dei suoi corruttori le sue funzioni pubbliche barattando per denaro i doveri di probità, imparzialità e indipendenza. Sì, a Squillante sono stati promesse e poi versate da Berlusconi e Previti ingenti somme di denaro. Certamente, prova della corruzione è il passaggio di 434.407,87 dollari dal conto Ferrido (Berlusconi/Fininvest), attraverso il conto di Cesare Previti (Mercier), al conto di Renato Squillante (Rowena). Non è dimostrato che Pietro Barilla abbia pagato con 100 milioni l'attività di Renato Squillante per truccare l'esito dell'affare Sme per la più elementare delle ragioni... L'affare Sme non è stato truccato. Non c'è stata corruzione né corrotti né corruttori, quindi. "Il fatto - semplicemente - non sussiste". Filippo Verde, che il 19 luglio 1986 annullò definitivamente l'accordo Iri-Buitoni perché privo dell'approvazione del ministro delle Partecipazioni Statali Clelio Darida, non fu corrotto. Quindi, Berlusconi e Previti non fecero alcun pressione, attraverso Renato Squillante, per pilotare la sentenza del tribunale di Roma contro gli interessi di Carlo De Benedetti (editore di questo giornale e, in quegli anni, patron della Buitoni). No, i duecento milioni che Filippo Verde ha depositato in contanti sul conto corrente 5335 della Banca di Roma non provenivano, come sostiene dall'accusa, da un versamento di Pietro Barilla transitato attraverso un conto di Attilio Pacifico.

Accusatori. I pubblici ministeri Ilda Boccassini e Gherardo Colombo hanno molto puntato sul "caso Sme". Era l'affare che, a loro avviso, documentava in maniera evidente la costante e prezzolata subalternità di Renato Squillante alle convenienze di Berlusconi e Previti e agli interessi della Fininvest. L'accusa immaginava di poter dare forza documentale e definitiva evidenza all'ipotesi formulata. Era questa: almeno dal 1986, Berlusconi si è avvantaggiato, negli uffici giudiziari di Roma, della benevolenza di un network di giudici corrotti messo insieme da Cesare Previti. Network attivo quando c'erano in gioco gli interessi diretti della Fininvest, come nel caso Lodo Mondadori. Rete capace di barattare gli esiti processuali anche quando non erano in ballo gli interessi della Fininvest, come nel caso Imi/Sir, o quando questi interessi erano soltanto mediati. Come nell'affare Sme, dove Berlusconi non aveva alcun interesse diretto, ma solo l'utilità politica di dare un mano al presidente del Consiglio Bettino Craxi che poi avrebbe regolarizzato le sue imprese con una legge ad hoc. Forse i pubblici ministeri sono stati travolti da bulimia istruttoria. O forse hanno sopravvalutato il quadro indiziario raccolto. E' un fatto che i giudici di Milano non hanno visto negli argomenti proposti dall'accusa nemmeno l'esistenza della corruzione perché "il fatto non sussiste", non si è mai verificato. E' una sconfitta che suona più bruciante per l'accusa in quanto sull'affare Sme ha giocato le sue carte Silvio Berlusconi nelle sue dichiarazioni in aula, alla vigilia dell'approvazione della legge che lo ha trascinato in un limbo giudiziario (processo sospeso finché siede a Palazzo Chigi se la Corte costituzionale il 9 dicembre riterrà costituzionale l'immunità che si è autoattribuito). E' la bocciatura di una "circostanza" che non oscura i fatti accertati perché, è vero, non è stata barattata la sentenza Sme, ma Berlusconi, Previti e la Fininvest hanno avuto a disposizione "stabilmente" il corrotto Renato Squillante, di qui la condanna del giudice.

Soci. Berlusconi finge di non vedere che l'esito del processo di Milano lo interpella e lo coinvolge. Posa a spettatore lontano dello spectaculum iustitiae che ha come protagonista il suo socio. Spende parole per consegnare una "sincera solidarietà a Cesare Previti". Accorto, evita di sfiorare (è una sua mossa costante) il cuore della questione. Conviene riassumerla, invece.

I due processi milanesi (Lodo Mondadori/Imi-Sir; Sme) dovevano accertare se Berlusconi e Previti hanno avuto a libro paga dei giudici di Roma. Berlusconi è stato sottratto dalla Cassazione al primo processo (Lodo Mondadori/Imi-Sir). E' incensurato, ha ora rilevanti incarichi istituzionali, quando era imprenditore ha affrontato le opacità della giustizia della Capitale. Vi si è calato obtorto collo per proteggere i suoi affari, dicono i giudici. Chi non l'avrebbe fatto? Gli vanno concesse le attenuanti generiche, conclude la Corte di Cassazione. Con le attenuanti generiche, il premier si salva per prescrizione. Evita il primo processo dove il suo interesse diretto alla manipolazione delle sentenze è esplicito (Lodo Mondadori).

Berlusconi deve ora affrontare le due domande del secondo dibattimento (il processo Sme). Mette in moto ogni difesa per annientarlo. In Parlamento cambia le formule dei reati (via il falso in bilancio). Modifica le procedure (nuovo iter delle rogatorie). Non è sufficiente. Il processo va avanti. Così, una nuova legge riscrive le regole del "legittimo sospetto". Il premier ne vuole ricavare ogni beneficio. Non ci riesce. La Cassazione boccia ogni sospetto sull'imparzialità dei giudici di Milano. Allora, si decide a tagliare il nodo con un colpo di spada. Si fa approvare per via ordinaria (è costituzionale?) una legge che lo "immunizza" da ogni giudizio fino a quando è presidente del Consiglio. Si salva dalla sentenza, ma non dai fatti in cui resta impigliato il suo socio. In aula, si parla di Previti e lo si sa "longa manus" del premier. I processi vanno avanti e si concludono. Previti è condannato per due volte.

Nel primo processo a undici anni: ha truccato con Squillante le sentenze Mondadori e Imi-Sir. Nel secondo, gli infliggono il massimo della pena, cinque anni (la corruzione in atti giudiziari è stata approvata soltanto nel febbraio del 1992 e i fatti risalgono al marzo 1991, quindi corruzione semplice). Bisogna ora tirare qualche conclusione ricordando che queste sentenze sono soltanto di primo grado e non intaccano la presunzione di innocenza degli imputati.

Ecco l'affresco (provvisorio) che si ricava da questi due processi: Berlusconi e Previti retribuivano stabilmente Renato Squillante per comprare, con il suo intervento, le sue relazioni, le sue amicizie e pressioni e scambi, le sentenze del tribunale di Roma. No, non hanno comprato la sentenza Sme, quella sentenza è pulita, non c'è stata corruzione. Hanno comprato la sentenza per l'Imi-Sir e l'esito dell'affare Mondadori che ha consegnato al presidente del Consiglio il maggiore gruppo editoriale del Paese. Non appare poco perché, in attesa degli appelli, è legittimo sostenere, dopo due sentenze, che Berlusconi ha comprato i giudici di Roma grazie agli uffici storti di Cesare Previti. E non è proprio una buona notizia. Nonostante l'assordante claque e il menzognero infomercial.

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CITAZIONE

Va da sé che se Silvio Berlusconi non si fosse sfilato dal processo grazie al Lodo Schifani, avrebbe condiviso le sorti di Previti e company, dato che le loro posizioni sono indissolubilmente legate. Ma adesso, se anche fosse ritenuta incostituzionale la legge che gli ha regalato l’impunità, non potrebbe più essere giudicato da questo collegio, il suo processo (che si prescrive nel 2006) dovrebbe ripartire da zero davanti ad altri giudici e dunque è certo che non arriverà mai a una sentenza definitiva.

(Susanna Ripamonti – l’Unità on-line 23-11)

MEDITAZIONE

STAMPA 23-11

L'uso del dolore

di Barbara Spinelli

IL dolore degli italiani per i caduti di Nassiriya. Il dolore dei turchi per i due attentati a Istanbul. Il dolore dei musulmani e degli ebrei e dei cristiani, contro cui si scaglia di questi tempi un Islam politicizzato, radicale, fanaticamente pronto non già al suicidio dei propri affiliati, ma all’intreccio nefando fra suicidio e assassinio di tutti coloro che s’aggirano nei luoghi degli attentati, poco importa se uomini armati o civili inermi o persone oranti in una sinagoga. Si può capire il desiderio dei responsabili politici di immedesimarsi in questo dolore, di parlare al posto delle vittime, di rincuorare gli animi spaventati con frasi battagliere, che promettono la fine delle minacce e dei lutti. La pietas, dice il dizionario Battaglia, è precisamente questo: è rispetto devoto, cura sollecita e reverente per cose e persone, e questa cura è dovuta ai caduti degli attentati, siano essi perpetrati da Al Qaeda o da seguaci di Saddam Hussein.

Ma pietas non è solo un sentimento, specifica il dizionario: è l'osservanza dei doveri verso i genitori, la patria, e Dio. Per i politici, in particolare, è il dovere di rispettare le contraddizioni di un dolore, di ascoltare il messaggio complesso che si racchiude nelle lacrime, di decidere il da farsi tenendo conto di circostanze che possono migliorare o mutare le presenti strategie. Gli italiani e i turchi, gli ebrei e i musulmani e i cristiani piangono i loro morti, danno loro il nome di eroi, ma vogliono anche sapere se i politici fanno la loro parte: se hanno valutato i pro e i contro di questa guerra multiforme lanciata al terrorismo dopo l'11 settembre. Se sono capaci di fare bilanci rigorosi, e di correggersi là dove hanno eventualmente sbagliato. Se sono disposti a trarre lezioni dalla storia che stanno facendo. Il dolore è come una gemma splendente ma segreta, che non può esser esibita su giacche e vestiti quasi fosse un ornamento. Il politico che se ne veste e non risponde al suo appello finisce con l’usare il dolore e assieme ad esso la paura, senza far nascere da esso parole veritiere e azioni coerenti.

Naturalmente la lotta al terrorismo dovrà continuare, e farsi semmai ancor più ferma, minuziosa, assillante. Con avversari di questo tipo - veri e propri demoni, che combinano empiamente fede e bombe - non è possibile l’appeasement, la pacifica e servile composizione del conflitto. Ma sta rivelandosi inane anche la risposta adottata dal governo Usa e dai suoi alleati dopo l’11 settembre: la guerra guerreggiata contro gli Stati sospetti di appoggiare il terrorismo. Guerra condotta con armi sofisticate ma inadatte alla guerriglia, con militari addestrati a bombardare e non a sgominare combattenti irregolari, o a infiltrare cellule di resistenza e di terrorismo sempre più diffuse nel mondo e inafferrabili. La strategia puramente militare non sembra dar frutti, e anzi accresce i pericoli di una recrudescenza dei pericoli, degli attentati, delle disfatte. Si fonda su una menzogna letale, inoltre: trattando il terrorista alla stregua di uno Stato belligerante, e dichiarando contro di esso una serie di guerre a oltranza, da condursi "fino alla scomparsa della minaccia", crea l’illusione di una battaglia inter-statale che può esser vinta militarmente. Una battaglia al termine della quale si spera di ottenere chissà quale capitolazione, quale trattato di pace. Dal terrorismo non ci si può aspettare nulla di tutto ciò: né la capitolazione, né il trattato di pace, né il riconoscimento della propria sconfitta per il semplice fatto che questo o quello Stato-canaglia sarà stato abbattuto.

Non conoscendo confini, il terrorismo non può che guadagnare da guerre che restano ancorate ai rapporti tra Stati, a territori circoscritti, a sovranità nazionali che vengono gelosamente custodite negli Stati Uniti, e aggressivamente negate al nemico che Washington vuole abbattere. È quello che sta succedendo in Iraq, e da questo punto di vista non hanno molto senso le dispute italiane sulla natura del pericolo: se sia un pericolo terrorista, oppure partigiano. La scelta di far fronte al terrorismo globale con una guerra guerreggiata ha permesso al terrorista di tramutarsi in guerrigliero, in partigiano, o comunque di vedere se stesso come guerrigliero e partigiano. Gli ha regalato un sostegno popolare che non aveva. Ha permesso a Al Qaeda di penetrare in Iraq, dove prima non esisteva, e di organizzarsi meglio e diffondersi regionalmente in gran parte del Sud-Est asiatico e dell’Africa orientale. Il capo dei servizi segreti tedeschi, August Hanning, ha detto giovedì scorso in una conferenza di specialisti che Al Qaeda si è "rigenerata" a seguito della guerra in Iraq, dopo esser stata solo momentaneamente indebolita in Afghanistan, e che "gli occidentali sono sull’orlo di perdere la battaglia per la conquista dei cuori e delle menti nelle popolazioni musulmane". Conclusione: "i successi che si possono ottenere sul fronte militare non condurranno alla soluzione dei problemi".

Rispondere al terrorismo con altri mezzi non significa scegliere le vie alternative della pacificazione, e tantomeno della sottomissione. Non significa minimizzare le colpe di chi uccide persone inermi trasformandosi in bomba umana, o di chi assalta consolati, sinagoghe, caserme di carabinieri incaricate dal proprio governo, più o meno in buona fede, di assolvere compiti non bellici ma umanitari. E davvero non c’è pietas in quei sondaggi che nei siti internet chiedono agli italiani di scegliere fra tre sole forme di lotta al terrorismo: la risposta delle armi, o della diplomazia, o degli aiuti economici; come se non esistesse, per combattere il terrorista e prosciugare l’acqua in cui nuota, una risposta egualmente ferrea, ma non militare.

Il finanziere George Soros, che avversa la guerra in Iraq e si sta impegnando in una vasta operazione per contrastare la vittoria di Bush alle prossime elezioni, non banalizza i demoni che minacciano, non giustifica in alcun modo l'attentato alle Torri del 2001 (George Soros, La bolla della supremazia americana, "The Atlantic Monthly", dicembre 2003). L'11 settembre va chiamato, egli dice, con il solo nome che merita: crimine contro l'umanità. Dargli il nome di atto di guerra significa già mettersi sul piano del terrorista, e rendere più agevole il suo operare attribuendogli lo statuto di belligerante. Significa ingaggiare una guerra infinita e seriale: senza limiti di tempo, di spazio. Un crimine, invece, lo si fronteggia in altri modi: con armi poliziesche, con l’uso accurato e capillare dei servizi segreti di investigazione, con l'infiltrazione delle cellule terroriste. Lo si fronteggia anche con la prevenzione, ed è a questo punto che interviene l’opportunità di conquistare i cuori e le menti delle popolazioni musulmane, con politiche commerciali più generose e con aiuti allo sviluppo. Aver trasformato il terrorista in combattente partigiano è uno dei più grandi errori delle potenze implicate nelle guerre in Afghanistan e Iraq. In ambedue i paesi la strategia fa oggi acqua. In Afghanistan, i talebani e Al Qaeda hanno ripreso il controllo di zone decisive, nel sud del paese e ai confini con il Pakistan; solo a Kabul il governo Karzai esercita il monopolio della violenza. Nelle Filippine le forze terroriste di Abu Sayyaf e i 15.000 combattenti del Moro Islamic Liberation Front hanno mantenuto intatte le proprie forze. In Iraq sta creandosi quella stessa situazione che secondo la dottrina Bush è terreno fertile per il terrorismo: Saddam è stato fortunatamente abbattuto, ma lo Stato iracheno è ridotto in cenere. È un "failed state", come dicono in America gli esperti di te����������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������
MANIFESTO 22-11

«Sulla Cecenia non cambio idea»

Berlusconi insulta l'europarlamento e scrive a Sofri che lo contesta: «Questione di diplomazia»

«In termini politici resto della mia opinione» sulla Cecenia. Silvio Berlusconi, ineffabile presidente di turno dell'Unione europea, non solo sbeffeggia la deplorazione del parlamento europeo per le sua visione leggendaria del genocidio russo in Cecenia, ma argomenta il suo ruolo di legale personale di Putin anche in un carteggio (sul Foglio di oggi) con Adriano Sofri. Il cavaliere liquida sprezzante il voto di Strasburgo: «E' fondato sul nulla». Parole alquanto indigeste per l'euroassemblea, il cui presidente, Pat Cox, lascia trapelare la sua irritazione attraverso il portavoce David Harley: «Cox - riferisce diplomatico ma inequivoco - troverebbe difficile credere che il presidente Berlusconi abbia voluto rilasciare dichiarazioni in alcun modo irrispettose del parlamento europeo».

Ma non contento il cavaliere si cimenta 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MEDITAZIONE

ESPRESSO on-line 22-11

È stato un errore andare nel pantano

La guerra sembra appena cominciata e la resistenza irachena può contare su una grande quantità di armi, uomini e territori amici dove trovare rifugio

Giorgio Bocca

Al Pentagono non sono più tanto sicuri di vincere la seconda guerra irachena, quella della occupazione. E si capisce: la resistenza che stanno incontrando è senza paragoni più forte di quelle che ai nazisti toccò nei paesi europei. A cominciare dalle armi.

Il signore della guerra americana Donald H. Rumsfeld calcola che l'arsenale di Saddam Hussein fosse di 600 mila tonnellate di armi. Non si sa quante ne siano state raccolte dagli americani durante la guerra lampo, ma almeno la metà sono rimaste a disposizione dei ribelli. Armi di alta potenzialità che le resistenze europee non hanno mai avuto: missili terra-aria capaci di abbattere elicotteri e aerei, razzi anticarro, mitragliere pesanti, cariche esplosive telecomandate e soprattutto munizioni abbondantissime.

Chi ha conosciuto la nostra resistenza sa che il problema delle munizioni non fu mai risolto: dai tre ai quattro caricatori per i mitra, una cinquantina di proiettili per i fucili, una ventina per i mortai. Nei rastrellamenti dell'estate 1944 dovemmo spostare da valle a valle i nuovi arrivati dalla pianura che non potevamo armare. Ricordo l'avvilimento di quei giovani che dovevano in lunga fila abbandonare la battaglia a cui erano volontariamente accorsi.

Molte armi nell'Iraq occupato, molti uomini e una resistenza programmata da anni, non inventata come in Europa giorno dopo giorno. Quando Saddam Hussein alla vigilia della guerra avvertiva gli americani che sarebbero finiti in un pantano, noi pensavamo si trattasse di vuote, generiche minacce e invece il rais annunciava la sua guerra terrorista, quella che conosceva benissimo perché con essa era salito al potere.

E infatti la resistenza in corso non è qualcosa di improvvisato, ma un uso ragionato di bande, di comandi, di rifugi in una guerra che usa la tattica del mordi e fuggi con un controllo capillare del territorio, un uso sicuro delle vie di fuga, un appoggio totale delle popolazioni.

La resistenza irachena è più forte di quelle europee per la grandissima capacità di reclutamento. Non solo può contare sulle reclute irachene che si contano a centinaia di migliaia in un paese dove sono stati disintegrati esercito e polizia, ma dove giungono combattenti da ogni paese islamico attraverso frontiere incontrollabili. E non combattenti qualsiasi, ma i kamikaze, le bombe umane che nella guerra mondiale si trovavano solo nel Giappone.

Le resistenze europee erano separate l'una dalle altre dai presidi tedeschi; da noi persino la collaborazione con i francesi attraverso le Alpi fu discontinua e indebolita da vendette o timori nazionalistici. Le Ffi (Forces françaises de l'interieure), di matrice gaullista, guardavano con sospetto le nostre formazioni quando cercavano riparo oltre confine.

La resistenza irachena può contare su zone di rifugio immense raggiungibili per terra o per mare, fino ai territori tribali del Pakistan, fino alle montagne dell'Iran o attraversando i confini della Siria e della Giordania praticamente incustoditi. Partigiani come l'italiano o lo jugoslavo dovevano resistere o morire sulle loro montagne, non avevano vie di scampo, quello islamico può arrivare all'Estremo Oriente attraverso una catena continua di paesi amici.

I tedeschi in Europa non avevano deserti o zone irraggiungibili a loro disposizione, dovunque c'erano abitanti, strade, telefoni; nell'Iraq le terre di nessuno, che nessun esercito straniero può presidiare, si estendono per centinaia di chilometri.

Nell'Europa del 1945 il desiderio comune degli occupanti come degli occupati era che finisse il grande massacro, che si potesse tornare a vivere in pace. Nell'Iraq e nei paesi dell'Islam, la guerra sembra appena incominciata. Ci sono vecchi della montagna che predicano la guerra sacra, la conquista del mondo. Che errore essere andati nel pantano.

CORSERA 21-11

Cecenia -- Strasburgo censura Berlusconi

Eurogruppi d’accordo, anche il Ppe vota sì

Ivo Caizzi

STRASBURGO - L'Europarlamento ha «deplorato» il capo del governo Silvio Berlusconi perché al vertice Ue-Russia, nel suo ruolo di presidente di turno del Consiglio dell'Unione Europea, aveva appoggiato la politica in Cecenia del presidente russo Vladimir Putin. Una risoluzione degli eurodeputati su quel summit, che contiene la censura di questa posizione (in netto contrasto con le preoccupazioni dell'Ue sulle violazioni dei diritti umani subite dal popolo ceceno), è stata votata a Strasburgo «per alzata di mano», visto il larghissimo consenso dei cinque principali gruppi politici. Il Partito popolare europeo, a cui aderisce Forza Italia, ha condiviso la necessità di «deplorare» le dichiarazioni rassicuranti di Berlusconi sulla Cecenia e sulla democrazia in Russia. E si è unito al «sì» di socialisti, liberali, verdi e comunisti.

Nella conferenza stampa del vertice Ue-Russia, tenutosi nella Villa Madama di Roma il 6 novembre scorso, il premier italiano - seduto vicino a Putin, al presidente della Commissione Romano Prodi e al rappresentante dei governi Ue Javier Solana - si era dichiarato «avvocato» del suo «amico Vladimir». Aveva poi accusato la stampa internazionale di distorcere la realtà quando criticava la Russia per le gravi violazioni dei diritti umani in Cecenia e quando sollevava dubbi sul procedimento giudiziario «Yukos». Ieri notte, da Varsavia, Berlusconi ha commentato che «l’Europarlamento ha semplicemente frainteso la realtà. Non sono amareggiato - ha aggiunto - perché la risoluzione è assolutamente fondata sul nulla».

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Il Cav. ha ragione – cioè, quel “nulla” l’abbiamo sentito tutti in diretta TV – ma siccome l’ha detto lui, “nulla” è…

Luciano Seno

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EUROPA on the Web 21-11

Un altro record di Berlusconi

E' il primo presidente di turno dell’Ue a incassare la censura di Strasburgo

Un altro record battuto: da ieri Silvio Berlusconi è il primo presidente di turno del Consiglio europeo ad incassare una censura da parte dell’assemblea di Strasburgo. Record certificato dalla presidenza dell’europarlamento, che ha così voluto fare piazza pulita di certi pretestuosi tentativi di sminuire la portata della deplorazione inflitta al presidente del consiglio italiano. La risoluzione votata dall’aula a stragrande maggioranza - anche dai parlamentari del Ppe (tranne quelli di Forza Italia) - «deplora le dichiarazioni fatte dal presidente in carica del Consiglio Ue alla fine del vertice Ue- Russia nelle quali ha espresso il proprio sostegno alla posizione del governo russo per quanto concerne la situazione dei diritti dell’uomo in Cecenia e della democrazia nella Federazione russa». Non solo: in un altro paragrafo l’assemblea critica «l’inadeguato trattamento dei temi della Cecenia e di Kyoto nella dichiarazione congiunta del vertice».

Una sonora bocciatura per Berlusconi, sottolineata dal coordinatore della Margherita: «Il parlamento europeo che censura il presidente di turno - dice Franceschini - è un atto politico enorme che espone tutto il nostro paese e su cui non può scendere un colpevole silenzio».

Un altolà che cerca di sventare una manovra che i mezzi di comunicazione in mano agli uomini del premier hanno in realtà già iniziato. Anche quelli del servizio pubblico, impegnati a mettere la sordina, a sdrammatizzare, a nascondere. Come spesso, sempre più spesso accade nel nostro paese. Censura? Regime? Non è il caso di disquisire sulle parole.

Ma il problema esiste. Ed anche di questa anomalia del nostro paese si occuperà Strasburgo. Ieri, infatti, la conferenza dei capigruppo al parlamento europeo ha dato il via libera alla stesura di una relazione sullo stato del pluralismo dei media e sulla libertà di espressione e di informazione nell’Ue, e in particolare in Italia.

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LIBERAZIONE 21-11

Corsivo di I pag.

Il presidente-allenatore

Al Cavaliere manca solo l’ippica…

DON PANCRAZIO

Come se non bastassero i suoi straordinari successi di imprenditore e di statista, per non parlare delle sue performance di giardiniere e di chansonnier, il Cavaliere vanta una gran competenza calcistica. Credete forse che le imprese del Milan in questi anni siano stati frutto, oltre che dei campioni comprati a suon di miliardi, dei tecnici Liedholm, Sacchi, Zaccheroni e Ancelotti? No, ad essi vanno attribuite ovviamente solo le sconfitte. Il resto - vittorie, scudetti e coppe - porta la firma inconfondibile del tecnico Berlusconi. Prendete la vittoria del Milan nell'ultima finale di Champions League con la Juventus: Bruno Vespa, nel suo ultimo libro ha pubblicato anche i disegnini tattici, con la posizione di ogni giocatore in ogni specifica azione, vergati dal Cavaliere a beneficio di Ancelotti. «A sentire il Cavaliere», precisa Vespa, «anche tutte le sostituzioni di quella partita sono state concordate». Ora invece Ancelotti sbugiarda pubblicamente il Cavaliere e Vespa, rivendicando la paternità di quella grafia, di quei disegnini e di quella tattica. Il solito comunista.

MEDITAZIONE

L’UNITA’ on-line 21-11

Nassiriya, una brutta storia italiana

di Corrado Stajano

Se almeno quel che è successo a Nassiriya, le atroci morti dei soldati italiani, servisse a far ragionare, ad analizzare i fatti con freddezza, a spogliarci di tutte le bugie, le millanterie, le manie di grandezza che in questi mesi hanno riempito la pentola della politica e di buona parte dell’informazione, potremmo dire di avere raggiunto un risultato, sia pure mesto e amaro.

Guai a chi, nel passato prossimo, quando ancora si cercavano le famose armi di distruzione di massa, mai trovate, non si adeguava, a chi manifestava dubbi. Non si è voluto capire che la pace è il bene più grande degli uomini, da difendere con tutti i possibili mezzi. Le maggioranze parlamentari diventano davvero tirannie quando non vogliono intendere umilmente qual è lo spirito di una comunità.

Che in Italia era contraria, come in Francia, come in Germania, all’avventura in Iraq. Ma parte che l’opinione pubblica non conti, che debbano prevalere sempre gli interessi più o meno inconfessabili, quelli dei venditori.

Un corpo di spedizione è stato mandato allo sbaraglio, privo di ogni tutela internazionale, l’Onu, la Nato, l’Unione europea. Ci si è affidati soltanto all’ombrello della grande madre americana, giocando, tra l’altro, maldestramente il ruolo dell’Italia, considerata assai poco nella strategia dei generali Usa. Neppure lo spirito di bandiera è stato tenuto alto dai governanti italiani felici soltanto di far parte dell’armata del più grande paese del mondo, incuranti della loro subalternità.

Sarebbero vivi quei 19 soldati e civili italiani se fosse stata rispettata la Costituzione che vieta all’articolo 11 la guerra «come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali», se si fosse subito inteso, senza sotterfugi, che il terrorismo non si combatte con gli eserciti, se il diritto internazionale non fosse stato violato, senza rispetto delle regole e delle convenzioni elementari. Quella dell’Iraq era una guerra, non una missione umanitaria. Gli interessi in gioco erano, e sono, come sempre, economici, il petrolio, la ricostruzione, i futuri appalti. Erano, e sono, anche strategici nel gioco della geopolitica americana.

Se si fosse almeno tentato di capire i significati della storia e della cultura dell’Iraq, essenziali per la formazione del mondo mediterraneo, delle civiltà greca e romana e poi di quella bizantina e medievale, ci si sarebbe avvicinati al costume e alla mentalità della società araba con una maggiore serietà e non con l’insipienza e la faciloneria usate. E si sarebbero evitati errori gravi. Il «dopo» andava preparato con un piano organico: era solo uno slogan l’espressione «portare la democrazia» in un paese diviso tra sciiti, sunniti, curdi dove i princìpi democratici non hanno fondamento.

Quella di Nassiriya è diventata purtroppo una storia italiana. La comunità nazionale ha reagito con grande umanità. Quegli uomini tornati dentro le bare sono figli di tutti. Le vite dei 19 soldati e civili rappresentano la piccola Italiano, con le sue speranze, i suoi desideri, i suoi bisogni. Non è un’Italia guerriera quella che esce dai racconti e dalle memorie familiari. Le parole dette dai soldati in Iraq e in Italia ai giornali, alle radio e alle tv sono assai più severe e apprezzabili delle parole dette da troppi politici impastati di retorica.

La retromarcia, certo, non poteva mancare, tra squilli di tromba e fanfare rimbombanti anche sui palcoscenici delle tv, tra discorsi enfatici e bandiere sventolanti. L’uso dello spettacolo è servito a far da velario, a ritardare i conti di cui quella stessa comunità dolente è creditrice nei confronti di governanti improvvisati e inadeguati: spesso qualcuno di loro ha mascherato a fatica la soddisfazione di poter usare quei morti nella futura spartizione del bottino.

Non occorre aver frequentato la scuola di guerra, i centri di studi strategici, i corsi delle scuole d’applicazione d’arma per non nutrir sospetti sulla conduzione di questo conflitto, modernissimo e insieme arcaico, che richiama le immagini delle cannoniere ottocentesche o novecentesche in viaggio per i paesi coloniali. Se non altro, allora, non si faceva spreco delle parole democrazia, giustizia, libertà dei popoli. Civilizzazione, tutt’al più.

La magistratura dovrà valutare quel che è accaduto. Davvero era sufficiente scrivere in arabo Italia sulla giubba per conquistare la simpatia degli iracheni? Vale ancora il luogo comune «italiani brava gente»? Popolazioni misere, con problemi di ogni genere, sanno davvero distinguere tra un americano, un inglese, un italiano armati e vestiti nello stesso modo che occupano la loro patria? E poi: è stato prudente allestire il quartier generale italiano in città, senza particolari protezioni? E ancora: perché non è stato tenuto conto delle informazioni del Sismi italiano e della Cia americana? E soprattutto: non erano messi in conto atti offensivi? Non importa che i kamikaze siano i resuscitati soldati dell’esercito di Saddam o gli uomini di Al Qaeda. Anche ufficiali americani parlano ora di guerra di liberazione.

I segni di un pericolo grave che pesa addosso al nostro contingente seguitano a inquietare nonostante i tentativi di smorzarli. Le parole più sensate sembrano quelle di Marco Calamai, il consigliere speciale dell’Amministrazione provvisoria della coalizione, che si è dimesso in dissenso dalla politica che viene fatta: «Solo un nuovo scenario internazionale gestito dall’Onu e con un ruolo particolare riservato all’Europa può tentare di migliorare la situazione che ritengo gravemente compromessa».

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CITAZIONE

Si dice, anche a sinistra, che abbandonare il campo in Iraq sarebbe una sorta di diserzione. Ma a volte è proprio alla figura ambivalente del disertore, invisa a ogni potere, che siamo debitori della salvezza e della libertà. E' infatti proprio questa figura, persino nelle sue espressioni più egoistiche, a segnalare il confine tra ciò che si può chiedere e ciò che chiedere non si può, a porre un limite indiscutibilmente umano all'ideologia, alla lealtà e perfino alla fede.

Marco Bascetta – manifesto 21-11

MANIFESTO 20-11

Il vero caso si chiama Berlusconi

IL lodo Gasparri che incrementerà il patrimonio del Capo

GIUSEPPE GIULIETTI

Sabina Guzzanti fa satira o informazione? Era lecito occuparsi di attualità in un programma di satira? Questa sembra essere la nuova frontiera della discussione sul «caso Guzzanti». Sarebbe una discussione persino appassionante, se vivessimo in quel paese normale che nessuno ha ancora avuto il piacere di scoprire. La stessa Sabina Guzzanti e tanti altri amerebbero dedicarsi ad altri temi e ben altri progetti televisivi e artistici. Questo, tuttavia, è il tempo nel quale ci è dato di vivere. La domanda, dunque, andrebbe posta in altro modo: in quale altra trasmissione, tranne forse una puntata di Ballarò ed alcuni speciali del Tg3, ci è stata data la possibilità di conoscere dati, cifre, tabelline sul lodo Berlusconi-Gasparri sulle televisioni? Perché le grandi piazze televisive hanno chiuso la saracinesca su questa che è davvero la legge «berlusconissima»? Ma tutta questa discussione non ha neppure sfiorato il vertice della Rai, che ha invece deciso che il programma di Sabina Guzzanti potrà andare sì in onda, ma sotto scorta: un comitato di legali vigilantes controllerà il prodotto e deciderà. Un precedente sconcertante. Nelle stesse ore il ministro Gasparri ha invece parlato, da solo e senza contraddittorio, dai microfoni di Radio Anch'io, per magnificare la legge fatta su misura per il capo supremo. Naturalmente non è accaduto nulla, nonostante le disposizioni della Commissione di vigilanza. I vigilantes guardano e guarderanno da una parte sola.

Nella Rai di oggi, nell'Italia della comunicazione, non c'è un caso Guzzanti, ma c'è un caso Berlusconi: un allarme censura, come è stato rilevato da tutti gli organismi internazionali che si occupano di libertà di informazione. Il vero scandalo è rappresentato dal lodo Gasparri: dalla legge che incrementerà il patrimonio del capo e colpirà alle spalle centinaia di aziende editoriali. Il vero scandalo è il mancato rientro in video dei Biagi, dei Santoro, dei Freccero, dei Luttazzi, e dei tanti altri colpiti dall'anatema bulgaro del cavaliere di Arcore. Il vero scandalo è rappresentato dalle mancate dirette in occasione delle grandi manifestazioni per la pace e per il diritto alla pensione. Beppe Grillo non ha fatto neppure in tempo a nominare il lodo Berlusconi-Gasparri dagli schermi di Mediaset che Fedele Gonfalonieri ha sentito il bisogno di fare una pubblica sfuriata. Il comizio di Berlusconi a reti unificate e di Tremonti a reti semi-unificate non ha prodotto neppure un cartellino giallo da parte del direttore generale. Quali provvedimenti sono stati assunti di fronte ad omissioni e ad aggressioni? Quando mai si è discusso delle faziosità e delle omissioni di Vespa o di Socci, per fare qualche esempio? Quali omissioni, silenzi, hanno mai conosciuto una sanzione morale, non dico un provvedimento disciplinare, perché la via disciplinare al giornalismo ci ripugna sempre e comunque.

La maggioranza politica del cda Rai e il direttore generale Cattaneo non hanno mai tentato di apparire come i garanti delle regole: hanno semplicemente protetto gli amici e punito i nemici. Di questo si tratta e non di altro.

Se e quando riusciremo ad uscire da questo incubo e da questo ribaltamento dei ruoli - il boia si finge vittima e la vittima viene invece processata per atti di violenza -, sarà finalmente possibile discutere in modo serio del rapporto fra satira e informazione, delle modalità espressive, della tv del futuro, di etica e di qualità. Anche se da chi vuole imporre codici e codicilli alla libertà di espressione, probabilmente non potremo mai finire di guardarci.

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LIBERAZIONE 20-11

Corsivo di I pag.

L’animo puro e nobile di Piersilvio…

DON PANCRAZIO

Si sa, bisogna avere l'animo puro e nobile per gridare al mondo la verità. E chi poteva accusare Sabina Guzzanti di aver mentito, nella prima e forse ultima puntata di RAIOT «sulle nostre origini, la nostra storia, le ragioni del nostro successo, infangando oltre 4 mila persone che oggi lavorano a Mediaset o ci hanno lavorato», se non l'innocente Piersilvio Berlusconi? L'hanno vista tutti la Guzzanti infangare, uno per uno, i quattromila dipendenti Mediaset. Come si permette? E cosa c'entra poi Mediaset con i favori di Craxi, con la P2 e con il contenuto della legge Gasparri? Ma quello che a Piersilvio, angioletto recentemente sceso dal cielo, soprattutto «infastidisce è vedere che tutto è sempre spostato sulla bagarre politica che non ha nulla a che vedere con la nostra realtà di lavoro». Non chiarisce, Piersilvio, se è infastidito dall'uso politico della Tv o dall'uso televisivo della politica, Ma bisogna capirlo: forse il candido virgulto, peraltro non aduso alle sottigliezze della frenetica vita moderna, ha preso dal padre, che notoriamente non riesce a distinguere l'uso della politica a fini giudiziari dall'uso della giustizia a fini politici.

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REPUBBLICA on-line 20-11

Cecenia – L’Europarlamento "deplora" Berlusconi

Richiamo votato da uno schieramento che comprende perfino il Ppe

STRASBURGO - In una risoluzione approvata oggi a Strasburgo l'Europarlamento ha "deplorato" le dichiarazioni fatte da Silvio Berlusconi al termine del vertice Ue-Russia di Roma. Nel documento, presentato da Ppe, Pse, Eldr, Verdi e Comunisti, l'assemblea Ue ha "deplorato le dichiarazioni fatte dal presidente in carica del consiglio Ue alla fine del vertice Ue-Russia, nelle quali ha espresso il proprio sostegno alla posizione del governo russo per quanto concerne la situazione dei diritti dell'uomo in Cecenia e della democrazia nella Federazione russa" (concetto contenuto nell'articolo 13). Nella risoluzione si specifica che tale conflitto "non può essere considerato unicamente come un elemento della lotta contro il terrorismo". Ieri il capogruppo di Forza Italia, Antonio Tajani aveva annunciato che la delegazione di Forza Italia avrebbe votato contro il paragrafo 13 e nel caso in cui fosse passato si sarebbe astenuta sul voto finale della risoluzione, come è avvenuto. Nel sottolineare che il richiamo è "sancito non dalla sinistra ma da uno schieramento molto vasto che comprende perfino il Ppe", il coordinatore dei ds Vannino Chiti usa l'ironia nel commentare il richiamo partito dal parlamento europeo all'indirizzo di silvio Berlusconi: "Non so se questo richiamo riuscirà a far riflettere il nostro premier ma almeno gli impedirà di ripetere di essere stato vittima di un complotto comunista".

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I PRECEDENTI

Il 6 novembre scorso a Roma, Berlusconi, durante la conferenza stampa finale del vertice a Villa Madama, aveva appoggiato la politica del presidente russo Vladimir Putin in Cecenia. Si era così espresso in netto contrasto con la posizione molto critica e preoccupata dell'Ue sulle violazioni dei diritti umani in questa regione, che vengono spesso attribuite dagli osservatori internazionali all'esercito russo (principalmente durante presunte operazioni di anti-terrorismo). Il capo del governo italiano aveva anche garantito sulla correttezza dell'azione giudiziaria della magistratura moscovita nel «caso Yukos», definendosi come «l'avvocato» del suo amico Putin. Il presidente della Commissione, Romano Prodi, e il rappresentante dei governi Ue per la politica estera e di sicurezza Javier Solana, presenti al vertice con la Russia, avevano preso poco dopo le distanze dalle dichiarazioni della presidenza dell'Ue.

La risoluzione dell'Europarlamento votata oggi a Strasburgo si compone di 24 punti. Al paragrafo 13 recita: «Il Parlamento europeo deplora le dichiarazioni fatte dal presidente in carica del Consiglio Ue alla fine del vertice Ue-Russia, dove ha espresso il suo appoggio per la posizione del governo russo per quanto concerne la situazione dei diritti umani in Cecenia e il livello della democrazia nella Federazione Russa». In altre parti invita i Paesi dell'Ue a non «chiudere gli occhi» sugli abusi contro il popolo ceceno collegabili alle truppe russe presenti nella regione. Testo accettato dai principali gruppi politici dell'Europarlamento - il Partito popolare europeo (Ppe), il Partito socialista europeo (Pse), i liberali, i Verdi e i Comunisti.

Nel dibattito in Aula ha criticato duramente le affermazioni di Berlusconi sulla Cecenia perfino l'eurodeputato tedesco Hans-Gert Pöttering, numero uno a Strasburgo del Ppe, il principale gruppo europeo a cui aderisce Forza Italia. «La Cecenia è una ferita che continua a sanguinare in Europa - ha detto Pöttering -. Dovrebbe ottenere l'autonomia». Il leader tedesco ha poi invitato Berlusconi a «cercare di non fare più una cosa del genere». Il presidente del gruppo dei liberali (Eldr), il britannico Graham Watson, ha definito l'appoggio del presidente di turno dell'Ue a Putin «uno show improvvisato» e sviluppato con «una retorica da avvocato da pochi soldi». L'eurodeputato dei ds Claudio Fava ha ricordato le «50 fosse comuni» e altre drammatiche stime sulle violazioni dei diritti umani in Cecenia

(Ivo Caizzi – Corsera 20-11)

MEDITAZIONE

WWW.CENTOMOVIMENTI.IT 20-11

EDITORIALE

Crimini e misfatti: quando una strage serve a chi l’ha permessa

MASSIMO DEL PAPA

Che cosa è rimasto dopo i funerali di Stato che hanno calato il sipario sull’attentato più grave del dopoguerra italiano? Un’orgia di retorica, servita a eludere domande che andavano fatte. Perché sono cruciali. Sono rimaste anche generose falsità, equivoci costruiti ad arte, che sarebbe il caso di smontare.

Gli eroi, anzitutto. Quali eroi? Quelli mandati a morire senza una ragione, in difesa di una libertà che non ci apparteneva, che non a loro era stata chiesta, che quel popolo lontano non vuole almeno nella forma in cui l’occidente gliela vuole imporre: altrimenti non si spiegherebbero i sei mesi di guerriglia ininterrotta contro i salvatori.

Quali eroi? I 19 caduti italiani non sono andati a difendere la loro patria, sono stati trucidati nella patria altrui, non sono andati a fronteggiare un pe



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IL RIFORMISTA 19-11

IL NIET DI PUTIN A BERLUSCONI

NIENTE OSPITALITÀ PER I RIFIUTI NUCLEARI

Silvio Berlusconi ha provato in tutti i modi a evitare la trappola delle scorie nucleari da seppellire in Italia. Sapeva che qualunque sito avesse scelto sarebbe scoppiato un pandemonio, come puntualmente è successo a Scanzano Jonico, in Basilicata. L'ultimo dispiacere glielo ha dato il suo grande amico, Vladimir Putin, al quale si era rivolto per trovare una soluzione all'estero. "La Russia non è più in grado di recepire rifiuti nucleari" ha chiuso l'argomento Putin durante l'ultima visita a Roma.

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WWW.CENTOMOVIMENTI.IT 19-11

L'Europa scomunica Berlusconi

Cecenia: anche il Ppe contro il Cav.

REDAZIONE

Ora la scomunica è completa, l'intero europarlamento ha condannato le parole che Silvio Berlusconi spese per difendere Vladimir Putin sulla questione cecena.

Come tutti ricorderanno, un paio di settimane fa il Capo del Governo italiano e presidente di turno dell'Unione Europea si era infatti improvvisato avvocato del primo ministro Russo durante una conferenza stampa tenutasi a margine del vertice tra Russia ed Unione europea.

Seduto accanto all'ex agente del Kgb il Cavaliere aveva definito solo una serie di "leggende e falsità" le accuse a Putin e al suo staff, e si era fatto garante della lealtà delle azioni del suo amico Vladimir.

Una vera difesa ad oltranza, suggellata da questa poco istituzionale richiesta da cabaret: "Ti manderò la parcella di un euro come avvocato difensore non richiesto".

Ma, se il presidente russo aveva gradito le sortite del Cavaliere, impegnandosi ironicamente a pagare la cifra richiesta; al contrario l’Unione europea era insorta.

Una bocciatura senza appello era arrivata da Reijo Kemppinem, portavoce della Commissione europea, che aveva voluto subito chiarire di non condividere il punto di vista di Berlusconi".

Era poi stata la volta dell’esponente liberale e presidente del Parlamento Europeo Pat Cox che, "preoccupato", aveva espresso "disappunto" per le parole del Cavaliere.

Una sonora bacchettata anche dal numero uno dei socialisti Enrique Baron Crespo, che aveva giudicato il discorso del leader di Forza Italia "intollerabile".

Ieri, a completare il coro di critiche, è piombata la più indigesta delle scomuniche, quella dello stesso partito di Berlusconi, che era rimasto chiuso nel più profondo imbarazzo per queste due settimane.

Il capogruppo del Ppe Hans Poettering non ha più potuto nascondere l'amarezza e, incalzato dalle domande dei giornalisti nel corso di una conferenza stampa, ha duramente attaccato il suo compagno di partito: "Quanto ha detto Berlusconi a Roma non ci trova concordi. Se si tratta di diritti umani non esiste possibilità di mettere la testa sotto la sabbia, la Cecenia è una ferita dell'Europa".

E ancora: "Quando si parla di Russia mi auguro che ci si presenti in veste di richiedenti non come difensori della politica russa. E queste cose le ho già dette a Berlusconi".

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"Il governo Berlusconi è caduto..."

Purtroppo no, cade RAIOT

GIORGIA ROMBOLA'

È la cronaca di un’interdizione annunciata. Questa mattina il Cda della Rai all’unanimità ha proposto al direttore generale Flavio Cattaneo di sospendere RaiOt, il programma di Sabina Guzzanti in onda su Rai Tre.

"Il Governo Berlusconi è caduto. Ma i nostri Tg non l’hanno detto. Noi, l’abbiamo letto su Le Monde". Sabina Guzzanti ha chiuso così il suo show. Un’ora di battute pungenti, di allusioni non troppo velate e di accuse sincere all’uomo che ha fatto i miliardi "ospitando sotto il suo tetto uno stalliere mafioso". Al presidente operaio che "non si è fatto da solo", ma che ha costruito un impero "grazie ai suoi agganci politici, alla loggia massonica P2 e all’amicizia con Craxi".

Sessanta minuti di satira feroce, conditi con un pizzico d’amarezza. Il tutto, confezionato in forma di lucida analisi da una Guzzanti sempre brava e istrionica, questa volta di nero vestita, un po’ dragon lady, un po’ Kill Bill tarantiniano. I dati sono presentati in maniera scientifica, completi di schede grafiche e voce didascalica che fa tanto Superquark. Perché in quest’Italia al contrario, "tocca ai buffoni tenere la testa sulle spalle".

Il messaggio è: non c’è libertà d’informazione né d’espressione. Il dibattito politico italiano si è risolto in "qualcuno che si sveglia al mattino dicendo delle baggianate, qualcun altro che replica e così fino all’ora di cena".

"Ma sapevate che l’Italia è al 53° posto (dopo Madagascar e Bolivia) nella classifica mondiale sulla libertà d’informazione?". I Tg non ne hanno parlato, certo, "sennò non saremmo al 53° posto…". Ma il fatto è grave e merita spenderci su qualche minuto. Il premier ammette a reti unificate che all’estero circola la voce che in Italia l’informazione sia in mano a una sola persona: "Ma lo prenderemo", assicura. L’informazione vera non esiste, quella di regime è salvaguardata nella nicchia protetta di Porta a porta.

E la situazione rischia di peggiorare con l’approvazione del ddl Gasparri. Ma prima di questo, la Guzzanti ci aiuta a rinfrescare la memoria ripassando un po’ la storia della nostra Tv. Cominciando ad quando Silvio Berlusconi cominciò a trasmettere su territorio nazionale con le frequenze migliori, a quando Rete 4 cominciò a vedersi bene (solo dopo che il Cavaliere la comprò dal gruppo Rusconi). Passando per la legge Mammì, i limiti antitrust puntualmente violati, il provvedimento che condanna la quarta rete al satellite fino alle innumerevoli proroghe concesse, anche dal Governo dell’Ulivo e dell’allora ministro Maccanico (lo stesso del lodo che ha permesso a Berlusconi di sospendere i processi a suo carico).

"Rete 4 è abusiva dal 1994 e sta ancora lì. Un mio amico è in carcere per un cd masterizzato e la sua famiglia mangia grazie alla Caritas. Ma della giustizia parleremo in un’altra puntata".

Ora grazie alla legge firmata da un ministro che non l’ha nemmeno letta ("Me ne farebbe un riassunto stile Bignami?", chiede "in confidenza" il ministro Marcorè-Gasparri alla sventurata, ma non troppo, intervistatrice) i tetti antitrust si alzeranno all’infinito e Rete 4 si salverà dall’esilio sul satellite.

Per l’opinionista di Vespa Ludovico Cerchiobot (un bravissimo Roberto Herlitzka) la Gasparri è "una legge giusta che ci riporta alle nostre origini, alle caverne" perché, parliamoci chiaro, "da lì veniamo e lì dobbiamo tornare".

Insomma, sessanta minuti densi, con la spudoratezza e il coraggio di chi sa, forse, di non aver più nulla da perdere. "Ci vediamo domenica prossima. Forse. Chissà", annunciano le due signorine buonasera Guzzanti e Impacciatore mentre salutano Apicella-Riondino, l’unico vero miracolo italiano.

Ma la morale della favola spetta a Sabina: "Si allarga la foglia, la via si fa stretta / dite la vostra, la mia l’ho detta / Spettatore non spettare, la vita non è fatta per guardare".

MEDITAZIONE

MANIFESTO 19-11

Disfattisti

ROBERTO ZANINI

Siamo in guerra e oggi lo sappiamo, come sappiamo che ci resteremo. Ce lo ha detto il cappellano militare che ha seppellito i nostri primi morti. Fronteggeremo il nemico risparmiando l'impiego dell'odio, ha detto il capo dei vescovi, il resto dell'arsenale è a disposizione. La patria in lutto a reti unificate è un effetto più potente della causa che lo provoca, una guerra a cui non ci ha obbligato uno sceicco arabo o un duce babilonese ma l'annientamento dei nostri più profondi sentimenti democratici. Il cordoglio ha travolto un paese laico la cui patria è il mondo, il cui confine è l'articolo 11 della Costituzione. Costò milioni di morti, quell'articolo, soltanto più remoti dei diciannove pianti ieri. Il dolore per loro è autentico, la sua traduzione bellica una barbarie. Un'altra, e non sarà l'ultima.

La guerra abbisogna di follia, la follia di folla, la folla di simboli. La bandiera nazionale si adatta benissimo, garrisce sulle istituzioni come sulle caserme e anche alle olimpiadi, rappresenta l'esercito quanto lo stato. Non la sventoleremo. Lo stato si fa chiamare patria ogni volta che si accinge a compiere assassini di massa, ma lo sosteneva uno scrittore svizzero e il suo paese è notoriamente imbelle.

Milioni di persone riempirono le piazze prima che la guerra cominciasse, e tra le lacrime sulle bare dei carabinieri ci sono forse anche quelle di chi la guerra provò a fermarla, senza riuscirvi. Quelle lacrime custodiscono lo spavento della morte, non l'orgoglio di un dovere in cui non c'è alcuna nobiltà.

La pace è un'arte ingloriosa, praticarla è una complicata sofferenza di cui la storia non si ricorda mai. Eppure è oggi che bisogna avere il coraggio del disfattismo. Il coraggio di dire che quelle italiane non sono truppe di pace. Che i morti di Nassiriya non sono eroi ma vittime. Che la liturgia tricolore dei caduti è insopportabile. Che l'orrore della guerra non si può tacere mai. Anche, soprattutto, davanti a diciannove bare.

EUROPA on the Web 18-11

L’Ue boccia Berlusconi

IL summit con Putin è stato un vero fallimento

Nuove critiche piovono su Berlusconi dall’Europa.

Ai ministri degli esteri dell’Unione, riuniti ieri a Bruxelles, non è affatto piaciuta la gestione italiana del recente summit con la Russia. Funzionari e diplomatici dell’Ue hanno parlato di negoziati falliti: «Chiaramente – ha detto uno di essi interpellato dai giornalisti – il vertice di Roma non è stato un successo, sia in termini di risultati che per il modo in cui è stato condotto». E un altro diplomatico ha aggiunto che «più o meno tutti i ministri hanno detto che non era quello scelto da Berlusconi il modo migliore per gestire il summit». La stessa fonte ha poi aggiunto che il commissario per le relazioni esterne dell’Ue, Chris Patten, ha sottolineato ai ministri la necessità da parte dell’Unione europea di fissare obiettivi più chiari e di accordarsi su una posizione comune per i futuri vertici con la Russia.

In modo da evitare “sorprese”, come la inopinata difesa d’ufficio di Putin fatta dal presidente del consiglio italiano sul caso Yukos e sulla Cecenia. I diplomatici europei ritengono che la linea adottata da Berlusconi abbia consentito al presidente russo di mettere uno contro l’altro gli Stati dell’Ue. Consentendogli di evitare di dare risposte su questioni spinose: dalla ratifica del Trattato di Kyoto, agli accordi di partnership e cooperazione.

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IL RIFORMISTA 18-11

BERLUSCONIANA

You don't know the history di Veronica e del Cacciari islamico

Cara Miriam, non ho parole per commentare quanto è accaduto. E non amo gli applausi. Preferisco il silenzio. Lo stesso silenzio di cui era alla ricerca il mio povero Petit Chou quando domenica è venuto a trascorrere qualche ora qui a Macherio. Scuro in volto ha abbracciato me, Luigino e le ragazze senza parlare e poi si è chiuso in camera da letto (è da lì che ha telefonato a «Buona Domenica», evidentemente aveva acceso la televisione per rilassarsi). Certo non aveva la testa per chiedermi come avevo trascorso la settimana; mi sarei sentita morire, avrei dovuto mentirgli di nuovo e in quelle circostanze davvero non me la sentivo. Martedì scorso lo avevo avvertito che sarei andata per qualche giorno a Parigi, in una beauty farm, per rimettermi in sesto. Non era vero. A Parigi ci sono stata, ma per partecipare alle giornate del Social Forum Europeo. Conoscendo mio marito, potevo dirgli la verità? No. Ma io non posso, solo perché sono la first lady, rinunciare a conoscere, a capire, a sperimentare. E poi - non che mi senta vecchia - ma quando ho letto del raduno degli «altermondialisti» mi è venuta una gran voglia di sentirmi giovane tra i giovani. Ho tirato fuori dall'armadio un paio di jeans hippie tutti ricamati che non mettevo da un secolo e sono partita.

Tanto disubbidiente. Ero euforica e per la bugia che avevo rifilato a mio marito mi sentivo tanto «disubbidiente». A Parigi un taxi mi ha lasciata poco distante dall'ingresso del Social Forum: mi è sembrato più carino arrivarci a piedi. Si poteva entrare solo dopo essersi iscritti e per farlo ho dovuto ovviamente mostrare un documento: quale? Ma la carta d'identità con il tuo nome Miriam, e solo per questo mi son sentita tornare indietro di vent'anni. Ero felice, un vero stato di beatitudine che però, ahimé, non è durato a lungo: perché i giovani c'erano sì, ma c'erano pure tante persone della mia età tra le quali ho riconosciuto anche un paio di facce del periodo dei teatrini off. E poi tutto questo marxismo-leninismo-trozkismo che non vuole tramontare mai: che abbia davvero ragione Petit Chou? Ho assistito all'intervento di Toni Negri (lì ho incontrato la mia amica francese con cui avevo appuntamento), ma quel suo isterico «maledetti, maledetti, maledetti!» rivolto anche a Petit Chou, che per certo so che non lo merita, non mi è piaciuto per niente.

Il fascino di Ramadan. Sfogliando i giornali francesi ho scoperto invece un filosofo musulmano molto affascinante su cui tutti in Francia stanno litigando tanto che anche al Forum erano incerti se farlo parlare o meno. Si chiama Tariq Ramadan, decisamente un bell'uomo, una sorta di Cacciari islamico o meglio, un Cat Stevens in versione intellettuale. Mi sono sentita subito attratta perché si definisce riformista, propugna una graduale integrazione delle comunità islamiche e secondo lui la pratica religiosa non è incompatibile con la via moderna. Almeno così mi sembra di aver capito. E insomma ero lì che mi informavo, che cercavo di capire se avrebbe tenuto il suo seminario e dove, quando è squillato il telefonino: era Barbara, che da Macherio mi informava della tragedia di Nassiriya. Sono tornata a casa con il primo aereo. I morti italiani, la sinagoga: sono sbigottita, come tutti. E maledico questa follia omicida che sembra ormai inarrestabile. Dentro di me. In silenzio.

MEDITAZIONE

MANIFESTO 18-11

Fuga da Baghdad

MARCO D'ERAMO

Presi nel vortice di morti italiani e americani in Iraq, nessuno di noi ha notato che la settimana scorsa ha segnato una svolta a 180 gradi nella strategia statunitense e che la nuova parola d'ordine della Casa bianca è: «districhiamoci». In termini meno eufemistici, la nuova linea di condotta è: «squagliamocela di corsa». Certo, il presidente George W. Bush continua ad proclamare che gli Stati uniti resteranno in Iraq, mai se ne faranno cacciare, e vi costruiranno una florida e vivace democrazia. E, certo, sul terreno l'esercito americano usa armi pesanti da battaglia, aerei da combattimento F-16 e dà alle sue operazioni nomi minacciosi, dal vago sentore teutonico, come «Martello di ferro». Ma - ha notato il New York Times - queste azioni di guerra classica si rivelano inefficaci contro la guerriglia, mentre - osserva la Bbc - si rivelano costosissime in termini di consenso perché, moltiplicando le perdite «collaterali» tra i civili, nutrono l'odio della popolazione contro gli occupanti: perciò, sempre secondo il quotidiano newyorkese, queste rappresaglie sono rivolte più che altro alle proprie truppe, con l'intento di sollevarne il morale ormai sotto i tacchi.

Parole e azioni teatrali dunque. Ma le dichiarazioni di indefettibile, per quanto improvviso, attaccamento alla causa democratica irachena ricordano da vicino i proclami di eterna fedeltà dei coniugi adulteri. Infatti, il richiamo in gran carriera del governatore Paul Bremer III - dopo gli elicotteri buttati giù nella prima settimana di novembre - era già un segnale del nervosismo che si è insinuato nella Casa bianca: per volare a Washington, Bremer ha dovuto annullare un incontro con il premier polacco Leszek Miller che si trovava già a Baghdad: e la Polonia è, oltre a Italia, Spagna e Ucraina, fra i pochi che hanno offerto truppe alla coalizione angloamericana.

Mentre Bremer discuteva a Washington con il segretario di stato Colin Powell, con la consigliera per la sicurezza nazionale Condoleeza Rice, il ministro della difesa Donald Rumsfeld e il vicepresidente Dick Cheney (si noti l'assenza di Bush), è saltata in aria la caserma dei carabinieri italiani. E poi è stato abbattuto un altro elicottero Usa. Il nervosismo si è trasformato in panico: sono già 81 i militari alleati uccisi in questo mezzo mese di novembre, portando il totale dall'inizio della guerra a 496. E sono più di 9.000 i soldati Usa rimpatriati per ferite, crollo psicologico, malattie.

Da qui la fretta quasi indecorosa nell'annunciare l'esito del vertice d'urgenza, e cioè la «fine dell'occupazione americana» entro giugno prossimo e la formazione di un governo iracheno transitorio. Ma non la fine della presenza militare, ha insistito Rumsfeld, però ormai isolato nell'amministrazione (con la possibile eccezione di Cheney). Il passaggio dei poteri è stato fissato a giugno perché è l'ultima data in cui il suo annuncio può avere per Bush un effetto positivo sul voto del prossimo novembre per la Casa bianca.

Fino alla settimana scorsa, gli Stati uniti avevano sempre opposto fortissime obiezioni a chi, come i francesi, li invitata ad accelerare la restituzione del potere agli iracheni. Il Pentagono aveva sempre sostenuto che bisognava far adottare una costituzione irachena prima di indire elezioni, altrimenti il governo provvisorio non avrebbe avuto nessuna legittimità e avrebbe aggravato, invece di lenire, l'immagine degli Stati uniti come potenza occupante. All'improvviso invece, oggi quest'obiezione non ha più nessun peso. In realtà l'obiezione continua a essere sensata visto che il governo transitorio non eletto sembra destinato a finire nelle mani di un truffatore come Chalabi, cui ben si addice la definizione che Roosevelt dette del dittatore Somoza: «È sì un figlio di puttana, ma è il nostro figlio di puttana». Poco importa che un governo fantoccio presieduto da Chalabi possa innescare una cruentissima e triangolare guerra civile di tutti contro tutti, tra sunniti, curdi e sciiti. Ancor più stridente il voltafaccia sulla tesi «morale» che motivava il prolungarsi indefinito dell'occupazione americana: «Non possiamo venire qui, bombardare, distruggere, uccidere civili, portare il paese nel caos e poi andarcene». In realtà, è proprio quello che gli Usa preparano a fare.

D'altronde non è la prima volta nella storia in cui il discorso politico contraddice la politica reale di chi lo tiene. Fare la voce grossa è spesso l'unico modo per cedere sulla sostanza senza perdere la faccia. Un esempio di quest'antica tecnica di dominio lo ha fornito proprio il Pentagono con l'invasione dell'Iraq. A guerra finita, il vice di Rumsfeld, Paul Wolfowitz aveva ammesso con candore che le armi di distruzione di massa avevano costituito solo la ragione «retorica» della guerra: il suo scopo primario era invece quello di trovare un paese, altrettanto decisivo strategicamente, che ospitasse le basi militari spostate dall'Arabia saudita: e il ritiro Usa dall'Arabia saudita è iniziato a giugno. Ma, proprio come nel furore delle morti ci siamo persi il voltafaccia americano, così nel fragore della guerra non abbiamo notato che il ritiro delle basi Usa dall'Arabia saudita era la prima - e non negoziabile - rivendicazione di Al-Qaeda dopo l'attentato dell'11 settembre 2001. Attaccare l'Iraq è stato perciò - ha detto in sostanza Wolfowitz - l'unico modo per soddisfare la richiesta principale di Al Qaeda. Deve essere questo che s'intende per «guerra al terrorismo».

martedì, novembre 18, 2003

LUTTO NAZIONALE

LA PATRIA

AFFRANTA ED UNANIME

AL SEGNALE

si è data una bella grattata alle parti intime

PERCHE’

è il Merda che porta sfiga

Io ve lo dico da sempre ma se non volete credere a me

CHIEDETELO AI CARABINIERI


Luciano Seno

Berlusconi liberale

Il fumetto che gli esce dalla bocca dichiara: «I giornalisti possono scrivere tutto quello che voglio!»

Cartoon su “Giornalisti”, rivista delle organizzazioni professionali.

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WWW.CENTOMOVIMENTI.IT 17-11

EDITORIALE

Sotto il cinismo niente

Berlusconi: “Abbiamo dimostrato che non siamo più il Paese delle mamme”

MASSIMO DEL PAPA

Il Berlusconi che con la faccia di circostanza passa in rassegna le bare dei militari trucidati a Nissirya è leggermente diverso da quello rivelato da una indiscrezione di “Repubblica” pochi giorni fa. Indiscrezione che se fosse vera, ma trattandosi del soggetto in questione nulla osta, suonerebbe ignobile oltre a confermare che in mano al Cavaliere siamo tutti potenziali candidati al macello: “Abbiamo dimostrato che non siamo più il Paese delle mamme”. Come dire che questa strage è servita all’immagine, all’orgoglio nazionalista, al militarismo vitalistico, fascistoide e all’esaltazione masochistica. Vien da dare piena ragione allo storico Franco Cardini quando afferma che Berlusconi ha gettato sulla bilancia quei 19 cadaveri per partecipare alle commesse, ai buoni affari della ricostruzione e del petrolio in Iraq.

Di quali mamme parla Berlusconi? Di quelle transitate per ore e per giorni sulle sue televisioni, in modo da svuotare la più grande tragedia italiana del dopoguerra, da ridurla a una celebrazione in grado di coprire i suoi errori e rimpinguare le sue casse che carburano ad audience, a spot pubblicitari? Se persino una coscienza lucida e mai inutilmente polemica come Vittorio Foa si rammarica dell’orgia di retorica che ha svilito una simile tragedia, allontanando il confronto sul problema presente, su come risolvere lo stallo drammatico, pericoloso di una presenza italiana in un inferno dove non è mai al sicuro.

Come sarebbe allora il Paese delle mamme? Questo disastro annunciato è stato riferito da tutti i notiziari, di Stato e privati vale a dire del primo responsabile, con assoluta faziosità, riportando quasi solo le ragioni dei bellicisti, i certissimi, però a casa loro, che i militari italiani, “eroi” di un giorno per una guerra non loro, là dovevano stare, fino a farsi ammazzare. I funerali sono diventati una diretta televisiva, un evento mediatico, officiante il cardinale filoberlusconiano Ruini con intorno 30 vescovi e 200 cappellani militari, come quelli coi quali don Lorenzo Milani, prete pacifista, polemizzava.

L’eroismo d’accatto che dilaga ovunque, anche nello sport, nelle partite della Nazionale dove però il minuto di silenzio viene riempito di pubblicità. Le vedove che leggono il Vangelo davanti alle telecamere, si fanno vedere in televisione, allo stadio dove i calciatori “finalmente cantano a squarciagola l’inno nazionale”. A qualcosa quei diciannove morti son serviti! Ma se l’incasso della partita va alle famiglie dei defunti, la gente non si fa vedere, resta a casa: eroi, sì, ma non a spese mie.

L’uscita del primo ministro è non solo falsa, chè non ci sarebbe notizia, ma soprattutto di una irresponsabilità tragica, di un cinismo rivoltante. Parigi val bene una messa! Qui esce l’avventuriero senza scrupoli, abituato a fingere le lacrime, stretto nel doppiopetto istituzionale come in una camicia di forza che però non contiene la grettezza. Se questo è il suo cordoglio per 19 militari finiti al macello per la sua inesistente politica estera, servo-americana, antislamica, belligerante purchessia, allora sarà lecito rispondergli che quello è sangue versato per la sua megalomania, il suo protagonismo da nano della politica, dell’umanità, dell’intelligenza. Lui, che ha evitato il servizio di leva (e dopo di lui il suo abbronzato figliolo), non si è mai saputo come. Lui, che sulla polveriera ci manda gli altri. Lui, che si rallegra perché non saremmo più un Paese mammone mentre i suoi tg di servizio, i suoi opinionisti di cartone, i suoi talk-show di regime, i suoi programmi-spazzatura del pomeriggio e i suoi giornali-megafono scivolano sul sangue delle vittime.

Per Berlusconi questo è sempre il Paese delle mamme. Deve esserlo.

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CITAZIONE

Ninna nanna, pija sonno

ché se dormi nun vedrai

tante infamie e tanti guai

che succedeno ner monno

fra le spade e li fucilli

de li popoli civilli...



Ninna nanna, tu nun senti

li sospiri e li lamenti

de la gente che se scanna

per un matto che commanna;

che se scanna e che s'ammazza

a vantaggio de la razza...

o a vantaggio d'una fede

per un Dio che nun se vede,

ma che serve da riparo

ar Sovrano macellaro.

(Trovata sul Web, attribuita a Trilussa)

MEDITAZIONE

La Stampa

La colpa in canna

Due obiezioni alla nuova legge sulle droghe

di MIchele Ainis

Rieccoci: l'approvazione in Consiglio dei ministri del disegno di legge Fini sulle droghe segna l'ennesimo giro di vite sugli stili di vita individuali, allungando una lista ormai più lunga d'un lenzuolo. È il marchio del nuovo pensiero igienico globale, che spazia dalle sigarette all'alcool (se guidi con un bicchiere di vino in corpo rischi l'arresto fino a un mese), dall'obbligo d'indossare la cintura pure nel traffico dell'ora di punta fino alla quantità di pastasciutta che hai sul piatto (anche in Italia c'è infatti chi ha proposto d'introdurre la fat tax, la tassa sul grasso). Ma questa volta l'inasprimento normativo deciso dal governo ha almeno due punti discutibili.

Primo. La proposta Fini cancella ogni distinzione fra consumo e spaccio, mettendo sullo stesso piano vittime e carnefici, il popolo dei tossicodipendenti che non riesce a liberarsi suo malgrado dalla schiavitù della droga e la criminalità organizzata che lucra sulle debolezze altrui. Essa reca quindi in sé un vizio d'incostituzionalità grande come una casa, perché tratta in modo uguale situazioni assai diverse, violando un principio cardine della Costituzione: quello d'eguaglianza (formale). Ma c'è di più, dal momento che lo stesso disegno di legge azzera inoltre ogni differenza di trattamento normativo fra droghe leggere e droghe pesanti, fra lo spinello e l'eroina. Eppure di marijuana non è mai morto nessuno, da quando - negli anni Venti - cominciò a diffondersi nelle strade di New Orleans.

Secondo. La stretta proibizionistica battezzata dal governo cancella l'«ammonizione» del prefetto, sostituendola con un ventaglio di sanzioni immediate, dal ritiro del passaporto all'obbligo di rientrare in casa a una cert'ora. E soprattutto moltiplica i mesi di carcere per i più incalliti, quand'anche si tratti di qualche «canna» di troppo. Il guaio però è che in Europa fumano spinelli 15 milioni di persone (il 5% della popolazione), e una percentuale analoga in Italia: vogliamo sbatterli tutti in galera? E allora perché non fare altrettanto con quell'8% d'italiani che consuma antidepressivi, con chi viceversa fa uso d'eccitanti, con chi s'arma di viagra prima d'un incontro galante? Eccola infatti la tara più evidente di quest'iniziativa normativa: è fuori dal tempo, un po' come riesumare il delitto d'adulterio tirandolo fuori dalle vecchie tv in bianco e in nero. E tuttavia coraggio, possiamo pur sempre confidare nelle specifiche virtù della tradizione giuridica italiana: regole sempre più severe, applicazioni sempre più lassiste.

CORSERA 16-11

Berlusconi e «l’Unità»

“Non si impicci e lasci fare al mercato, Cavaliere”

PIERO OSTELLINO

Se l'odio «personale» per Berlusconi fosse dovuto a ciò che di lui scrive l'Unità - come sostiene lo stesso presidente del Consiglio - il quotidiano di Furio Colombo sarebbe uno dei più diffusi d'Italia. Quindi, ridimensioniamo le cose. Berlusconi sbaglia due volte. Sbaglia ad accusare l'Unità, e i Democratici di sinistra che la finanziano, di fomentare l'odio nei suoi confronti fino al punto da indurre qualche demente a minacciarlo di morte. E' un'accusa grave e sconsiderata alla quale si risponde in un solo modo: con la solidarietà a Colombo e alla sua redazione. Sbaglia, Berlusconi, attribuendo all' Unità una diffusione e una capacità di manipolazione che non ha. E a questa seconda accusa si risponde così: Colombo e i suoi non aizzano all'odio, bensì fanno informazione e politica liberamente, (vivaddio), anche se in modo esplicitamente fazioso, in un Paese libero. E vendono quanto vendono. Non si impicci e lasci fare al mercato, Cavaliere.

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WWW.CENTOMOVIMENTI.IT 16-11

Ricchezza e potere

Fazio contro il Cavaliere

GIORGIA ROMBOLA'

Il Governo in mano all’aristocrazia. Sembrerebbe un ritorno di fiamma per l’organizzazione sociale settecentesca quello del Governatore della Banca d’Italia Antonio Fazio. Invece è un affondo bell’e buono a Silvio Berlusconi e ai suoi dipendenti. Il numero uno di via Nazionale, oggi insignito con il Premio internazionale alla Cultura cattolica, precisa subito: chi governa deve essere colui che “fa parte di un’aristocrazia non nell’accezione comune di classe detentrice della ricchezza, ma secondo l’etimo: i migliori, i più buoni”.

Ogni riferimento alla situazione attuale sembra essere assolutamente intenzionale. D’altronde, che Fazio non concordasse più con la politica economica della Casa delle Libertà era evidente ormai da tempo. Ma ora, il suo appunto ai vertici del potere si sposta sul piano della condotta morale, con i toni gravi di una lezione di etica politica.

Per Fazio, che riprende le parole di San Tommaso “chi è scelto per una funzione pubblica deve esserlo in base alle capacità e alle doti morali, secundum virtutem”.

Il principio morale, poi, deve essere alla base di ogni scelta, anche economica: “L’etica non viene dopo che ha operato il mercato, ma è parte costituente del suo buon funzionamento”. Inoltre, ammonisce il Governatore, i leader devono ricordare che “il bene comune è distinto da quello degli individui: lo Stato persegue un fine che ha per oggetto il bene delle persone, ma non necessariamente coincide con il bene di ogni individuo”.

Il discorso di Fazio è un affondo dopo l’altro, tra una citazione di Einaudi e una di Woitijla.

E anche se si volesse parlare solo dell’economia, le note dolenti sono tante. Non si compiaccia troppo il Governo per la crescita del Pil annunciata due giorni fa dall’Istat: “Il pil, il reddito di un’economia - chiarisce il capo di Bankitalia - concorre a definire il benessere generale. Altri parametri, che assumono oggi un rilievo crescente, danno la misura della qualità della vita, come la sicurezza e la salute, la cultura. Promuovere la crescita, creare le condizioni perché si sviluppi la competitività, dare lavoro sono risposte ad un imperativo etico”.

Ma, avverte Fazio, “riconoscere le limitazioni del mercato non deve implicare un rigetto dell’economia. Essa rimane una componente fondamentale della realtà sociale”. Bisogna solo afferrare il nodo della questione: “L’aumento della povertà, le devastazioni dell'ambiente, i casi di sfruttamento dimostrano piuttosto che oggi non vi è piena consapevolezza che questi fenomeni comportano anche gravi diseconomie”.

MEDITAZIONE

STAMPA 16-11

Terroristi e partigiani

di Barbara Spinelli

Dopo l’attacco alle due sinagoghe di Istanbul, dopo l’attacco di mercoledì alla caserma italiana di Nassiriya, dopo l’attacco a Riad dell’8 novembre: ormai è chiaro che gli insorti iracheni e i terroristi globali si muovono più o meno disordinatamente assieme, e hanno come obiettivo tre gruppi di paesi: l’America in prima linea, presente militarmente in Iraq, e accanto all’America Israele e l’Europa (i musulmani turchi sono assimilati agli europei). Sono i kamikaze e le auto bomba a unificarli così, nella strage. Sono loro a volere e a imporre quest’uniformità di sentimenti, di orrore: un’uniformità che non distingue più una situazione dall’altra, che cancella le caratteristiche e le responsabilità dei singoli conflitti, che non lascia più spazio a chi vuol lavorare per la pace e ricominciare la politica, non solo in Europa ma anche in America e anche in Israele.

Non cedere al terrorismo significa forse questo, oggi: rifiutare l’uniformità suicida imposta dal terrorismo kamikaze, ogni volta che quest’uniformità cancella specifiche geografie, specifiche storie, responsabilità. Significa continuare a pensare, a dispetto di chi - suicidandosi terroristicamente - vorrebbe uccidere non solo il proprio pensiero ma anche il nostro. Significa rimeditare una cosa per volta, senza rinunciare a distinguere: la guerra contro il terrore e l’impossibilità di debellarlo per sempre; la guerra americana in Iraq e i modi per concluderla senza lasciar sfasciate troppe cose; la guerra di Israele e le prospettive d’un accordo con la Palestina. Il ministro israeliano Shalom non ha torto, quando parla a proposito dell’attentato in Turchia di una «minaccia terrorista mondiale». Ma sfugge alle responsabilità nazionali, quando si limita a internazionalizzare il fenomeno e a cercare risposte solo globali.

Per tentare di capire si può cominciare dall’Italia, così gravemente colpita. Se davvero si vuol rendere omaggio al sacrificio dei carabinieri e dei soldati a Nassiriya, occorrerà molto più di una solenne cerimonia funebre, e del dolore collettivo che vi si esprimerà. Se è vero che il dolore apre la strada alla sapienza, come da tempi immemorabili ci dicono i tragici greci, occorrerà anche una rivoluzione delle parole, una meditazione sul loro senso effettivo, un rapporto più stretto fra quel che si fa, quel che si sente, quel che si vede, e quel che si dice. Questo rapporto è stato fin qui sregolato, se non inesistente. E’ ancora labile, dopo l’eccidio di Nassiriya. Si cerca ancora rifugio in eufemismi, che imbelliscono e deformano la verità della guerra che i coalizzati combattono sotto guida americana. Si parla ancora di soldati di pace, per la pace. Si parla di un drappello di kamikaze estranei al territorio iracheno, nell’illusione di poter de-territorializzare quella che è una guerriglia locale condotta con vari metodi, tra cui il terrorismo. Ci si nasconde dietro parole imprecise, ed è proprio l’imprecisione che impedisce al dolore collettivo di generare la sapienza di quel che veramente accade, di quel che ci aspetta, di quel che è possibile fare, con le armi e la politica e la ragione.

Il principale errore lo compiamo quando globalizziamo tutto quello che facciamo sui singoli teatri di guerra - Iraq e Afghanistan per i coalizzati, Palestina per Israele - e quando globalizziamo anche tutto quel che fanno gli avversari (siano essi resistenti o terroristi). La nostra lotta non è contro le varie forze di resistenza e contro l'uso che esse fanno del terrore suicida, ma contro un anonimo, indecifrabile terrorismo mondializzato: questo generalmente dicono i dirigenti Usa e molti dirigenti europei o israeliani. E anche l'avversario viene defraudato per questa via del suo territorio e immaginato come terrorista globale: privo di patria, di confini, di sostegni locali.

De-territorializzare la guerra è un espediente che può consolare in un primo momento, ma che rischia di divenire doppiamente micidiale. Micidiale è in primo luogo l’arroganza, che è alla base di una volontà così persistente di ignorare il tòpos, il luogo dove i soldati sono mandati: la terra irachena su cui si combatte diventa il mondo, e perfino il nostro mondo. Il ministro della Difesa Martino ha addirittura visto, in Iraq, il «nostro Ground Zero»: come se l’attacco bellico di Nassiriya fosse avvenuto in casa nostra, e non in casa d’altri. Come se il mondo su cui interveniamo fosse ormai nostro: è quel che succede nelle utopie, che per definizione son prive di tòpos.

Ma micidiale è anche la debolezza, che si dissimula dietro la presunta mondializzazione delle minacce: trasfigurando l’avversario bellico in terrorista globale, negando qualsiasi suo legame con il territorio e il tessuto dell’Iraq, apparirà meno vistoso il fatto che sono gli americani e i coalizzati ad aver perso - se mai l’hanno avuto - il controllo del territorio. Constatare l'esistenza d’un «male mondiale» ha senso, perché tutti siamo implicati. Ma è anche una menzogna, che singolarmente coniuga un'estrema volontà di potenza e un'estrema dimostrazione di impotenza.

Contro chi combattiamo, e per che cosa e per chi? Prima o poi varrà la pena rispondere a queste domande, senza rifugiarsi in parole che falsificano le concrete esperienze sul fronte. Contro chi combattiamo in Iraq: sono terroristi, certo, perché i loro metodi lo sono. Colpiscono non solo gli uomini in uniforme ma anche i civili, musulmani compresi. Ma sono terroristi che si organizzano e vedono se stessi come partigiani, guerriglieri, ed è troppo facile e astratto negar loro tale appellativo. Colin Powell li chiama insorti, non terroristi. Non sono privi di legami con il territorio, solo pochi sono adepti di Bin Laden, e per questo sono così pericolosi. La guerra americana in Iraq voleva instaurare una democrazia-modello nel Golfo (son spariti gli accenni alle armi di distruzione) e ha finito col favorire un'alleanza mortifera fra terrorismo internazionale, fedeli di Saddam, nazionalisti anti-Saddam, sciiti radicali temporaneamente associati ai sunniti.

Conviene leggere l’inchiesta pubblicata sul Guardian del 13 ottobre da Saki Chehab, libanese d'origine palestinese, che ha contattato molti resistenti-terroristi: gli insorti non sono tutti fedeli a Saddam, né sono subito liquidabili come emissari di Al Qaeda. La maggior parte di essi sono nazionalisti, che non sopportano le truppe americane e che spesso sono passati alla resistenza perché offesi dal modo di comportarsi, irrispettoso, violento, dei soldati Usa. I fedeli di Saddam si mobilitano perché hanno perso il potere, i nazionalisti perché vogliono indipendenza e sicurezza, gli integralisti perché sognano un Islam politico: «Quel che più mi ha colpito - scrive Chehab - è la forza del loro proposito unitario: liberare l'Iraq dagli occupanti. Quelli che ho visto non erano residui del partito Baath. Essi biasimavano anzi Saddam, per aver portato gli americani in Iraq. Assicuravano addirittura che la cattura di Saddam avrebbe definitivamente rotto il legame tra quest'ultimo e i movimenti di resistenza. Si definivano nazionalisti». La forza di tali propositi è stata sottovalutata da Washington, che solo ora vorrebbe cambiar rotta e anticipare al giugno 2004 il passaggio dei poteri a un governo iracheno. I carabinieri italiani per parte loro lo sapevano: per questo e non per ingenua cecità si erano insediati nel cuore di Nassiriya, sapendo che compito prioritario degli occupanti era conquistare la fiducia d’un popolo fiero della sua indipendenza, dunque suscettibile. Per questo tanti italiani sono contrari a un ritiro, pur avversando la guerra: quel modo di esser presenti in Iraq, per cui i carabinieri sono morti, deve servire da esempio e preparare un'uscita non catastrofica dal conflitto.

L’altra questione è: per cosa combattiamo e per chi. E’ stato detto che combattiamo ormai in nome di un’unica comunità, che va dagli Stati Uniti a Israele passando per l'Europa. E in effetti questa comunità c'è: è stata creata dal terrorismo. Ma è una comunità di responsabilità e di doveri, e non ancora di convinzioni. Il governo israeliano non potrà evitare di far la sua parte, combattendo il terrorismo ma anche capendo le sue origini e facendo le «dolorose concessioni» di cui ha parlato Sharon: abbandonare territori e colonie è la più urgente delle concessioni e indebolisce l’energia degli attentatori. Il governo Usa non potrà fare a meno di meditare su una guerra che ha abbattuto Saddam ma fortificato il terrorismo. Una guerra che forse poteva essere evitata con la forza dissuasiva dell'armata Usa nel Golfo, se è vero quello che ha scritto James Risen sul New York Times del 5 novembre: Saddam era pronto a cedere su tutto, pur di evitare l'offensiva. Era pronto a far entrare ispettori americani, a consegnare un uomo implicato nell'11 settembre, a convocare entro due anni elezioni libere controllate internazionalmente. Forse era un bluff, ma nessuno può dire con certezza che lo fosse.

Quanto all’Europa, essa sarà chiamata a escogitare una politica più efficace di quella americana, se non vuole limitarsi a denunciare l’alleato in difficoltà. Sul Corriere della Sera, Stefano Folli ha invocato una «comunità sovrannazionale di valori» - tra Europa, Usa, Israele - che di fatto non esiste ancora, se non nel mirino terrorista. Nelle comunità sovrannazionali ognuno rinuncia a un pezzo consistente della propria sovranità, e questo non è accaduto tra Usa Europa e Israele. Ognuno agisce unilateralmente, ed è solo il terrorismo a unirci, non nell’azione dei governi ma nel dolore e nel patimento di quei poveri carabinieri e turchi ed ebrei e arabi che abbiamo visto insanguinati a Nassiriya, a Istanbul, a Riad. Il terrorista suicida non considera se stesso come terrorista. Si considera un partigiano, reso forte dalla fusione tra religione e nazionalismo. Avere un vocabolario meno semplificato può aiutare a capire un po’ il mondo che abita lui, e che abitiamo noi.

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CITAZIONE

Diceva un vecchio (e anche molto spiritoso) umorista: «Chiamiamo padre, noi cattolici, uno che non deve avere figli e casa di cura un posto dove molta gente va a morire». Così si definisce «missione di pace» un luogo dove molti soldati ritornano avvolti nel tricolore, ma in una cassa di legno. Se laggiù, sottoterra, invece del petrolio, ci fossero patate o barbabietole, forse Bush non direbbe a Ciampi che gli americani lasceranno l’Iraq soltanto «a lavoro completato». «Beato il Paese che non ha bisogno di eroi» diceva Bertolt Brecht. Si è parlato tanto di «globalizzazione». In un settore l’abbiamo raggiunta: quello del terrorismo.

Enzo Biagi – Corsera 16-11