sabato, agosto 30, 2003

MANIFESTO 29-8
Berlusconi scatenato: riformo tutto io

E minaccia gli alleati: il padrone sono me – o vi allineate o vi caccio

ANDREA COLOMBO

«Sulle pensioni garantisco una proposta e una riforma strutturale. Credo che la presenteremo entro la finanziaria». Silvio Berlusconi, in una conferenza stampa notturna improvvisata al termine del vertice di maggioranza, ha risposto così al presidente di Confindustria Antonio D'Amato, che dal meeting cilellino di Rimini aveva sferrato un durissimo attacco contro il governo, reclamando l'intervento immediato sulle pensioni. «Il governo - aveva detto D'Amato - ha perso la sua spinta riformista». Per non lasciare dubbi sul suo obiettivo reale aveva aggiunto: «La riforma delle pensioni va fatta entro settembre, nella finziaria. Non può essere ostaggio di chi ha il 2 o il 3% dei voti». Il premier ha risposto all'appello, mantenendo però un margine di ambiguità, senza specificare cioè se intenda inserire la riforma nella prossima manovra, come gli chiede Tremonti, oppure limitarsi ad accelerare la delega, come vuole il ministro del welfare Maroni.

Ma la riforma che Berlusconi intendeva annuNciare ieri sera era soprattutto quella della Costituzione. Il summit ha infatti approvato la bozza preparata a Lorenzago dai quattro «saggi». L'articolato è già pronto, necessita solo di poche modifiche. Dovrebbe essere discusso dal governo, per una già certa approvazione definitiva, nella prossima riunione o in quella successiva. «Contiamo di poter presentare questa proposta, come governo, al senato, per la metà di settembre», anticipa il premier deciso a procedere a passo di carica. Le sue pressioni hanno avuto ragione delle resistenze opposte alla devolution di Bossi, in nome dell'«interesse nazionale». E' lo stesso cavaliere ad annunciare la fine del braccio di ferro prolungatosi per oltre un anno: «Il senato federale della repubblica si configura come luogo idoneo per armonizzare il federalismo e l'interesse nazionale». Capitolo chiuso.

Per finire, il capo della destra ha bacchettato con massima durezza i suoi alleati, nell'evidente intento di ripristinare il suo dominio nella Casa delle libertà. «Tutto il lavoro fatto da questa maggioranza - ha detto - è stato nei mesi scorsi cancellato da dichiarazioni contrapposte, forse per il caldo o per voglia di visibilità. Sono stato tollerante ma ora dico la parola fine. Forzando la mia natura liberale e moderata annuncio che chi farà dichiarazioni dannose per la Casa delle libertà non sarà ricandidato. Non è giusto che ci sia chi lavora e chi distrugge il lavoro degli altri».

Per una volta, messa da parte la diplomazia e la recita abituale, Silvio Berlusconi ha parlato con sincerità. Non come il leader ma come il padrone assoluto della sua coalizione.

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IL RIFORMISTA 29-8

Se Berlusconi fosse come de Gaulle fonderebbe un nuovo movimento

Forza Italia ha esaurito la sua missione e il Cavaliere rischia una congiura di Palazzo

C'è un gran lavorio per nominare i nuovi vertici di Forza Italia. In un partito personale la scelta di una nuova leadership non è meno complicata che in un partito normale. La differenza sta nella procedura. Nei partiti normali si viene eletti, nel partito personale si viene per l'appunto nominati. Tuttavia la vicinanza al capo, tanto più se è il padrone del partito, non risolve il tema della leadership. Quando in tanti si dicono berlusconiani, nessuno è berlusconiano, tranne Giuliano Ferrara.

Forza Italia è stata tante cose nella sua breve storia. Movimento politico anticomunista alla nascita, via via si è arricchita di motivazioni. Al partito di Berlusconi hanno fatto riferimento un mondo elettorale e una classe politica vissuti sotto la protezione del pentapartito nell'agonia della prima repubblica, ma anche chi ha pensato che con la morte dei partiti e dello Stato dei partiti si potesse dar vita a un movimento radicale di massa. E' stato il primo esempio di americanizzazione completa della politica italiana. Governo dell'opinione pubblica, creazione di bisogni culturali di massa, modelli di comportamento individuali che travalicavano la collocazione sociale. E' per questo che in Forza Italia si sono trovati a proprio agio il poveraccio e l'avvocato d'affari, la casalinga e il piccolo imprenditore. E' stato fondamentalmente un partito "contro", non a caso è fallito ogni volta che si è misurato con il governo reale del paese.

Berlusconi ha concepito questa operazione politica interpretandola come la soluzione migliore per una autodifesa aggressiva dopo la caduta del sistema politico di riferimento e trasferendovi la propria esperienza di "imprenditore di anime" e il proprio staff. Del secondo è prigioniero a vita non riuscendo a sganciare le proprie sorti da quelle dei compagni di avventura degli anni ruggenti e dell'illegalità. Oggi è di fronte a un bivio.

Il partito senza di lui non esiste, il partito con lui è un assemblaggio di clan periferici spesso inaffidabili. Nelle realtà più corpose il processo di autonomizzazione dei gruppi dirigenti è abbastanza avanzato, basti pensare a Formigoni, al pugliese Fitto e a tanti altri ancora. La classe dirigente con l'imprinting berlusconiano è pressocchè inesistente. Una parte del movimento sente, da alcuni mesi, l'odore della sconfitta e comincia a fiutare l'aria che tira. Per di più è finita la stagione dei Vito e degli Schifani, ininfluenti persino nei propri gruppi parlamentari e inutilizzabili ormai persino nei "pastoni" dei Tg.

Ecco allora affacciarsi l'idea di un nuovo gruppo dirigente la cui fedeltà al capo non derivi né dell'esperienza Mediaset, quindi da Previti e Dell'Utri, né del rumore di sciabole della prime battaglie. Una classe dirigente che porti in dote esclusivamente l'assoluta fedeltà al Cavaliere, una capacità irriducibile di combattimento che non hanno gli ex democristiani di Forza Italia, l'assoluta mancanza di alternative fuori dallo schema berlusconiano. Bondi e Cicchitto stanno in questo quadro. Non li discuto come persone. Entrambi hanno irrevocabilmente rotto con la propria storia precedente, anche se Cicchitto reinterpreta la storia del Psi in una paradossale chiave di destra, entrambi pensano a Forza Italia come ad una forza politica "contro", entrambi pensano che l'unica forma di dialogo in politica sia l'annientamento dell'avversario per evitare che sia lui ad annientarti. Un'idea da crollo imminente, più che un progetto espansivo.

La scelta della nuova coppia di testa, l'intellettuale Cicchitto e l'ispettore Bondi, espone Forza Italia a diversi contraccolpi. Da un lato militarizza un partito che riconosce il predominio di Berlusconi ma che, fatti salvi gli interessi del capo, vuole mano libera in periferia e nel governo delle lobbies. Dall'altro lato espone Forza Italia, nella sua nuova deriva propagandistico-giustizialista, al gioco perverso dei suoi stessi alleati. Sia An, se non ha deciso di morire, sia la Lega e sia soprattutto i centristi non reggerebbero a lungo un "partito padrone" mentre sono ben disposti, lo hanno dimostrato, ad accettare un "padrone dei partiti". Ecco perché il tema vitale per Forza Italia non è il suo rilancio ma la sua morte. Un Berlusconi innovativo dovrebbe sciogliere il suo partito, congedare Previti e rifondare un nuovo movimento di destra. Ma Berlusconi non è il generale de Gaulle e sarà vittima, prima o poi, di una congiura di palazzo.
ESPRESSO on-line 29-8
I naufraghi della Marina nera

La X Mas del principe Borghese unico presidio degli interessi italiani al Nord? Ecco di che pasta è fatta la moda revisionista

Giorgio Bocca

Vogliamo discutere di storia e revisionismo? Mi è appena arrivato dalla Mondadori un poderoso Oscar di 700 pagine, uno zibaldone sulla Marina militare italiana dal fascismo alla Repubblica, opera di Giorgio Giorgerini, docente di Teoria del potere marittimo alla Università di Milano e consulente dello Stato maggiore della Marina e della Difesa.

Per capire che tipo di storia è basta la pagina di presentazione. Ci sono cinque citazioni. Quattro di Mussolini molto mussoliniane, imperialistiche, colonialistiche, dannunziane, in linea con una di Virgilio sull´imperium marinaro e una sesta di Amintore Fanfani del 1987 che dice: "Non siamo mica dei marines", la cui sola interpretazione possibile è che non abbiamo mai avuto mezzi da sbarco e che volevamo conquistare Malta con dei pescherecci.

Per arrivare in breve al cuore politico della poderosa opera sono corso alla pagina 562 dove il consulente Giorgerini affronta il tema dolente della resa della Marina agli alleati e alla formazione di una ´Marina nera´, la X Mas del principe Borghese. E chi ti spunta fuori? L´ammiraglio monarchico fascista Thaon di Revel che dava questo viatico ai marinai ´neri´: "La necessità che uomini della Marina della stessa matrice e delle stesse idealità fondamentali fossero anche al Nord a salvaguardia degli interessi e dei beni della forza armata e del paese". Il pensiero di Revel, dice Giorgerini, fu interpretato e obbedito nei fatti: "Al Nord la Marina repubblicana rappresentata dalla X Mas del comandante Borghese rimase l´unico vero presidio degli interessi italiani, soprattutto nell´epilogo della guerra, difendendo se pur invano i territori orientali di frontiera e quindi proteggendo i beni della Marina e le installazioni portuali e costiere opera in cui si distinsero il comandante Mario Arillo e i suoi marinai a difesa del porto di Genova. Non vi è alcun dubbio che il messaggio del capo carismatico Paolo Thaon di Revel fu recepito dovunque e da tutti".

Sogno o son desto? mi son detto. È davvero arduo sostenere le balordissime e false tesi del professor Giorgerini. La X Mas "unico vero presidio degli interessi italiani"? Una compagnia di ventura che percorse l´Italia uccidendo partigiani e incendiando villaggi sempre agli ordini dell´occupante tedesco il quale quando vide arrivare alcuni reparti a Trieste per combattere i partigiani di Tito li rispedì al di là del Piave senza fargli sparare un colpo, altro che difendere i territori orientali di frontiera.

La X Mas che difende e salva il porto di Genova? La storia seria, vera, dice cose diverse: dice che le centrali idroelettriche, i porti, le grandi fabbriche, furono salvati simbolicamente dalla insurrezione del 25 aprile, ma soprattutto dalla presa d´atto generale che la guerra era finita, come capì il generale SS Wolf che firmò la resa in Svizzera.

Anche il 25 aprile i comandi tedeschi erano in grado di far distruggere mezza Italia, ma da noi, come nella Ruhr, il loro unico mezzo per trattare la resa era di rifiutare la terra bruciata che voleva Hitler. Le domande che pone un´opera come questa di Giorgerini sono parecchie e tutte in qualche modo senza spiegazione.

Che interesse ha una grande casa editrice a mettere sul mercato una storia ampiamente smentita da altre storie pubblicate dalla medesima?

Produrre per tutti i gusti anche per quelli della borghesia spezzina, a cui Giorgerini appartiene, che sull´arsenale di La Spezia ci mangiò fino all´ultimo?

O per nostalgia di un regime a piani sovrapposti dove un monarchico di ferro come Thaon di Revel poteva convivere con gli squadristi e lasciare viatici a una ´Marina nera´ che continuava a combattere dalla parte dei tedeschi?

Si tratta di sfasciume storico che, fosse solo culturalmente, non meriterebbe attenzione. Ma il revisionismo di moda è di questa fatta.

WWW.CENTOMOVIMENTI.IT 28/8
"La Lega Nord pagò per indagare su Berlusconi"

di Gianfranco Mascia

All’inizio del 1995 la Lega Nord, dopo aver causato la caduta del primo Governo Berlusconi, era continuamente all’attacco dei vecchi alleati. Bossi, lo ricordiamo tutti, di volta in volta non risparmiava gli epiteti di “fascista” e “mafioso” indirizzati rispettivamente a Fini ed al Cavaliere.

Quello che forse non si sa (anche se è già stato pubblicato dal “Manifesto” in un articolo del 9 maggio 2001) è che gli uomini della Padania, pur di dimostrare le loro ragioni, erano disposti a pagare investigatori che portassero le prove del collegamento di Berlusconi con il narcotraffico.

E’ questa una delle conclusioni dell’inchiesta televisiva che andrà in onda nell’ultima puntata de “La legge è uguale per tutti, meno uno”, venerdì sera.

Gli 007 contattati dalla Lega nel gennaio del 1995 sono Sidney Rotalinti, giornalista ticinese, ed il suo amico Fausto Cattaneo, gìà Commissario della Polizia Svizzera, che erano sulle tracce di un giro di soldi riciclati provenienti dal narcotraffico che dall’Europa (tramite la Svizzera), passando per gli USA ed il Canada, arrivavano direttamente in Brasile.

Un reportage condotto da Michele Gambino per “Avvenimenti” (e citato anche nel suo libro "Il cavaliere B.") aveva approfondito questa indagine sul doppio flusso: denari sporchi che dall’Europa arrivano in sudamerica, e tonnellate di cocaina che dal Brasile e la Colombia atterrano sul continente europeo. Fausto Cattaneo era specializzato in indagini da “infiltrato” nel mondo del traffico di cocaina.

E’ in tale veste che, nei primi anni novanta, nell’ambito dell’”Operazione Mato Grosso” (questo il nome in codice dell’indagine), incontra Juan Ripoll Mary - conosciuto in tutto il mondo come grosso intermediario della droga - che crede Cattaneo il fiduciario giusto per il riciclo di denaro sporco che servirà “ufficialmente” per costruire una nuova città satellite in Brasile: Nova Atlantica, nel Mato Grosso.

Fausto Cattaneo, scrive un rapporto di polizia, datato 13 settembre 1991, nel quale cita la circostanza che tra i terminali in Europa del denaro Juan Ripoll Mary nomina anche la Fininvest di Silvio Berlusconi. Il commissario dell'antidroga aggiunge - anche nella testimonianza che manderemo in onda venerdì - che già in passato era venuto fuori il nome della Fininvest di Silvio Berlusconi a proposito della Pizza connection e dunque non bisogna stupirsi. Questo rapporto, che doveva restare segreto, inspiegabilmente viene reso pubblico e viene ripreso da “Avvenimenti” e da molti altri giornali italiani dell’epoca (metà degli anni ’90).

Fausto Cattaneo comunque continua le sue indagini, ma non per molto. Nell’intervista televisiva l’ex Commissario ci racconta: “sono stato estromesso da questa operazione, del quale ero supervisore, io ritengo per motivi sia politici che finanziari…”. Infatti, senza una ragione plausibile, gli viene tolta l’inchiesta. Ma, senza di lui, l’operazione si perde in mille rivoli. E lui non riesce a capire come mai l’indagine venga incomprensibilmente troncata sul nascere.

Sfiduciato e deluso, esce dalla polizia e, in collaborazione con l’amico giornalista Sidney, decidono, in nome della giustizia e della verità, che vale la pena proseguire trasformando l’inchiesta di polizia in un reportage giornalistico. Infatti una parte dell’indagine farà poi parte di un libro autobiografico che Cattaneo scriverà nel 2001 e che riscuoterà un notevole successo in Francia ed in Germania: "Come mi sono infiltrato nei cartelli della droga" per l'editore Albin-Michel.

Ma torniamo al gennaio del 1995: Bossi sa, dalla fortuna mediatica ottenuta dal rapporto in Italia, chi è Cattaneo e su cosa sta indagando, è in questo momento che l’allora senatore “Boso ed il deputato Calderoni della Lega Nord…mi hanno contattato - ci conferma il Commissario nell’inchiesta televisiva - affinché io indagassi in Brasile sulla Fininvest di Silvio Berlusconi”. L’incontro con il deputato Roberto Calderoli (che evidentemente allora preferiva le inchieste alle Commissioni Parlamentari di’Inchiesta) e il professor Gian Battista Gualdi avviene Al bar Club di Cadenazzo (Bellinzona): “volevano che io portassi prove tangibili e concrete che la Fininvest fosse coinvolta in operazioni di riciclaggio di denaro sporco”.

L’indagine prosegue quindi anche con le risorse che la Lega Nord mette a disposizione dell’investigatore (lui dichiara siano circa otto milioni) e che vengono consegnate all’uscita del casello autostradale di Como. Ma la Lega vuole di più, a fine gennaio del 1995 chiede a Cattaneo un incontro. Lui si presenta in compagnia di un collega in pensione e del giornalista Sidney (“come testimoni, perché non mi fidavo”) alla sede della Lega Nord di Milano, al cospetto di Umberto Bossi che approva il progetto e chiede di proseguire. Ma, appena usciti da quella riunione, Boso manda un comunicato stampa annunciando l’indagine in corso e, di fatto, annullandone l’efficacia.

Perché? Prova a rispondere Cattaneo: “oggi si può interpretare in questa maniera: mandare un segnale al nemico, al nemico dichiarato; forse facendo sapere a Berlusconi, che avevano ingaggiato qualcuno per fare delle ricerche, potevano cominciare a discuterne per trovare degli accordi”

Oppure era una maniera per fare tabula rasa attorno a quelle indagini, visto che fu proprio a partire da quel momento che Fausto Cattaneo ebbe, per ben sei lunghi anni il telefono sotto controllo. Ma le inchieste scaturite da queste intercettazioni non ebbero alcun risultato. Se non quello di dare un colpo di grazia all’”Operazione Mato Grosso”.

Queste sono le testimonianze che siamo andati a raccogliere in Svizzera nei giorni scorsi e che manderemo in onda nella trasmissione di Venerdì 29 agosto alle 20.30 su satellite europeo (HBCH3-1sat su Eutelsat 13 -Freq. 12111, Pol. Vert., SR 27500) e ripresa lo stesso giorno alle ore 23 circa dai circuiti Europa Sette e EMI.LI e da tante altre televisioni locali (vedere elenco qui sotto)

Elenco televisioni locali:

VENERDI' ORE 23-23.30

Veneto: Rtl-Rete Azzurra (circuito Europa 7)

Marche: Tv Centro Marche (circuito Europa 7)

Toscana: Teleregione (circuito Europa 7)

Lazio: Tvr Voxon (circuito Europa 7)

Abruzzo e Molise: Tvq (circuito Europa 7) e Telemolise

Emilia Romagna: Videoregione

Umbria: Teleumbria

Campania: Canale 8 (circuito Europa 7) - Telecolore

Puglia: Telesud - Taranto

Calabria: Rtc (circuito Europa 7)

Sicilia: Tele Etna - Tele Scirocco (circuito Europa 7), TeleNova (RG), Canale 46 (PA)

Sardegna: Telegì - Sassari

Erreuno Tv (Romagna-sabato ore 21-21.30)

Nel corso della settimana (ore 23-23.30):

Teleambiente (circuito)

Satellite

(per notizie più precise sulla sintonizzazione: www.igirotondi.it)

HOT BIRD 3 13°E

Copertura EUROPA ? NORD AFRICA

Frequenza di ricezione:12.111 MHz

Polarizzazione :Verticale

Symbol Rate:27,5 MS/sec

FEC:3/4

Denominazione Canale: HB CH3

(se provate a sintonizzarvi ora, compare il monoscopio "Fucino")--

Per informazioni: 347 0384944

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ESPRESSO on-line 28-8

Tra gaffes e promesse

Dicono che Berlusconi è un ´grande comunicatore´. Il problema è avere qualcosa da dire

di ENZO BIAGI

Sta diventando di uso comune una parola di uso insolito: piromane. Non ricordo in quale opera, mi pare di D´Annunzio, un personaggio dice: "La fiamma è bella". D´accordo, ma mi pare stiano esagerando.

A proposito: leggo su ´l´Unità´ che Berlusconi dice che col programma televisivo che feci col mio caro amico Roberto Benigni, gli avrei fatto perdere un milione di voti. Mi sembra esagerato, è un´altra gaffe, come baciare la mano a una giovane sposa islamica.

C´è chi sostiene che da qualche parte bisogna pure cominciare, ma c´è chi è esasperatamente geloso, e ancora un proverbio ammonisce: ´Paese che vai, usanza che trovi´.

Ci sono luoghi dove, per dimostrare il tuo gradimento del cibo, il padrone di casa apprezza se molli alcune eruttazioni. Ce ne sono altri dove l´ospite viene messo a dormire con la moglie o con la figlia ma tra la coppia mettono, forse come ammonimento, una sbarra.

Scusate le divagazioni, ma sinceramente il Berlusconi mi attribuisce un potere che ritengo inesistente e che non mi lusinga. Lui ha fatto tante promesse agli italiani, cominciando da meno tasse. Forse il memorabile evento mi è sfuggito, ma continuo a sperare. È legittimamente capo del governo, liberamente eletto, ma non credo che la politica fosse la sua vocazione, c´è entrato per forza, per ragioni personali che lo esponevano a gravi rischi.

Forse il guaio è che quando entra a Palazzo Chigi è come se andasse in ditta: penso che in gioventù, quando cantava sulle navi ´La vie en rose´ non pensava di poter dire un giorno all´amico Bettino: "Ho seduto anch´io su quella poltrona che è il simbolo del potere e del comando".

Berlusconi, oltre che intelligente, è anche psicologo: conosce gli uomini e le loro debolezze e, immagino, anche le donne e le loro risorse. Credo che abbia distribuito agli ospiti e ai personaggi di riguardo più dell´Omega, e anche qualche amabile ricordino da mettere al braccio per le signore. È, senza ironia, gentile e generoso. Forse debbo una guarigione ai medici, ma anche alle preghiere, sollecitate da Silvio, delle sue zie monache. Dicono, e lo riconoscono anche gli avversari, che è un ´grande comunicatore´. Il problema è avere qualcosa da dire.

CORSERA 28-8
«QUELLA ROBA LÌ» NON È MIGLIORABILE

di GIOVANNI SARTORI

Per il ministro delle Riforme, Bossi, la riforma dello Stato e del governo sono «quella roba lì». In concreto quella roba lì sono le riforme delineate nei giorni scorsi in Cadore da quattro autoproclamati Saggi. Ma si tratta di roba, o di robaccia? Di primo acchito mi è sembrata robaccia. Però Angelo Panebianco ne scrive (il 25 agosto) che «il progetto in sé non è malvagio», e così scrivendo mi ha messo in crisi. Robaccia o non robaccia? Pensa e ripensa, non sono riuscito a cambiare idea. Mi dispiace. I temi in discussione sono cinque: premierato, a chi spetta sciogliere le Camere, devolution (a Bossi quella «roba lì» piace in inglese), riforma della Corte costituzionale, Senato delle regioni. Sono temi ponderosi: ma niente paura. Perché i nostri Saggi (ha dichiarato uno di loro) si sono ispirati a un modello «un po’ inglese e un po’ tedesco». Ma proprio no. Il Senato tedesco non è elettivo, mentre il nostro lo sarebbe. La devolution i tedeschi non l’hanno fatta perché il loro Stato è nato, nell’immediato dopoguerra, come uno Stato federale. E così via. Nel progetto Cadorino gli antenati inglesi o tedeschi sono sempre vistosamente assenti. E lo sono anche in tema di premierato, che è il tema che vorrei discutere.

La nozione di premierato indica un capo del governo forte in grado di imporsi ai suoi ministri e anche a un Parlamento recalcitrante. Per esempio, se Berlusconi divenisse un premier cosiffatto, potrebbe tranquillamente convocare Bossi dicendogli «levati dai piedi» (in verità lo potrebbe fare anche senza premierato), e potrebbe altresì dire al Parlamento di sostenerlo alla bulgara (esattamente come già avviene quando lui lo ordina). Ma anche se Berlusconi non ha bisogno di rinforzi di potere - ha già, di fatto, più potere di qualsiasi premier al mondo - in linea di principio resta vero che il premierato sarebbe «roba buona» se fosse un premierato ben capito e ben congegnato. Già, ben congegnato.

Per creare un premierato «forte» le proposte sono tre: 1) indicare il nome del premier designato sulla scheda di voto, 2) proteggerlo con norme anti-ribaltone, 3) attribuire al premier il potere di sciogliere il Parlamento. La prima proposta equivale a creare una elezione diretta del premier; e non è affatto vero che sia ispirata dall’esperienza inglese o tedesca. No, qui la ninfa Egeria è il già strafallito «modello israeliano». La seconda proposta è un inedito esclusivamente casereccio (non esiste in nessun altro Paese). Qui l’obiezione è che si tratta di una corazzatura eccessiva che inceppa il funzionamento dei sistemi parlamentari.

Di queste due proposte si è già dibattuto a lungo. La terza proposta è invece una trovata recente. E qui l’obiezione è che togliere il potere di scioglimento delle Camere al capo dello Stato per passarlo al capo del governo squilibra pericolosamente gli equilibri costituzionali, e cioè il costituzionalismo come sistema di freni e contrappesi. Né convince la risposta che anche il capo dello Stato sarà rinforzato. Come? Togliere cento per aggiungere dieci non lo rinforza di certo.

Panebianco invita l'opposizione a cercare punti di accordo con il governo. Giusto. Ma, ribatte Stefano Passigli (Ds), «su un premier che è figura inesistente in qualsiasi sistema istituzionale, su un sistema che non è né parlamentare né presidenziale, su una figura di premier che grazie al potere di scioglimento ha una sorta di potere senza limiti», su queste basi, non c’è punto di incontro possibile. La robaccia non può essere migliorata. Deve essere buttata via.

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EDITORIALE

Piccoli sondaggi

Giovanni Merenda

Nelle settimane scorse nella rubrica delle lettere del quotidiano La repubblica, un lettore ha scritto della sua difficoltà, per non dire impossibilità, di trovare durante le cene o le riunioni a cui partecipa qualcuno che ammetta di avere votato per Berlusconi.

Ora, dal momento che per la CdL ha votato nel 2001 la quasi maggioranza degli elettori questo potrebbe essere un segno che una buona parte dei sostenitori del cavaliere di Arcore si è pentito della sua scelta.

Un altro lettore commentando questa lettera ha successivamente ricordato che anche ai tempi della DC era oltremodo difficile trovare qualcuno che ammettesse di aver votato per l’onorevole Andreotti.

Cominciamo da quest’ultimo punto.

Ho abbastanza anni, purtroppo, per ricordarmi bene di quel periodo e trovo non del tutto esatta questa affermazione.

Sì, magari, nel ceto medio-alto c’era qualcuno che votava DC e poi ammetteva questa sua scelta soltanto con se stesso, quando questa scelta era dettata da ragioni esclusivamente utilitaristiche.

Ma almeno nel profondo Sud, in cui vivevo e vivo, nella maggior parte dei casi questa scelta veniva invece ostentata, anche perché veniva incoraggiata dai gradi più alti dei rappresentanti della chiesa cattolica, e fino alla fine degli anni sessanta dalla stragrande maggioranza del clero minuto.

Dobbiamo tenere presente che la DC, pur collusa con la mafia in specie nelle regioni meridionali, la DC che a noi di sinistra a quei tempi sembrava il peggio del peggio, aveva delle radici storiche apprezzabili, un suo ruolo di classe e degli uomini come Zaccagnini.

Certo, oltre a flirtare con la mafia, alcuni rubavano o proteggevano per ragioni elettorali quelli che rubavano, ma col senno di poi, siamo costretti ad ammettere (e trovare consolatorio questo atteggiamento rende evidente lo sfacelo dell’Italia attuale) che almeno di queste ruberie non si vantavano e non cercavano, una volta scoperti di sottrarsi al giudizio, accampando come ragione l’investitura ricevuta attraverso il voto.

Insomma anche i peggiori avevano il senso dello Stato.

Sì, siamo proprio messi male se siamo costretti a rimpiangere la Democrazia Cristiana di allora ed a entusiasmarci oggi per alcuni comportamenti normalmente decenti di Casini, come presidente della Camera.

E veniamo adesso al primo punto, cioè alla difficoltà, da parte del lettore citato, di trovare nel cerchio delle sue più assidue frequentazioni elettori della Casa delle Libertà.

Io non penso che questa difficoltà derivi, se non in rari casi, dal pentimento per la scelta fatta due anni fa ma penso proprio che nelle assidue frequentazioni di una persona abbastanza istruita che legge La Repubblica, tenendo conto che tutti noi tendiamo a scegliere per i nostri rapporti persone a noi affini, gli elettori di Berlusconi non siano davvero molti.

Perché una persona che legge, che ci tiene a tenersi informata, che è capace leggendo di separare i fatti nudi dalla propaganda, Berlusconi non lo potrebbe votare mai, almeno in buona fede.

Lo potrebbe fare solo per un suo interesse, ma sapendo bene come stanno le cose.

Per un uomo informato, quindi, un peccato commesso con coscienza di peccare.

Ed allora? Tutti i voti che ha avuto la CdL …?

Io penso che il piccolo sondaggio che il lettore ha effettuato avrebbe avuto un esito ben diverso se si fosse rivolto magari alla cassiera del market in cui fa la spesa, il ragazzo di 19 anni che quella spesa gliela recapita a casa, al giardiniere che gli leva le erbacce dal giardino, agli impiegati agli sportelli degli uffici pubblici e soprattutto alla sua vecchia zia di 77 anni, da lui colpevolmente trascurata, che passa le giornate guardando la televisione.

Per essere più chiaro le persone con istruzione medio-bassa assidue nel vedere la televisione, persone che ricevono le loro informazioni dalla televisione stessa oppure dai piccoli quotidiani locali in grande maggioranza schierati con la destra.

E sappiamo tutti che tipo di informazioni ricevono.

Solo cibandosi di queste informazioni, tra un programma di rincretinimento e un altro, si può credere che Berlusconi sia perseguitato dai giudici e che sia entrato in politica per fare l’interesse degli italiani e non i propri personali.

Si ritorna dove tutto è cominciato, dalle sue televisioni, che dirigenti della sinistra troppo intelligenti per riuscire ad avere un pensiero semplice, gli hanno permesso di conservare dopo la sua entrata in politica, per non parlare dell’occupazione della RAI dopo le elezioni.

Naturalmente ci sono anche i gruppi di persone (vedi una buona parte degli industriali o i commercianti) che l’hanno sostenuto pensando che i propri interessi coincidessero con quelli del leader della CdL.

Ma a parte queste ultime categorie, è tra questi amanti del telecomando, che il lettore avrebbe trovato gente disposta a dichiarare che aveva votato Berlusconi.

E magari anche qualche pentito, ma non perché avesse, nel frattempo, aperto gli occhi sul complesso di interessi oppure fosse disgustato dalle cattive figure che con questo governo facciamo all’estero.

No, per una ragione che può toccare con mano ogni giorno.

Perché il suo stipendio, da quando c’è il governo Berlusconi, vale di meno ogni giorno che passa.

Forse è il caso di farlo anche noi un piccolo sondaggio, ma non limitandoci alle cene ed ai rapporti di lavoro (per quanto mi riguarda posso dire che il corpo insegnante è molto più a sinistra di quando sono entrato nella scuola 32 anni fa e l’ingresso di Berlusconi sulla scena politica, unito ai provvedimenti insensati della Moratti, ha accentuato negli ultimi anni questo spostamento), ma farlo scendendo anche in strada ed andando pure a chiedere alle vecchie zie che negli ultimi tempi abbiamo colpevolmente trascurato.

MANIFESTO 26-8
Albineaplatz a Berlino

GUIDO AMBROSINO

A Berlino, nel quartiere orientale di Johannisthal, una piazza è stata dedicata due mesi fa a un comune sulle ultime propaggini dell'Appennino, non lontano da Reggio Emilia. Sul cartello con la dicitura Albineaplatz una didascalia chiarisce che Albinea è una città italiana gemellata con Treptow-Köpenick, uno dei municipi della capitale tedesca. Il passante potrebbe accontentarsi di questa spiegazione: un omaggio a uno dei tanti comuni d'Europa con cui le città tedesche intrattengono rapporti. Niente di spettacolare: qualche scambio di delegazioni, qualche viaggio per distrarre borgomastri e assessori dalle frustrazioni di campanile. Ma questo gemellaggio ha un retroscena singolare, che merita di essere raccontato, assieme alla storia della piazza.

Albineaplatz è uno slargo che si apre sullo Sterndamm, l'arteria principale di Johannisthal. E' chiuso su un solo lato, a semicerchio, da belle palazzine ottocentesche. Al centro un'aiola, dove la vegetazione è cresciuta e si è infittita a formare un boschetto. Il luogo, fino alla fine della seconda guerra mondiale, si chiamava Kaiser-Wilhelm-Platz. Era dominato da un busto in bronzo dell'imperatore Guglielmo I, montato su un pilastro di marmo. Pare che il busto sia stato rimosso nel 1940, forse per metterlo al riparo dai bombardamenti. E non è più riapparso.

Nel 1946 il primo borgomastro comunista di Johannisthal, Georg Neumann, trasformò quel basamento monarchico in un monumento alla resistenza, con un'iscrizione dedicata «alle vittime del fascismo». Qualche metro più avanti, su una targa di bronzo appoggiata all'aiola, i nomi di nove «antifascisti di Johannisthal, uccisi dal sanguinario regime hitleriano», con la data di nascita, e data e luogo della morte. C'è anche il nome di Hans Schmidt, morto il 26 agosto 1944 a Albinea. E' l'unico indizio di un nesso tra il comune emiliano e la drammatica vicenda di un antifascista berlinese. Ma la targa non dice nulla sulle circostanze della sua morte.

Hans Schmidt, nato nel 1914, aveva militato nella gioventù operaia socialista e poi nel partito operaio socialista, che continuò a operare in clandestinità dopo l'avvento al potere dei nazisti nel 1933. Nel 1935 era stato incarcerato per qualche mese, e fortunosamente rilasciato per mancanza di prove sufficienti a costruire un rinvio a giudizio. Arruolato come marconista nell'aviazione, nel 1944 era a Albinea, dove i tedeschi mantenevano un importante centro di trasmissioni.

Il sottufficiale riuscì a stabilire contatti con i partigiani che operavano nella regione. In particolare con Oddino Cattini, che vive a Reggio Emilia e ricorda benissimo gli incontri con Hans. Il marconista passava armi e munizioni alla resistenza. E, insieme a quattro soldati che la pensavano come lui, aveva deciso di consegnare ai partigiani l'intero centro di trasmissioni, con radio, telefoni, e altre preziose attrezzature.

L'esecuzione del piano dovette essere rinviata per un contrattempo. Forse qualcuno, avuto sentore dei preparativi, fece la spia. Hans Schmidt, e con lui Erwin Bucher, Erwin Schlunder, Karl-Heinz Schreyer e Martin Koch che si apprestavano a seguirlo in montagna con i partigiani, vennero trucidati o fucilati come traditori.

Albinea non ha dimenticato questi tedeschi-partigiani. Nel 1995 il comune ha concesso a Hans Schmidt la cittadinanza onoraria. Nel 1997 si è gemellato con Treptow, dove abita una figlia di Hans, e a Treptow ha dedicato una strada. Il 7 giugno scorso il sindaco Vilmo Delrio è venuto a Berlino per la piccola cerimonia con cui lo slargo, rimasto per decenni senza nome dopo aver dismesso quello del Kaiser, è stato ribattezzato Albineaplatz. Nessuno dei grandi giornali se ne è accorto. Eppure è una storia che vale più di cento strette di mano tra Berlusconi e Schröder.
MANIFESTO 26-8
Musica maestro

IL consenso totale che gli italiani ingrati gli rifiutano Berlusconi ha deciso che se lo prende da solo

ANTONIO TABUCCHI

C'è una nuova canzoncina che si sta preparando per Sanremo. Veramente è vecchiotta, ma ora sta tornando con insistenza, come certe ariette che inzuppano l'anima, tipo dadaumpa. Le parole variano leggermente, ora dada ora umpa, ma il ritornello è sempre lo stesso: se l'Italia è così in basso la colpa è dell'opposizione che continua a non essere d'accordo con la maggioranza, diffondendo notizie false e tendenziose. Così questi ingrati italiani non hanno capito che il «premier» (Berlusconi lo chiamano così) le rogatorie le ha fatte per tutti loro, e così anche la legge Cirami, e il conflitto d'interessi vivo più che mai per mantenere la dinamica della società, e la legge sull'immunità che lui non voleva. Lui quella legge ha dovuto subirla per far contento Ciampi, come ha dichiarato a una radio francese, e per farci fare bella figura in Europa. Lui preferiva affrontare la sentenza del processo Sme, ma se il presidente della repubblica ti dice di sacrificarti per il bene della patria bisogna farlo. Ora il «premier» è arrivato a una svolta seria, per quel che riguarda un consenso totale che questi italiani ingrati gli rifiutano, e ha deciso che a questo punto il consenso se lo prende da solo, con la sua maggioranza parlamentare democraticamente eletta. Metodo che è già stato sperimentato con successo nel passato, come fecero certi grandi statisti del `900 tipo Mussolini e Salazar, che con la maggioranza parlamentare riuscirono a convincere l'ingrata minoranza contraria a trasformare la costituzione in uno stato corporativo. Perciò il «premier» ha allestito un comitato di costituzionalisti di fiducia del calibro di Calderoli e D'Onofrio e li ha inviati in montagna raccomandandogli di preparare la nuova Carta e soprattutto di non bere. E con costituzionalisti di questo tipo la corte costituzionale e gli eventuali altri garanti si troveranno disoccupati.

L'opposizione ha cominciato a dare segni di opposizione, seppure con la timidezza che si deve a un'opposizione ben educata come vuole un paese ben educato come l'Italia, nato contadino e un po' becero ma poi riscattato dai modi oxfordiani di Berlusconi e Bossi. E siccome Carta canta, al primo segno di inquietudine dell'opposizione l'arietta della canzoncina che vincerà il prossimo festival di Sanremo è cominciata a risuonare nell'aria. (Mi concedo una parentesi visto che neppure quest'anno né io, né credo il mio amico Vincenzo Consolo potremmo andare a Sanremo dove l'anno scorso un simpatizzante sommerso della Casa delle Libertà voleva inviarci tramite La Stampa, dopo il nostro rifiuto di seguire il dottor Sgarbi e il dottor Elkann al salone del Libro di Parigi. Ho l'impressione che l'edizione sanremese di quest'anno sia proprio fatta per Nico Orengo che finalmente potrà manifestare la sua dedizione urbana a Urbani, a Tony Renis, e alla vecchia Riviera. E già che c'è anche al bosco, pur bruciato che sia. Chiusa la parentesi).

Ma a parte gli scrittori con tale tenuta morale (Pasolini non è morto invano: se non ci fossero loro a rappresentare la coscienza civile dell'Italia saremmo davvero una vergogna come ci dipingono i giornali esteri), la canzoncina del prossimo festival l'ha riattaccata sul Corriere di ieri un pensoso politologo come Angelo Panebianco. Visto l'autore ho pensato che non fosse tutta farina del suo sacco. E infatti in simultanea il compagno Casini, al Festival estivo di Comunione e Liberazione, essendo meglio di altri comunionisti liberazionisti del passato, quelli che facevano capo all'Istituto Pollio e a Europa 70, che si sono messi nell'ombra dopo che i loro nomi sono finiti nella commissione stragi per certe amicizie pericolose con la destra eversiva, il compagno Casini, dicevo, con la serenità dell'uomo per bene che è stato baciato dalla fortuna, ha detto serenamente che finché l'opposizione non smetterà di opporsi (cosa che le potrebbe perfino favorire l'ingresso nella maggioranza, dando così vita finalmente a un sistema davvero maggioritario), fino ad allora le cose in Italia non possono andar bene. E a questo punto è entrato in scena il terzo musicante nella persona dell'ex leader della sinistra, l'onorevole D'Alema. Il quale, con la generosità che lo caratterizza, evitando di ricordare la strategia bicamerale che lo condusse alla vittoria, non ha voluto infierire sui vinti, e ha specificato che l'opposizione sarebbe anche d'accordo di lavorare serenamente con la maggioranza, solo che ha il problema delle frange. Con ciò non ha lasciato capire a quale frange del tappeto si riferisce il tessitor d'intese: forse alla società civile (a somiglianza del premier egli conta molto sulle segreterie del partito, ma diffida dei cittadini) o se si riferisce all'ala laburista del suo stesso partito, che come quello inglese non capisce come la visione del mondo di Tony Blair sia praticamente uguale a quella della signora Thatcher.

Certo la destra moderna è notevolmente migliorata rispetto ai fascismi che abbiamo conosciuto. Una volta i fascisti trovavano con le opposizioni delle maniere di convincimento robuste. Oggi invece si cruccia, si addolora. Questa ingrata sinistra, dice, possibile che continui a non piacergli la destra? E piange. Mi viene in mente una scena di «Amarcord», quando il padre di famiglia viene portato in questura e purgato all'olio di ricino perché continua a non piacergli il partito fascista. C'è un gerarca in carrozzella carico di medaglie, reduce ed eroe della marcia su Roma che si rifiuta di assistere alla terribile scena. Gli fa troppo pena. «Noi non vorremmo trattarli così, ma loro ci obbligano», ripete angosciato, «possibile che non ci amino, possibile che non capiscano il bene che il duce fa all'Italia?».

Lo spettacolo è divertente. In compartecipazione lo stiamo seguendo. Anche perché uno spettatore, che si è assunto il ruolo come me del cafone in canottiera, (Mario Pirani è troppo gentile a chiamarmi «istituzionalmente irrispettoso») si può sempre alzare in platea e tirare un gatto morto in faccia al trio sfiatato, come in un altro film di Fellini. Però maneggiare i gatti morti fa un po' schifo. E poi si è capito che questi qui ai gatti morti ci hanno fatto il callo. Anzi, probabilmente se li portano a casa e se li fanno cucinare alla cacciatora.

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STAMPA 26-8

Questione di tempi e metodi

Dopo la politica degli annunci Berlusconi si aggrappa ai soli risultati delle intenzioni

di Luigi La Spina

UNA volta era un tecnico importante nell’organizzazione del lavoro. Si chiamava specialista «di tempi e metodi» e, vestito di camice bianco, era persino comparso in qualche film di successo, qualche decennio fa. Non so se i grandi processi di cambiamento in fabbrica abbiano fatto scomparire anche questa figura professionale, come tante altre. Ma se così non fosse, Berlusconi dovrebbe immediatamente ricorrere alle sue competenze. Oppure richiamarlo, in questo caso sicuramente per decreto, dalla pensione. L’estate della politica governativa ne ha dimostrato l’assoluta necessità.

Dalle baite tra i monti alle ville in Sardegna, per tutto il mese di agosto, è rimbalzata sulla testa degli accaldati italiani una serie di annunci incalzanti: l’imminente guerra alla magistratura, leggi elettorali da cambiare, addirittura una Costituzione da rifare e, infine, come il botto finale dei fuochi d'artificio, la famosa riforma delle pensioni. Ad ogni notizia, forse sarebbe meglio ridurla più modestamente a proposito, seguiva, nella maggioranza, il solito coro di smentite, precisazioni, distinguo. Con il risultato di rendere evidenti i contrasti tra i partiti della coalizione, di aiutare chi si oppone a quel progetto, concedendogli tutto il tempo per raccogliere e aizzare gli interessi eventualmente colpiti, di sconcertare un’opinione pubblica che ogni settimana si vede cambiare l'obiettivo dell’azione governativa.

Lanciare un cosiddetto «ballon d'essai» può avere un significato quando, su un’ipotesi assolutamente inedita, si vuole verificare il grado di consenso o quello di praticabilità. Ma la politica dell’annuncio, nel caso di una nuova Costituzione, per di più in forme a dir poco irrituali, sfiora il grottesco. In quello delle pensioni, questione tutt’altro che nuova perché si trascina da almeno un decennio, aggiunge ai danni precedentemente illustrati anche quello di accelerare la corsa a lasciare il lavoro. Il bilancio negativo si aggrava, anche perché vengono così «bruciate» soluzioni, di per sé, non disprezzabili, come il premierato o il Senato delle Regioni. Insomma, il merito delle questioni, così, viene sempre sacrificato o ai modi con i quali si affrontano questi importanti problemi o ai tempi con i quali vengono annunciati.

Un discorso del metodo, se Berlusconi preferisce ricorrere più nobilmente a Cartesio, si deve fare anche per quanto riguarda la scaletta governativa. Non si possono contemporaneamente lanciare riforme epocali, come un cambiamento della nostra Costituzione e sollecitare modifiche urgenti alle pensioni, anche per chiudere i conti dell'anno. Forse si pensa, piuttosto illusoriamente, a compensazioni tra le varie esigenze dei partiti di maggioranza. Sarebbe ipocrita scandalizzarsi per il tentativo di arrivare a un compromesso tra le forze politiche che compongono la «Casa delle libertà». Ma la trattativa deve riguardare il singolo provvedimento. Sarebbe davvero ingenuo pensare che si possa trovare un accordo su uno scambio che andrà a scadenza in tempi così diversi. A meno che ci si aggrappi, dopo la politica degli annunci, ai soli risultati delle intenzioni.

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L’UNITA’ on-line 26-8

BANNER

Parla il grande timoniere dell’economia: «Il protezionismo richiesto da Bossi (vuol dire frontiere chiuse, dazi, dogane, blocco delle importazioni, ndr) non si può fare perché il W.T.O. non vuole».

Silvio Berlusconi da Porto Rotondo, 18 agosto

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Il genio del disastro

Che deve fare il governo? La risposta è semplice: andarsene

di Paolo Sylos Labini

La politica economica di Berlusconi e di Tremonti, il suo genio più o meno incompreso, va vista nel quadro internazionale, che - lo vado dicendo da oltre due anni - è molto cupo, soprattutto per le condizioni dell'economia americana.

L'avversità della congiuntura americana non attenua affatto le responsabilità di Tremonti, in un certo senso le aggrava, giacché non pochi economisti avevano messo bene in chiaro che il cospicuo aumento programmato del Pil era irrealizzabile, data la situazione dell'economia americana, e quindi le promesse di ampi sgravi fiscali e di grandi opere pubbliche erano truffaldine, come poi sono risultate. Era l'intero programma economico finanziario che andava riscritto.

Viceversa, Tremonti, che aveva collaborato a diverse «leggi vergogna», come il rientro dei capitali sporchi e la depenalizzazione del falso in bilancio, leggi che hanno avuto ed hanno effetti negativi sull’erario pubblico oltre che sul livello di civiltà del paese, pur di non mettere nuove tasse - ne vedeva l'estrema difficoltà, dopo le promesse truffaldine - ha adottato penose misure una tantum, come quelle che con trucchi vari mirano a cavar soldi dal patrimonio pubblico e dai beni culturali, ed ha proceduto alle ultravergognose sanatorie fiscali ed edilizie. Ripeto il grido che ho più volte lanciato: attenzione, in fondo a questa strada c'è l'Argentina! Grande è la fatica per salire, facile è invece la discesa.

Oggi stiamo assai male, in Italia per due ordini di ragioni: per la crisi internazionale e per Berlusconi, prigioniero delle sue stesse menzogne.

Per la crisi internazionale penso che occorra un accordo fra i paesi più industrializzati per eliminare tutti i residui ostacoli agli scambi, arrivando perfino a incentivi fiscali. Negli anni Trenta per uscire dalla crisi i paesi più industrializzati eressero barriere protezionistiche: oggi bisogna fare il contrario. Finché Bush junior è al vertice le speranze di attuare un accordo internazionale del tipo appena accennato sono poche assai.

In Europa abbiamo Berlusconi (speranze sotto zero), Blair (speranze zero): possiamo avere qualche speranza puntando sulla Francia e sulla Germania. Al tempo stesso l'Europa deve cominciare a predisporre un programma per i paesi della fame, che si trovano soprattutto nell'Africa sub-sahariana.

Quanto al futuro immediato e di fronte all'inflazione, che da noi è di un punto più alta che negli altri paesi europei, un giornalista mi ha chiesto: secondo lei che deve fare il governo. La risposta è semplice: andarsene.

NdR – Sunto essenziale di un lunghissimo articolo.

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IL RIFORMISTA 26-8

Corsivo di I pag.

Berlusconi e l’opposizione illiberale

Em.ma

Non c’è occasione in cui Berlusconi, riferendosi all’opposizione, non la qualifichi come antidemocratica e illiberale. Evidentemente come antitesi ad un Presidente del Consiglio e a un governo democratici e liberali. A Verona è stata ripetuta la stessa accusa. Un gruppetto voleva contestare Berlusconi? Dietro le quinte c’è l’opposizione illiberale. E dietro Casarini (tra l’altro assente) c’è sempre Fassino. E’ un tic. La verità è che Berlusconi rifiuta i confronti televisivi, perde il controllo di fronte a contestazioni marginali, come quella di un ragazzo al Tribunale di Milano, o più consistenti come quella del deputato europeo Schulz. Non credo che, come titola "l’Unità", "Berlusconi ha paura degli italiani". Anzi,li ama, gli italiani, perché pensa di esserne riamato. E non può che essere amato un padre di famiglia, un mecenate che si sacrifica e cerca di dare benessere, come ha fatto con la sua azienda. Ma l’opposizione illiberale devia italiani. Guardatelo quando la folla lo applaude e qualcuno gli tende la mano. E’ veramente felice, perché per lui quella, e solo quella,è la verità. Il resto è menzogna e agguato illiberale. In queste occasioni, non mente. Come sempre.

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BERLUSCONIANA

You don't know the history del nome d'arte di Veronica

Cara Miriam, credo di aver capito una cosa molto importante che ci riguarda. Sai bene che all'inizio della mia carriera di attrice non mi opposi quando il mio agente decise che avrei dovuto voltarti le spalle e assumere un nome d'arte. Si fa in quel mestiere: Maurice Micklewhite è diventato Michael Caine, Archibald Leach Cary Grant e Thomas Mapother IV Tom Cruise, tanto per volare alto e citare gli esempi che mi sono più cari. Ma perché continuai ad usare quel nome fittizio anche dopo aver deciso di lasciare il cinema per sposare Petit Chou e dargli dei figli? Perché proprio Petit Chou, fin dal nostro primo appuntamento, mi aveva chiamata col mio nome d'arte ed io, temendo che non si fosse innamorato di me ma della bella attrice (capita, no? anzi, in famiglia capita spesso), mi ero ben guardata dal correggerlo. Questo credevo. Fino a sabato mattina. Mi ero alzata nella quiete di villa Certosa ed ero andata in veranda per fare colazione.

Veron... Sul tavolo i giornali già aperti da qualcuno che mi aveva preceduto, una prima pagina sopra all'altra. La Repubblica: «Uno schiaffo a Veron…». Miriam è stato un attimo - il tempo di avvicinarmi e scostare il giornale sovrapposto che mi impediva di leggere il titolo per intero - ma è bastato per pensare a una infinità di cose: Uno schiaffo a Veronica?!? Ma come si permettono di mettere in prima pagina la mia vita privata? Perché lo schiaffo il giorno prima c'era stato, morale, ma c'era stato. Ero furiosa con Petit Chou perché per una volta che avevo accettato di accompagnarlo con i ragazzi a vedere la 'Carmen' ecco che correvamo il rischio di essere sbertucciati da cinquemila fischietti. «Lo vedi? - gli avevo detto con stizza davanti a tutti - è sempre la stessa storia, ci è impossibile fare una vita normale perché tu hai deciso di fare la guerra ai mulini a vento! Poi non venirmi a chiedere perché non ti accompagno mai». «Non sono mulini a vento, sono avversari politici antidemocratici e illiberali. Ma se tu credi davvero che io non abbia a cuore la mia famiglia, bé ti sbagli. E per dimostrartelo stavolta tra la politica e voi scelgo voi, la mia famiglia, e all'Arena non ci vado!». «Cos'è, un bel gesto?», gli ho chiesto sarcastica. «Sì, è uno schiaffo morale, va bene?». Lo schiaffo c'era stato dunque (gratuito, perché la figuraccia l'avrebbe fatta anche se fosse andato), e adesso era su tutti i giornali! Non c'è più rispetto, riservatezza, siamo costretti ad essere sulla bocca di tutti, è devastante… Guarda lì, ormai lo sanno tutti… Ma che sanno? Quel titolo riguarda Veronica, ma io non sono Veronica, io sono Miriam, e a Miriam nessuno può fare del male perché Veronica la protegge come uno scudo, e Veronica non esiste, esiste solo Miriam, e Miriam è al sicuro, al sicuro… Capisci? Mi era finalmente chiaro che la scelta di continuare a utilizzare il nome d'arte non era stata casuale.

Ribalta. Sì l'amore, ma ancora di più la certezza che la vita che Petit Chou fidanzato mi stava offrendo sarebbe stata comunque una vita alla ribalta, e io che non volevo espormi potevo però, questo sì!, non mettere in gioco la parte più vera di me, che sei tu, Miriam, tu! «Uno schiaffo a Veron…a». Un abbaglio, di un secondo. Ma in quel secondo quanta verità. Che abbiamo fatto quella sera? Tutti a curare i cactus perché il 29 arriva Vladimiro.

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WWW.CENTOMOVIMENTI.IT 26-8

La stampa tedesca sfotte il Cavaliere

E’ più alto di Napoleone e nessuno può giudicarlo…

José F. Padova

Silvio Berlusconi è perennemente nel mirino dei media europei. La stampa tedesca, come sempre particolarmente spietata con il nostro presidente del Consiglio, si è lasciata andare nel mese di agosto anche ad ironici articoli nei quali prende spudoratamente per i fondelli il Cavaliere.

Vi proponiamo un piccolo stralcio di due articoli. Il primo è tratto dal periodico "Stern", la cui redazione non è certo infestata da comunisti, il secondo dal "Frankfurter Allgemeine", giornale anch'esso né di estrema sinistra e neppure di sinistra.

Il mio palazzo, la mia emittente, il mio Stato

di Teja Fiedler (Stern - 23 Agosto 2003)

È più alto di Napoleone. Quattro centimetri. Eppure ciò non basta a Silvio Berlusconi. Quindi si aiuta con un cuscino quando posa seduto per i media. Se si incontra con uomini di Stato, non appena ronzano le telecamere Silvio lo sportivo si mette al volo in punta di piedi, per aggiungere un po’ di altezza ai suoi 164 cm. Ciuffo di capelli come al tempo delle lezioni di ballo.

Che il presidente del Consiglio italiano sia un pochino vanitoso? Sarebbe una cattiva minimizzazione. "Che ne pensate, quante donne a questo mondo vorrebbero andare a letto con me e io purtroppo non ne so niente?", ha chiesto a una giornalista con il rimpianto del grande seduttore. Ritiene l’eterno sorriso sulla sua faccia eternamente abbronzata altrettanto sconvolgente quanto i suoi abiti su misura e quello che in essi si trova. "Il mio medico mi ha detto che ho il fisico di un quarantenne", si gloria il 66enne. Se soltanto non ci fosse questa maledetta calvizie!

Autoritratto di Silvio Berlusconi

di Dietmar Polaczek (Frankfurter Allgemeine Zeitung - 6 Agosto 2003)

Prima di tutto vogliamo fare una premessa. Non c’è nessuno che mi conosca tanto bene quanto io stesso. Perciò nessuno può davvero giudicarmi così bene come farei io. Non i giudici, quasi tutti comunisti. Io mi faccio valutare e giudicare soltanto da coloro che sono miei pari. Io sono responsabile verso gli elettori, non verso i giudici. E qui Umberto Eco può dire quello che vuole. Un medico, un certo Elio Veltri che ha scritto un paio di libri sulla corruzione, ha ora pubblicato con un certo Marco Travaglio una biografia non autorizzata che si intitola “L’odore dei soldi - Origine e misteri del successo di Silvio Berlusconi”. Chiaro: lui non mi ha fatto domande sulla provenienza dei miei soldi, perciò là dentro ci possono essere soltanto delle bugie.

L'UNITA' on-line 26-8
Una Repubblica da Bar Sport

di Nicola Tranfaglia



In molti tra gli sport più popolari, il calcio come la boxe, si parla spesso di uno-due per indicare il succedersi di due colpi, strettamente collegati tra loro di cui il secondo costituisce il qualche modo la compiuta realizzazione di un vero e proprio attacco all’avversario. In politica se si ha la fortuna di disporre in maniera esorbitante di mezzi di comunicazione di massa, il gioco dell’uno-due è particolarmente agevole e permette di portare a conclusione un attacco abbastanza efficace soprattutto di fronte a quegli italiani, e non sono pochi, che seguono con distacco e con una certa distrazione quel che dicono ogni giorno le televisioni e i giornali.

Ed è proprio quello che sta succedendo in questi giorni di fronte alla «sceneggiata» che la Casa delle libertà ha deciso di imbastire sul tema delle riforme istituzionali.

Anche se l’ha intermezzato con i richiami al problema delle pensioni e i ricorrenti progetti quirinalizi di Silvio Berlusconi.

La «sceneggiata» ha avuto inizio con la scelta del luogo remoto lontano dalla capitale politica, Lorenzago nel Cadore e degli attori scelti a rappresentare le diverse anime della Casa, Pastore, D’Onofrio, Nania e Calderoli, raggiunti in non perfetta clandestinità dall’esperto Petrone, pur nell’imbarazzante posizione di Consigliere di Amministrazione della Rai, prestato - si fa per dire - alla maggioranza di governo.

Ma l’aspetto centrale della «sceneggiata» è che si oscilla nel peso da dare all’accordo di Lorenzago alternando tra il valore di un patto importante e tra quello assai minore di una mera traccia da sottoporre al governo e che, nello stesso tempo, si sta molto attenti a far sapere all’opinione pubblica e alle forze dell’opposizione soltanto i titoli di quell’accordo ma non il loro contenuto effettivo giacché, proprio in una materia come quella istituzionale, non basta dire che si vogliono accrescere i poteri del primo ministro e quelli di garanzia del capo dello Stato, che si vuole riformare la Corte Costituzionale in senso federale se non si spiega bene che cosa cambia tutto questo nel rapporto e nell’equilibrio tra i poteri.

Di qui la cautela dell’opposizione che vuol saperne di più prima di decidere quale atteggiamento assumere e che a ragione, con Violante, richiama la necessità di un confronto parlamentare con testi scritti e tali da poterne tener conto con chiarezza delle proposte della maggioranza anche sulla legge elettorale.

Ma la «sceneggiata» ha svolto il suo compito, giacché, lasciando da parte i telegiornali e in particolare quello sempre più ufficiale e imbalsamato di Mimun, domenica e lunedì scorsi sul «Corriere della Sera», cioè sul più diffuso e influente quotidiano italiano, si sono succeduti due editoriali che, con parole e ragionamenti diversi, hanno utilizzato la vicenda tutt’altro che chiara della consulta di Lorenzago, per sferrare un attacco deciso e risoluto contro le forze politiche dell’Ulivo.

Domenica scorsa il nuovo direttore del quotidiano, non a caso succeduto da poco a Ferruccio De Bortoli con il più grande consenso di tutta la maggioranza e di buona parte dell’opposizione, ha sostenuto la tesi peregrina che l’Ulivo fa bene a criticare quando è il caso la maggioranza (come fa, del resto, sia pure a denti stretti, il suo giornale con alcuni vecchi articolisti arrivati in altri tempi) ma ha un grave difetto che è quello di non indicare agli italiani le sue vere priorità sulle grandi questioni nazionali, dalle pensioni al fisco, dalla scuola alla sanità e cosi via dicendo.

Ora che non esista ancora un progetto generale politico - culturale da parte dell’Ulivo (non dimenticando peraltro che alcune forze tra cui i democratici di sinistra hanno svolto in questi mesi un lavoro programmatico sfociato in un documento conclusivo) è vero e chi scrive, in questi ultimi tempi, è ritornato più volte proprio su questo giornale sulla necessità di affrettare i tempi di elaborazione del progetto cui si accennava.

Ma scrivere oggi che non si conoscono le priorità dell’Ulivo significa, a mio avviso, essere almeno distratti. Le battaglie condotte in questi ultimi due anni, a livello parlamentare come attraverso i movimenti, sulla scuola e sulla sanità pubblica, sulla difesa dei diritti dei lavoratori, sull’informazione, su un fisco più equo di quello attuale dovrebbero far capire all’opinione pubblica come al direttore del «Corriere della Sera» che le priorità esistono, hanno nomi precisi e che, in larga parte, si legano a quelle che caratterizzarono il programma di Prodi e della coalizione dell’Ulivo nel 1996.

Dimenticare tutto questo e non osservare contestualmente l’ampia inadempienza di Berlusconi rispetto al suo stesso programma elettorale mostra assai bene da quale parte si collochi l’attuale direttore del Corriere.

Ma perché l’uno-due fosse compiuto ci voleva un altro colpo ed è quello affidato lunedì scorso ad Angelo Panebianco che, consentendo pienamente con la pochezza programmatica dell’opposizione accertata - si è visto in quali modi - dal direttore, ha ritenuto di dover concentrare il suo attacco sulle riforme istituzionali e, pur non conoscendosi ancora il merito del patto misterioso di Lorenzago, ha deciso di definire l’opposizione di centrosinistra «conservatrice» in materia di riforme istituzionali ritenendo peraltro questo giornale il covo dei «conservatori» e salvando, sia pure con qualche dubbio, soltanto l’ormai lontano ricordo della Bicamerale nella precedente legislatura.

La lezione, per così dire, che si può trarre dall’episodio, almeno fino a quando il governo Berlusconi non renderà noti i contenuti di un accordo da sottoporre alle Commissioni parlamentari competenti è chiara ma significativa: la politica italiana fitta di annunci più che di realizzazioni, ha bisogno dei media per convincere gli italiani in un senso o nell’altro e la situazione attuale dà al presidente del Consiglio e alla sua maggioranza poteri mediatici che la nostra Costituzione non ritiene legittimi ma la maggior parte dei media ha accantonato il conflitto di interessi e il problema del pluralismo nell’informazione e non è bastato un messaggio del capo dello Stato per modificare l'anomalia.

Al contrario la maggioranza è pronta ad approvare la legge Gasparri che aggrava e di molto l’anomalia.

Vedremo nelle prossime settimane se succederà qualcosa o tutto andrà avanti come è accaduto in questi ultimi due anni.

martedì, agosto 26, 2003

WWW.CENTOMOVIMENTI.IT 25-8
EDITORIALE

Il feticcio-Berlusconi

di Massimo Del Papa

L’ennesima figuraccia made in Berlusconi sul pianerottolo dell’Europa non stupisce. Un uomo politico, un uomo delle istituzioni non può ignorare l’importanza di onorare un appuntamento ufficiale, culturale con due personalità continentali ma Berlusconi non è uno statista, è uno venuto su dai buchi neri delle finanziarie piduiste e non basta una poltrona di primo ministro a ripulirlo. Demenziale, al solito, la scusa per la miserabile “sola” veronese: “Non sono andato a sentire la ‘Carmen’ perché non mi fido dei comunisti”.

La desolante, cafonesca ritirata senza preavviso e senza motivo dall’Arena causa possibile contestazione di una cinquantina di ragazzotti no-global, non costerna solo o tanto perché un uomo politico dovrebbe essere in grado di affrontare, di assorbire eventuali proteste. Ma soprattutto perché se veramente fosse come il cavaliere in fuga dice, che il suo governo è il migliore di sempre, che ha lavorato fin troppo e sempre per il bene del Paese, che ha resto tutti più ricchi o meno poveri, che è in anticipo sulla tabella di marcia, allora non si spiega il terrore di plateali mugugni. La usurata fandonia dei comunisti non regge, perché il Berlusconi padrone pubblico e privato del Paese, delle sue leggi, dei suoi media, ostenta in ogni occasione disprezzo infinito, non a torto, per una opposizione di narcisetti che si distinguono solo per pochezza e ambiguità, un’opposizione che non demonizza ma si fa demonizzare e allora perché scappare come un ladro per paura dei fischietti di pochi ragazzini?

Forse perché il piccolo imperatore è in realtà un re tentenna, un cuor di coniglio, uno che, come dice il poeta civile Lugano Bazzani, “si è fatto feticcio da se stesso”. Ma i feticci son merce deperibile e soggetta alla cruda legge dell’audience, al vento capriccioso del gradimento e la pubblicità del feticcio-Berlusconi è autoreferenziale, lui spaccia se stesso, dannunzianamente potrebbe dire “io son quel che ho reclamizzato”. Cioè: sotto il doppiopetto, niente. Anzi, molti segreti inconfessabili, molte amicizie pericolose, molti conti che non tornano, molti buchi neri della memoria. Il feticcio-Berlusconi è un circolo vizioso che gira finchè gira e può girare anche degli anni, ma è destinato a fermarsi secondo quella massima che recita: “Si può ingannare qualcuno per sempre o molti per poco, ma non si possono ingannare tutti per sempre”.

Il feticcio-Berlusconi lo sa e teme istericamente il Grande Contagio, fischietto dopo fischietto, pollice verso dopo pollice verso, che dimostra che il re, oltre che tappo, è nudo, che lo porta a cadere, teme insomma il giorno del redde rationem; sa che l’invincibile imprenditore, sotto sotto, è un magliaro da poco, che senza i “comunisti” che lo hanno lasciato quotarsi in Borsa e non gli hanno toccato un’antenna quando erano al governo, sarebbe già sparito, sprofondato sotto il peso dei suoi debiti. Sa anche che come uomo politico è un disastro, un fallimento duraturo ogni giorno più evidente e sbandierato sui giornali di tutto il mondo. Una débacle che in patria nemmeno i media al 90 percento nelle sue mani possono nascondere. Il feticcio-Berlusconi più che le contestazioni pubbliche a base di fischietti teme se stesso, il suo disastro amministrativo, la sua tragica inettitudine di fronte a compiti tanto più grandi di lui..

Questo è anche il motivo per cui è importante combattere il piccolo imperatore con le parole, pronunciate o scritte, insomma non abbassare la guardia sulla trincea del dissenso e senza bisogno di “demonizzare”: bastano i nudi fatti, i numeri, i risultati. Con buona pace di parassiti e inciucisti genetici, dell’opposizione di ricotta che ancora adesso, dopo lo scandalo dei Lodo Maccanico/Schifani, si sottrare all’obbligo politico e civile di tentare una strada refederendaria per abolire una licenza di uccidere che nessun uomo di potere al mondo si sognerebbe mai di pretendere.

A forza di non demonizzarlo, si trasforma un grande magliaro in un piccolo imperatore che scomoda i “comunisti” perfino per coprire la sua inguaribile allergia alla cultura; a contestarlo, a dargli del buffone o del puffone, che è quanto gli spetta, si mette in crisi il feticcio, si lancia il sassolino che può diventare la valanga che travolge, che spazza via democraticamente il piccolo imperatore di carta, uno che non ha il coraggio di farsi vedere all’Opera accanto al parigrado tedesco e al suo diretto superiore in Europa. Piangi, pagliaccio.

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MANIFESTO 24-8

Due amici per la pelle

Vite parallele: Tony Renis e Silvio Berlusconi

ALESSANDRO ROBECCHI

Da Grande grande grande a Pozzanghere, pare proprio che la parabola di Silvio Berlusconi somigli ai titoli delle canzoni del suo amico Tony Renis. Sono vite parallele: uno manda Bocelli a cantare sotto le Piramidi, l'altro manda quattro saggi a riscrivergli la Costituzione sotto le Dolomiti. Uno ha estratto dal cilindro impareggiabili talenti (Nikka Costa, qualcuno ricorda?), l'altro è riuscito a far diventare ministri Urbani e Giovanardi. Ci vuole talento a creare dal nulla. Dice la leggenda che i due (in complessi diversi) allietassero le serate dei turisti all'Isola d'Elba come enterteiner di piano bar, poi le loro strade si divisero ma senza allontanarsi del tutto. Tony Renis strimpellava la chitarra ai ritrovi di Bettino, una corte che era frequentata assiduamente anche da Silvio. Poi l'anno scorso, quando Silvio voleva fare un disco (per l'Unicef, come se i bimbi del mondo non avessero già abbastanza problemi), Tony Renis si offrì di fargli da produttore. E oggi, ecco il grande Tony spuntare dal cilindro di Arcore come candidato unico alla direzione del Festival di Sanremo, mentre Silvio, con risultati non proprio entusiasmanti, si occupa della direzione dell'Unione Europea. Insomma, amici per la pelle. Dice bene Tony a chi gli rimprovera un possibile imbarazzo a causa della sua amicizia con Silvio: «Che c'entra l'amicizia con il conflitto di interessi?». Giusto, che c'entra? Eppure la situazione dovrebbe far riflettere e dare qualche lume sullo stato dell'impero di Silvio, i cui scricchiolii sono ormai sotto gli occhi di tutti. Il grande Tony, infatti, pare fosse proposto in un primo tempo anche come direttore dell'Istituto di cultura italiana a Los Angeles. I valori italiani, il made in Italy, eccetera eccetera. Tanto valeva mandarci una pizza margherita. Ora che quel posto prestigioso, quella vetrina scintillante della nostra cultura sarà probabilmente occupata da un discografico della Sugar di Caterina Caselli (un'altra star della compagnia strimpellante di Bettino), a Tony rimane solo Sanremo, oltre naturalmente all'organizzazione della parte cantata delle feste berlusconiche per l'amico Putin.

Ma ecco il punto: Silvio Re Mida non sembra più tanto Re Mida. Se quel che toccava diventava oro (soprattutto per lui), ora la situazione è ribaltata. I suoi amici George W. e Tony (quell'altro, la pop star di Downing Street) sono messi male assai. Persino l'antennista della Brianza portato in alto fino alla presidenza della Lega Calcio sembra in difficoltà. Persino il povero Zeffirelli, parlandone da vivo, deve rinunciare alla presenza del premier alla sua Carmen a Verona, perché quello teme di essere pomodorato a morte dal popolo malvagio. Insomma, anche in virtù dei suoi successi, ci sentiamo di avvertire il grande Tony Renis: occhio amico, che Silvio non è più, come un tempo, un lasciapassare per il successo assicurato. E casomai il rischio è opposto: di esser preso in antipatia da tutti solo per il fatto di essere amico suo, e da lui raccomandato.

Quanto ai programmi, poi, e alla famosa «cultura del fare» tanto cara al clan di Arcore, va detto che i progetti culturali di Tony Renis sono grandiosi. Dice lui stesso che si sta apprestando a grandi operazioni culturali, che una sinistra colpevole e meschina aveva trascurato. Cose che cambieranno la percezione dell'Italia nel mondo, come «il grande rilancio di Peppino Gagliardi», o il «nuovo disco di Bobby Solo». Dio mio, quell'uomo è un vulcano di idee, e uno dovrebbe stupirsi, semmai, che non gli sia stata affidata anche la nuova Costituzione. Per Sanremo, vedremo: si potrà sempre allargare la competizione a 24 cantanti, ripescando magari qualche vecchia gloria decaduta in C2. Ma un'idea forte per il festival Tony Renis ce l'ha: dare il premio alla carriera ai cantanti quando sono ancora giovani, non vegliardi o moribondi. Ecco, questa sì che è un'idea, perché la decadenza arriva quando meno te l'aspetti e anche l'amico Silvio, magari, qualche anno fa avrebbe potuto ambire a un premio alla carriera, mentre ora - ahinoi - resta soltanto la carriera, e la parabola volge verso il basso.

In ogni caso, sulla rotta Arcore-Miami, ci tocca di diritto un pezzettino del sogno americano di Silvio: anche lui ha, come i presidenti americani pre-Kennedy, il suo Frank Sinatra. Fatte le debite proporzioni, certo. Ma questo a Silvio è meglio non dirlo.

STAMPA
Gore Vidal: niente democrazia, siamo americani

di Giulietto Chiesa

NELLA sua splendida casa di Ravello Gore Vidal ha scritto molti dei suoi lavori sulla storia dell'America, romanzi, saggi. È il suo paese e lo ama, e traspare da ogni riga. Il fatto è che l'America che Gore Vidal amava è sempre meno simile all'America di oggi, che non lo ama affatto. Se per America s'intende, naturalmente, quelle «mille famiglie che la possiedono», delle quali Gore Vidal è parte, nelle quali è stato immerso fin dall'infanzia, e di cui ha raccontato pregi e difetti, grandezza e miserie. Un vero insider, che sa troppe cose, che le ha viste di persona, soprattutto che le ha raccontate e le racconta con una sincerità talmente feroce, e con un'eleganza talmente straordinaria, da non lasciare pietra su pietra, da togliere ogni illusione. Cioè da bruciare tutti i ponti alle sue spalle. Quasi tutti.

Sta per uscire negli Stati Uniti l'ultima fatica di Vidal: un volume che racconta la storia dei primi tre presidenti americani, Washington, Jefferson, Adams. L'autore sembra volersi sforzare a guardare indietro, lontano nel tempo tanto quanto lo consente la storia dell'unica superpotenza, quasi a voler evitare le sinusoidi della cronaca, che spesso impediscono di capire i fatti profondi, quelli destinati a lasciare traccia.

Il fatto è che un americano che voglia guardare all'indietro, nella storia del proprio paese, non può spaziare di molto: diciamo due secoli e qualche spicciolo. Non molto per una civiltà, specie se confrontato con l'anzianità delle civiltà alle quali quest'ultima sta ora dettando legge. Civiltà leggera contro civiltà pesanti. Il grande interrogativo è se la prima riuscirà a segnare di sé la storia del XXI secolo, cioè se una civiltà leggera possa reggere il confronto con tutte le civiltà pesanti che l'hanno preceduta.

Corta o lunga che sia, la storia americana non ha comunque avuto un attimo di tregua, né un istante di banalità. I maligni potrebbero affidarsi alla sprezzante definizione che ne diede Philip Roth: «Assoluta provvisorietà eletta a tradizione duratura». Ma trovare le sue radici è comunque indispensabile per capire il presente, per cercare di intravvederne il futuro prossimo, quello che si affaccia dietro l'angolo, e per rispondere alla questione cruciale dei tempi moderni: seguirla, arrendersi, imitarla, obbedirle? Oppure starne alla larga, temerla, combatterla. Anche se quest'ultima variante sta diventando tanto pericolosa da apparire impraticabile a tutti, salvo ai suicidi, perché con l'Impero non si scherza.

L'America è davvero diventata un Impero? Da quando? A leggere L’età dell’oro sembra che Gore Vidal collochi la definitiva trasformazione degli Stati Uniti in Impero nella grandiosa epopea di Franklin Delano Roosevelt. Ma da alcune citazioni di quel romanzo, che avrei voluto leggergli per fargliele commentare (ma non ho osato farlo), emergeva un impero molto antecedente e già consapevole di sé. «Vedi - diceva Henry Adams, a Caroline, entrambi personaggi dell'Età dell’oro - alla fine l'Europa non avrà più importanza. L'Europa è il nostro affascinante passato. Il Pacifico è il nostro futuro prossimo. Poi i continenti a Nord. La provincia dello Shansi in Cina, la Manciuria, la Siberia. Abbiamo noi il potere ora. E la Russia. E questo è un peccato». E, mentre Caroline si attardava a chiedersi: «Un peccato per chi?», Gore Vidal, l'autore, si rispondeva: «Forse per quella audace e vanagloriosa invenzione dell'Illuminismo che erano gli Stati Uniti, una regione selvatica destinata a sognare per sempre di essere un'Atene risorta, quando invece si trattava di una Roma ricreata con ostinazione e grossolanità».

Quando chiedo a Gore Vidal di darmi la sua interpretazione autentica del termine Impero (del resto il titolo di un suo libro fondamentale), la risposta sorvola all'indietro tutta la storia americana. «I padri fondatori scelsero subito la repubblica, ma durò poco. S'ispirarono a Montesqueu, ma non per molto. Cominciarono assai presto a contendere lo spazio agli spagnoli, nelle Filippine, nei Caraibi. Sempre con successo. E una repubblica non può essere anche un Impero, perché in primo luogo essere un Impero costa molto. E non si può convincere con le buone una maggioranza a sorreggere un Impero. Il che, a sua volta, implica e impone controlli, non tanto all'esterno, nei confronti dei dominati, quanto all'interno, nei confronti dei dominatori, che di regola pensano ai loro piccoli affari. All'Impero bisogna costringerli. Ciò uccide la repubblica».

Prendendo alla lettera questa conclusione si arriverebbe a un primo corollario: Francia, Inghilterra, Spagna, Olanda, i creatori dello Stato moderno, erano tutti imperi, e imperi potenti. La democrazia è nata in questi paesi, o cos'era? La risposta viene, secca: «L'unica vera democrazia è stata quella ateniese, perché Atene era una città, e coloro che avevano il diritto di voto si conoscevano tutti».

Imponente per dimensione e statura, la voce profonda, i gesti misurati di un patriarca, Gore Vidal è sdraiato su una poltrona che volta le spalle alle grandi finestre che guardano direttamente nel cielo e nel mare. Tutto intorno è bellezza, raffinatezza, quadri, tappeti, soprammobili, tutto è stato vissuto e pensato. È Europa e Asia, è tempo rappreso. La luce abbagliante dell’estate, appena mitigata dalle tende di una veranda, produce lo strano effetto di ascoltare senza riuscire a guardare in viso colui che parla, mentre si prova la sensazione acuta di essere scrutati con attenzione da occhi il cui balenio s'intravvede appena.

Viviamo in un mondo occidentale in cui l'opinione corrente dice che la democrazia americana è sempre stata la migliore, la più efficace, la meglio bilanciata. Alexis de Tocqueville ha lasciato un'impronta indelebile nella percezione europea e mondiale degli Stati Uniti. Vale ancora questa interpretazione? Dopo il Patriotic Act, dopo l'11 settembre, durante George Bush il Giovane? Sorride. «Lei ha mai letto per intero la Costituzione americana?». Per la verità, debbo ammetterlo, non l'ho mai letta tutta, ma credevo di conoscerne i fondamenti. «Ebbene lo faccia. Scoprirà che la parola democrazia non vi compare mai, neanche una volta. Noi non siamo una democrazia. Noi siamo una repubblica. E, come le ho detto, lo siamo stati per poco».

E come descriverebbe la società americana, oggi? «Empiricamente. È quella che ha la peggiore istruzione pubblica di tutti i paesi sviluppati; quella che non ha un sistema pubblico di sicurezza sociale; quella dove gl'individui lavorano come macchine, senza sosta. È una società dove la grande massa della gente non ha alcuna informazione sul mondo esterno. E non desidera averla. È una società d'individui terrorizzati. Voi europei, al confronto, vivete in paradiso, anche se, a quanto pare, vi stanno convincendo a vivere come gli americani. Quando ve ne accorgerete sarà tardi, specie per voi italiani, che alle ferie ci tenete».

Un sospiro affaticato. «Quale democrazia, mi chiede? Hanno sempre avuto paura della democrazia, perché è il governo della maggioranza. Ma poiché essa potrebbe non fare al caso, si sono organizzati una maggioranza che fa comodo all'oligarchia...». Ascolto e mi sembra di ascoltare la descrizione della Russia contemporanea. Un'oligarchia pragmatica, che ha in mano i fondamentali mezzi d'informazione. Ma perché la guerra? A che serve la guerra se la maggioranza è addomesticata? Mi guarda stupito. «Ma è per evitare il default. L'unica cosa che li può fermare, quelli che hanno ora il potere, sarà un crack pauroso dell'economia americana. Probabilmente, salvo complicazioni, io e lei vivremo abbastanza a lungo per vederlo. Purtroppo sarà una medicina amara per tutti».
CORSERA 24-8
Un lanciamissili tra gazebo e laghetti

Berlusconi, nonostante i tacchetti, non è all’altezza di guidare il popolo italiano

di ENZO BIAGI

Anche la stampa straniera si diverte raccontando le cantonate di Silvio Berlusconi.

Invece bisognerebbe riconoscergli almeno la buona volontà. Avrebbe tanto bisogno di assistenza: non ha ancora capito che differenza c’è a entrare in azienda o a Palazzo Chigi.

Arriva, ovviamente suo ospite, Vladimir Putin, con un incrociatore lanciamissili, un cacciatorpediniere e una nave appoggio, e Berlusconi si occupa anche dei minimi particolari. Sta lanciando la politica del cactus: ne ha fatti piantare 450, più un gran gazebo, più vari laghetti e perfino delle cascate a mare.

È bizzarro, come si vede, tanto che accetta l’invito all’Arena di Verona e poi non ci va perché, si giustifica, «preparavano proteste contro di me». Il Berlusca, come lo chiamava l’affezionato alleato Bossi, l’inventore della Padania, vuole essere amato. Le sue «gaffes» non sono quando bacia di prepotenza (orrore per quei posti) la mano di una dama turca (da qualche parte, diceva uno che se ne intendeva, bisogna pure cominciare) ma sono le richieste, ad esempio, di una visita a papà Cervi, deceduto nel 1970. C’è, insomma, un aspetto emergente del suo carattere: il Cavaliere ha bisogno di simpatia. Lo dico senza ironia: Berlusconi è certamente un prodigio dell’impegno e del carattere, ma nonostante i tacchetti non è all’altezza di guidare il popolo italiano. Ha tre tv sue e tre di Stato che mi pare improbabile lo giudichino con spirito sereno ma critico, e credo che lui consideri la politica da impresario, anzi da primo attore. Attribuivano tra gli errori del Duce la presenza di Starace; vorrei proporre, guardando gli adulatori del Berlusca, un comitato per rivalutare la memoria del fedele Achille. Ha vissuto da fascista ma è morto da uomo.

La Pbs, la tv pubblica degli Usa, ha dedicato una serata alla libertà di stampa, e, come esempio, negativo, si è parlato del nostro premier, e non per la serie «grandi personaggi». Dice la Pbs: «E’ un caso che merita attenzione come le carestie del Sudest asiatico, come il buco dell’ozono».

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L’UNITA’ on-line 24-8

Sostiene Trantino

Siamo tutti ladri o complici – la pax berlusconiana è fatta -- addormentiamoci nel regime

di Furio Colombo

«Siamo in anticipo sul programma», annuncia ai cittadini intontiti dalla calura il presidente del Consiglio, «nel mezzo della operosa vacanza» (GR 3, 18 luglio).

Non una sola voce, nell’intero mondo giornalistico «indipendente» italiano osa levarsi per chiedere come sia possibile una simile affermazione, sulla base di che cosa, dopo che l’indice di produzione industriale ha segnato meno sette per cento, il Pil è in caduta libera, l'inflazione sale, il commercio con l’estero è in passivo profondo.

«Stiamo lavorando alle riforme su un canovaccio che ci ha dato il ministro Bossi», dice senza imbarazzo il senatore D’Onofrio, uno dei quattro «saggi» della Casa delle Libertà riuniti in una baita in Cadore. D'Onofrio sa che la sua frase, benché priva di senso, non sarà intercettata. Sarà trattata come se fosse possibile lavorare seriamente su materiale fornito da Bossi, quello delle cannonate ai naufraghi, quello della muraglia di protezionismo da costruire intorno alla Cina. E infatti, non un commento, neppure per spiegare o ambientare la frase assurda, sia pure con prudente cautela.

«Igor Marini ha una memoria gigantesca», fa sapere al Paese l’onorevole Enzo Trantino, presidente della Commissione Telekom-Serbia. «È un Pico della Mirandola», incalza Calderoli, vicepresidente del Senato. Entrambi intendono esaltare la portata delle accuse contro Prodi, Fassino, Dini, da parte di un personaggio screditato, privo di reputazione, ricercato in diversi Paesi.

Siamo nel Parlamento italiano, che raccoglie forze, risorse, tempo, denaro per frugare nel vuoto con l’unico compito di eliminare alcuni temuti avversari politici. Non uno straccio di evidenza o di prova, neppure qualcosa di impreciso e di rozzo come il canovaccio di Bossi.

Come può Marini avere memoria di cose che non ci sono, di documenti che non esistono, di fatti che non può provare di sapere, e se tenta di farlo, come ha fatto in Svizzera, lo arrestano subito?

Le due frasi (quella sulla memoria gigantesca, quella su Pico della Mirandola) screditano in modo imbarazzante sia l’onorevole Trantino - che pure è un uomo colto e arguto - sia il vicepresidente del Senato Calderoli. Francamente la frase appartiene a Ionesco, al teatro dell’assurdo, «memoria» di fatti mai accaduti in luogo di «versione di quei fatti». Memoria vuol dire un rapporto saldo con un dato della realtà. Dunque la frase di Trantino e quella di Calderoli sono una trovata retorica non proprio pulita per far circolare la persuasione che Marini è persona di affidamento («un gigante», un «Pico della Mirandola»). E che Prodi, Fassino e Dini sono dunque accusati da un persona di tale portata. Non una sola voce giornalistica libera ha notato la mossa indecente, e cioè che è impossibile dar prova di straordinaria memoria senza un riscontro, altrimenti qualunque folle potrebbe essere Napoleone per il solo fatto di dichiararlo.

Ma alla parodia del teatro dell’assurdo e di Ionesco, viene aggiunta senza esitazione una parodia del grande cinema di denuncia dal «Bandito Giuliano» di Rosi al «Padrino» (parte Terza) di Coppola. Trantino è un uomo colto, e al servizio della operazione «Noi italiani siamo tutti uguali, tutti corrompibili», mette la buona qualità delle sue citazioni. Per esempio: «C’era un problema di coscienza. Dovevo ascoltare Marini prima che gli accadesse qualcosa. Tutti ricordiamo il caso Pisciotta (il complice del bandito Giuliano che minacciava rivelazioni e morì in carcere dopo aver bevuto un caffè avvelenato, ndr)».

Il teatrino, adesso, è completo di luci sinistre, deliberatamente disposte da mani accorte. Prodi e Fassino sono la Piovra. Possono uccidere in carcere. Viene annunciato testualmente dai telegiornali. Ecco perché deputati-avvocati di An vegliano notte e giorno sul carcere di Torino - nel senso che si presentano quasi ogni giorno, per offrire i propri servizi al superteste, super imputato Marini - al punto di provocare irritate proteste della Procura di quella città.

Ma non è finita. Rutelli e Veltroni potrebbero costituire un buon «ticket» per guidare l’opposizione per esempio in caso di elezioni anticipate. Ed ecco che Pico della Mirandola si ricorda improvvisamente, prodigiosamente di loro. E compie un altro miracolo che lascerà a bocca aperta sinceri ammiratori come Trantino e Calderoli, e tutte le televisioni, tutta la stampa «indipendente» italiana pronta a diffondere la notizia: si è ricordato di Mastella, a cui, in passato, Pico della Mirandola era solito leggere i Tarocchi. Come, quando, con chi, in quale circostanza tutto ciò sia avvenuto, non importa. Importa usare il rigoroso controllo delle comunicazioni di massa per spargere l’annuncio.

E poiché non un solo commentatore imparziale, fondo o nota o corsivo o paragrafo, hanno notato l'enormità illegale e antidemocratica della sequenza così descritta, la lezione ormai è chiara per tutta l’Europa, e nei media americani: sì, è vero, in Italia si può. In Italia è consentito l’uso esorbitante, aggressivo, persecutorio, illegale del potere. E non sarà né il lato tragico né quello ridicolo a far sollevare una sola esclamazione di meraviglia in questo Paese. A questo punto lo scandalo, come si è visto nel documentario della televisione pubblica americana andato in onda a New York giovedì sera in prima serata, non è più Berlusconi. È il silenzio italiano. Lo scandalo è la licenza di circolazione libera e istantanea su sette reti tv, innumerevoli radio, e quasi tutta la stampa italiana di qualunque tipo di frase, dichiarazione o sequenza dei fatti vista dal punto di vista di Berlusconi, dei suoi interessi giudiziari, del suo progetto politico di allargamento del potere e del tentativo di allevare un’opposizione da cortile.

Il presidente di Telekom-Serbia non è una persona cattiva, e, nella vita, è anche spiritoso. Ma si rende conto che, dalla sua temporanea posizione di potere, qualunque cosa dirà sarà presa per buona, sarà accettata fingendo di non notare l’incongruenza o l’assurdo, perché così funziona il sistema mediatico italiano sotto Berlusconi. Ecco perché Trantino si sente libero di aggiungere, sempre parlando di Prodi e Fassino, in un Parlamento che non ha ancora saputo mettere mano a una legge finanziaria che stia in piedi in un momento di gravissima crisi economica: «Adesso provano anche loro il tormento del tritacarne mediatico». La frase equipara il noto falsario Igor Marini a Boccassini, Colombo, Davigo, Greco, D’Ambrosio, Borrelli. E stabilisce che - d’ora in poi - Prodi, Fassino, Dini (e adesso anche Veltroni, Rutelli e Mastella) sono tutt’uno con coloro che sono stati imputati, processati e condannati per corruzione, da tribunali italiani di tutti i gradi, nella prima Repubblica.

Un malizioso avviso tipo «chi la fa l’aspetti», suggerisce comunque la natura poco rispettabile («siamo tutti uguali») delle persone chiamate in causa.

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In questo messaggio - «siamo tutti uguali» - c’è la chiave del cosiddetto confronto con l’opposizione sulle cosiddette riforme.

Si tratta di impedire che i cittadini continuino a notare l’immensa illegalità che ha travolto il Paese. Poiché risulta impossibile continuare a dire che le specifiche e precise accuse giudiziarie contro il primo ministro (per fatti commessi prima di essere un politico) sono «fango gettato sull’Italia», la strategia adesso è un’altra: siamo tutti corrotti. E quando «The Economist» presenta la drammatica lista di domande a cui Berlusconi, evidentemente, non può rispondere, offende l’Italia in quanto tutta l’Italia - sostiene Trantino - è come Berlusconi. E infatti, senza tante precauzioni, i giornali di famiglia dello strano primo ministro che vuole che tutti assomiglino a lui, felicemente si chiedono in pubblico: «A quando una bella copertina dell’ “Economist” dedicata a Prodi con l’elenco degli eventi prodigiosamente ricordati da Igor Marini?»

Lo scandalo mediatico, ovvero il muro compatto di solidarietà offerto da tutte le televisioni italiane (con qualche coraggiosa eccezione del Tg 3) e di tutta la grande stampa detta «indipendente» (con la sola eccezione di «Repubblica») è consolidato e incoraggiato dal silenzio istituzionale. Il silenzio - per quanto comprensibile sia il desiderio di mantenere un clima di pace, e di diminuire la tensione dei conflitti - incoraggia il mondo a pensare che l’Italia sia tutta come Berlusconi, sia tutta in fuga dalla giustizia, sia tutta incline a guardare con tolleranza una voragine di illegalità.

Il conflitto, indispensabile tratto della vita politica, una volta soffocato da silenzio, voci basse, finzioni di pace istituzionale, genera conformismo, avvelena l’informazione, intimidisce e sopprime residui riflessi di libertà. Se non parlano altri, tanto più autorevoli, tanto più investiti di responsabilità rappresentativa, perché dovrei farlo io?

È in questo clima di preteso «amor di pace» e di armonia fra le parti (che non ha nulla a che fare con la democrazia, meno che mai con il confronto fra maggioranza e opposizione) che si impianta il trucco del «fare le riforme insieme» e della partecipazione a nuove commissioni d’inchiesta che sono - in sé - violazione alla Costituzione oltre che al buon senso e al rispetto della vita parlamentare.

Occorre prestare attenzione al contesto nel quale si collocano le proposte di fare le riforme insieme e si invita l’opposizione a partecipare a nuove commissioni d’inchiesta, la più malfamata quella definita alternativamente inchiesta sulla giustizia o inchiesta su tangentopoli. È un contesto infetto, composto, da un lato, dalla vasta azione di illegalità del primo ministro e di coloro che scelgono di servirlo anche a costo di giocarsi la reputazione. Dall’altro lato c’è lo scandalo mediatico del silenzio stampa, che ha il grande alibi di una pretesa pace istituzionale. Essa è per i cittadini un bavaglio, e per le istituzioni è morte della democrazia.

In questo contesto, farsi vedere insieme è come dire: «Sì, avete ragione, siamo tutti uguali, tutti estranei alla legalità. Sì, è vero, alternanza vuol dire che, al momento buono, gli imputati possono processare i loro giudici, e che gli onesti cadranno “nel tritacarne mediatico delle inchieste”» (come dice efficacemente Trantino) non appena vincono gli altri.

E se qualcuno avesse dei dubbi sulla utilità istituzionale di collaborare alle loro cosiddette riforme (quelle ad uso esclusivo di Berlusconi e del suo potere personale) in discussione in questi giorni nella baita dei cosiddetti «quattro saggi» si legga un paio di volte questa gentile frase di Sandro Bondi (23 agosto), portavoce di Forza Italia, e dunque ventriloquo del padrone: «Dovrà venire il momento in cui i signori della sinistra saranno obbligati a scendere dal loro piedistallo di intoccabili, per rispondere a qualche domanda sul loro operato quando hanno governato questo Paese. So che non lo faranno, ma non gli daremo tregua fin tanto che non sarà chiaro a tutti il malgoverno e l’immoralità della sinistra italiana». È chiaro adesso il gioco che stanno giocando, sia pure a scapito di una vita finora non indecorosa, uomini come Trantino e Calderoli?

È vero, è uno spettacolo folle, un racconto assurdo. Ma questa è l’Italia, fino alle prossime elezioni. Sembra saggio dunque - nel frattempo - stare vicini agli elettori e lontani dallo spettacolo.

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WWW.CENTOMOVIMENTI.IT 24-8

EDITORIALE

Un portento di scempiaggini

di Massimiliano Boschi

Ogni tanto il nostro Presidente del Consiglio è delizioso, infila dei filotti di scempiaggini di cui tutti dovremmo essergli grati. Ieri è stato un portento. Prima ha dichiarato: "Sarebbe facilissimo per noi mettere insieme un gruppo di 10-15 ragazzi che vanno a contestare a tutte le manifestazioni a cui partecipa un personaggio della sinistra".

E chi lo mette in dubbio? Altri 10-15 ragazzetti da mettere a libro paga li trova facile, ma perché sprecarsi? Ha già Emilio Fede che quotidianamente glorifica il Capo e massacra l’opposizione davanti a milioni di persone. Chi contesta Berlusconi lo fa gratis, ma trovare qualcuno che si sbatta a seguire Fassino per contestarlo, senza guadagnarci nulla, diventa complicato. Inoltre, il Presidente del Consiglio ha abituato male i suoi uomini, senza “regalini“ fanno proprio fatica ad alzare il sederino dalle poltrone.

Nella stessa lagnosa conferenza stampa Berlusconi è passato ad accusare l’opposizione tutta di essere “illiberale e antidemocratica”. Come sempre più spesso accade, il Presidente del Consiglio prova ad essere offensivo utilizzando parole di cui non ha chiaro il significato.

E’ davvero divertente vedere questo simpatico piagnone, monopolista, abituato a comandare e ad essere obbedito, che accusa qualcun altro di essere illiberale e antidemocratico.

Ma lo spasso non è finito, ha motivato le accuse all’opposizione sostenendo che i servizi segreti l’avrebbero informato che all’Arena di Verona gli spettatori avrebbero inscenato una protesta contro di lui.

Straordinario, abbiamo gli unici servizi segreti del mondo che si infiltrano tra i melomani. Perché perdere tempo con i terroristi? Qui importa solo una cosa, garantire la tranquillità al nostro esimio Presidente del Consiglio, per cui che si seguano quei due personaggi sospetti che ancora litigano sulla Callas e la Tebaldi.

Una delizia. Ma non è tutto, successivamente Berlusconi ha fornito altri spunti interessanti, ribadendo che i rapporti tra il governo italiano e tedesco sono ottimi. Bene, significa che abbiamo un presidente del Consiglio che considera le crisi diplomatiche ottime, utili strumenti per migliorare i rapporti tra i popoli. Siamo avvertiti, la prima volta che dichiarerà che con un tal paese i rapporti sono discreti, organizzeremo una fuga di massa per evitare la chiamata alle armi.

Ovviamente tutto questo dimostra unicamente il nervosismo del Premier che, dopo aver promesso mari e monti agli italiani, si trova di fronte ad un fallimento su tutta la linea. Un paese in crisi economica, più povero e pessimista, guidato da un governo che non riesce nemmeno a far partire il campionato di calcio.

Questo grazie anche all’arguzia con cui Berlusconi si è scelto i collaboratori. L’uomo d’azienda che per prima cosa dovrebbe scegliere i propri collaboratori attraverso canoni meritocratici, ha messo Castelli alla Giustizia, Gasparri alle telecomunicazioni, ha fatto Bossi ministro per le riforme e ha messo Carraro a dirigere la federazione calcistica. Qualsiasi azienda che facesse scelte a sproposito come queste fallirebbe, esattamente come sta fallendo il governo Berlusconi. Dal carro del vincitore, divenuto uno sgangherato trattore, i più intelligenti incominceranno a scendere all’inizio del prossimo anno e, ormai in tanti, attendono il “si salvi chi può” post-elezioni europee. Meglio così.

Per chiudere una citazione. Arno Gruen nel suo “La follia della normalità” del 1987, scrive: ”quando il gioco del potere si inceppa alcuni uomini tenteranno di sfuggire disperatamente raddoppiando gli sforzi per mantenere il controllo, scaricando sugli altri l’onta del fallimento. La loro sofferenza porterà il segno dell’autocommiserazione, non del dolore”. Questo, prosegue Gruen, non è però facilmente riconoscibile perché “gli uomini forti il cui impegno esclusivo è di essere al potere. in virtù della posizione sociale dominante che occupano, improntano e determinano la nostra definizione di realtà”. L’ha scritto nel 1987! Chissà di chi parlava?

STAMPA 24-8
Politica delle armi e armi della politica

di Barbara Spinelli

FORSE è venuto il momento di fare un primo bilancio della lotta ingaggiata dall’amministrazione americana e dall’Occidente contro il terrorismo islamico, sia globale che locale. La storia comincia l’11 settembre 2001 - quasi due anni fa - anche se gli attentati alle due torri di New York e ad altri interessi occidentali precedono quel giorno infausto in cui l’America divenne d’un sol colpo, agli occhi del mondo, la grande e tuttavia vulnerabile potenza che di fatto oggi rappresenta.

A quell’evento rivelatore l’amministrazione Usa reagì in maniera affatto nuova, rispetto all’atteggiamento che aveva caratterizzato per quasi mezzo secolo la resistenza alla sfida totalitaria. Anche l’avversario islamico fu presto definito totalitario - per come prendeva d’assalto non solo le vite umane ma le menti dei popoli, per come usava l’ideologia o la religione a fini politici -, ma radicalmente diverso è stato il modo di fronteggiarlo.

Questa volta non è stato scelto il contenimento del pericolo, ma lo scontro frontale e per di più immediato, dunque mal preparato. Non è stata scelta la strategia del lento logoramento e della dissuasione, ma quella delle guerre in serie, una dopo l’altra, in tutti i luoghi dove era sospettata l’esistenza del nemico. Un fine ragionamento politico aveva fondato la cosiddetta deterrenza nucleare: io brandisco la minaccia atomica ma non voglio correre il rischio di esser a mia volta annientato, la pace «è improbabile ma la guerra diventa impossibile», diceva lo studioso Raymond Aron. Ora le cose non stanno più così, e con l’improbabilità della pace neppure più si tenta di convivere in modo politico, non bellicoso. Oggi ogni guerra è possibile, subito e dappertutto, e l’obiettivo politico delle guerre si fa con l’andare del tempo sempre più confuso e inafferrabile.

Perché si combatte? Per sconfiggere il terrorismo? Per convincere le popolazioni arabe a prender le distanze dall’estremismo islamico? O invece l’obiettivo di Bush è un altro: salvaguardare l’immagine di una superpotenza invulnerabile, far vedere alle Nazioni Unite e all’Europa che il comando del mondo è sempre in salda mano statunitense, controllare da vicino i regimi che possiedono la risorsa di cui tutti abbiamo bisogno (il petrolio) e che hanno mostrato di voler usare tale risorsa come arma? Quasi due anni sono passati, e nessuno di questi presunti obiettivi è stato raggiunto. Anzi, in questo lasso di tempo i conflitti e le asperità si sono accentuati, con danni gravi per i cittadini europei e americani, per quelli arabi e asiatici, per la stabilità degli ordinamenti politici e anche per l’economia globale. Si sono accentuati a tal punto che l’obiettivo ha smarrito i contorni chiari che sembrava avere. Che la caduta stessa di Saddam, ardentemente desiderata da tanti iracheni, assume l’aspetto di un incidente di percorso. La guerra, battello ebbro, naviga verso lidi che il pilota Usa cerca con occhi ciechi. Sembra esser divenuta fine a se stessa.

E’ stato detto più volte che Karl von Clausewitz è la segreta guida di Bush, e di quei dirigenti che vengono chiamati in America neoconservatori. La guerra è descritta come continuazione della politica con altri mezzi, e questo sarebbe il metodo adottato dall’amministrazione: quando i mezzi della politica falliscono, si ricorre alle armi. Ma Clausewitz viene tradito dall’impaziente approssimazione dei suoi epigoni. E’ vero, la guerra clausewitziana è uno strumento cui si ricorre quando la politica e dunque la pace fanno bancarotta. Ma se deve continuare con altri mezzi la politica, essa deve riempire solo saltuariamente un vuoto, e il suo scopo dev’essere di riabilitare la politica e la pace che al momento paiono invalidate. Agli occhi di Clausewitz essa non deve surrogare la politica, come per Bush e i neoconservatori: non è un dono caduto dal cielo l’11 settembre, per sollevare le mediocri sorti d’un Presidente impolitico. Non è fine a se stessa, altrimenti anche il potere politico si trasforma in un bene fine a se stesso. Per Clausewitz la guerra è uno strumento impiegato per un obiettivo (uno Ziel) che resta politico, e deve dunque operare perché siano restaurate sia la politica, sia la pace: questa è la strategia quale la descrive il teorico delle guerre napoleoniche, e qui è la differenza fra tattica e strategia: «Nella tattica i mezzi sono costituiti da forze armate qualificate cui si affida la conduzione della battaglia, e lo scopo è la vittoria. Mentre nella strategia, la vittoria - il successo tattico - si trasforma in mezzo, e lo scopo vero sono le condizioni che al più presto ricondurranno alla pace».

E’ questa concezione che non riesce facile alle forze statunitensi, e che l’amministrazione non sembra neppure volere. Se la guerra è la continuazione della politica con altri mezzi, qual è la politica di Bush? Qual è il suo Ziel, diverso dalla guerra fine a se stessa, dunque dal potere fine a se stesso e dal mero calcolo di rielezione presidenziale?

La risposta politica al terrore potrebbe assumere abiti di varia natura - potrebbe essere di carattere poliziesco, militare o finanziario, potrebbe coinvolgere le Nazioni Unite e divenire una forma globale di resistenza a un pericolo percepito come globale, potrebbe mirare al cuore e alle menti delle «strade arabe» e creare le condizioni perché il loro risentimento antioccidentale diminuisca - ma fra tutti questi abiti Bush ne ha scelto uno soltanto: quello militare, che è il solo a dargli statura.

E’ la stessa scelta adottata dal governo d’Israele, e non si sa bene chi imiti chi, in questa fatale concentrazione sull’indispensabilità delle armi. Non solo: anche quando le guerre mostrano di fallire, è ancora una volta alla guerra che Washington s'affida, come a suo ultimo scopo. Se la politica precipita si ricorre alla guerra, ma l’inverso per Bush non è vero: se la guerra precipita, non è alla politica che si ricorre ma a un’ennesima guerra.

Anche in questo la somiglianza con Israele è impressionante. La guerra in Afghanistan s'insabbia, e Washington apre il fronte iracheno. S’insabbia il conflitto iracheno, e si pensa a nuovi conflitti armati, lasciando Israele combattere il terrorismo con l’esclusivo uso delle rappresaglie. Per Israele non è stato diverso negli ultimi decenni. E’ fallita la guerra in Libano, e i dirigenti israeliani hanno guerreggiato in Cisgiordania e Gaza. La stessa guerra dei sei giorni, nel ‘67, fu un tradimento di Clausewitz. Fu un trionfo militare accoppiato a una sconfitta politica. Invece di restituire subito i territori occupati Israele li ha colonizzati, tramutando quello che era stato uno scopo tattico in obiettivo strategico. I liberali d'Israele lo ripetono spesso: «Abbiamo perso la guerra del ‘67 al settimo giorno, politicamente e moralmente, tenendo territori che avremmo subito dovuto restituire».

L’attuale guerra in Medio Oriente non è disgiunta da quella che Bush combatte in Afghanistan con l’Onu, e in Iraq senza Onu: Ariel Sharon ha appeso le sue sorti a quelle della guerra globale contro il terrore, e continua a non voler esaminare le cause locali del suo conflitto. Sicché sono tre oggi i fronti bellici - Afghanistan, Iraq, territori palestinesi - e in tutti i fronti esiste il rischio, reale, di una disfatta politica multipla.

Primo rischio di disfatta: il terrorismo continua e anzi si acuisce, unificando tre fronti che potevano esser tenuti divisi. Esso ha anzi affinato i suoi ragionamenti politici, e l’attentato di martedì a Baghdad lo conferma. Simili in questo alla nostra mafia degli Anni Novanta, le centrali terroriste fanno politica, con l’arma degli attentati: si inseriscono nelle discussioni tra Usa, Onu ed Europa, approfittano del bisogno che Bush ha delle Nazioni Unite, e uccidono proprio Sergio Vieira de Mello, che anticipava con la sua azione in Iraq il proseguimento politico della guerra-occupazione americana.

Secondo rischio: le relazioni tra America e Inghilterra sono forse destinate a frantumarsi durevolmente, a seguito dell'affare legato alla morte di David Kelly, l’esperto in armi di distruzione di massa che aveva espresso le sue riserve alla Bbc e a tanti altri interlocutori. Ormai è chiaro che una guerra fu lanciata in marzo senza che esistesse un pericolo d’imminente aggressione da parte di Saddam: un’uguale menzogna vede accomunate Inghilterra, America e Australia. Furono manipolati dossier, discorsi, pur di salvaguardare il legame privilegiato tra Londra e Washington. I futuri dirigenti britannici saranno ben più circospetti, in futuro. Non metteranno in pericolo il proprio prestigio morale, pur di compiacere la Casa Bianca.

Terzo rischio: l’America voleva invalidare l'Onu e perfino la Nato, ma ora è sola e vulnerabile. E’ una falsa iperpotenza. L’Onu può ora dettare le sue condizioni, soprattutto dopo l’attentato di martedì: o ci date vere responsabilità di comando, o non vi assisteremo in Iraq.

Quarto rischio: concerne l’avvenire della mondializzazione, meno ordinato di quanto si potesse sperare prima dell’11 settembre. Il mondo è di nuovo diviso lungo linee ideologico-religiose, e con le sue guerre in serie l’amministrazione Usa dà l’impressione di voler combattere contro l’Islam in genere, non contro questo o quel dittatore.

Sono tanti rischi, che gradino dopo gradino minacciano da vicino le arti della politica. A due anni dall’11 settembre conviene forse rileggere Clausewitz, e riscoprire che le armi della politica e non la politica delle armi sono il vero scopo delle guerre, quando queste sono condotte con giusto senso delle proprie e delle altrui possibilità. Altrimenti le vittorie militari si tramutano presto, come la storia spesso dimostra, in disfatte politiche.