lunedì, maggio 31, 2004

MEDITAZIONE - 31/5/04

MANIFESTO 30-5

Assago

ROSSANA ROSSANDA

Non è la prima volta che il presidente del Consiglio si rammarica che Forza Italia non abbia da sola il 51 per cento dei voti, perché se così fosse non dovrebbe affrontare la perdita di tempo del passaggio parlamentare e realizzerebbe di colpo il proprio programma. Senonché questa volta le sue doglianze non sono rivolte all'opposizione, che considera da tempo malevola, in malafede, eversiva e in ogni caso da non ascoltare, ma alla propria coalizione. E si può capire: per quel che valgono, i sondaggi prevedono che Forza Italia sia la sola componente della Casa delle Libertà che perderebbe parecchi punti - Fini e Bossi sarebbero stabili, e l'Udc in crescita. Sicché da Assago Berlusconi ha rampognato gli alleati che gli hanno fatto mancare quella che considerava la sua carta vincente, la riduzione delle tasse a due sole aliquote, che scaricherebbe sui redditi deboli le entrate fiscali e taglierebbe perentoriamente ogni spesa pubblica. Questo gli è apparso intollerabile. E' una mossa elettorale, cosa probabilmente vera, ha avvertito: ma ha aggiunto «se è vero che senza di voi io non ce la faccio, neanche voi ce la fate senza di me» quindi si diano una regolata. Nel frattempo egli manderà a 15 milioni di italiani una lettera per avvertirli di non votare i partiti minori che sarebbero inaffidabili e dispersivi. Se lo tengano per detto.

Può darsi che questo tono finisca per non giovare al premier, come la campagna superpersonalizzata dei manifesti. Ma non ne viene necessariamente che la Casa delle Libertà si sfasci, come spera qualcuno: è vero che Berlusconi, Fini, Bossi e Follini non possono fare a meno l'uno dell'altro. In forma più decente, un patto di necessità non dissimile lega per ora anche le forze dell'opposizione. Quel che è più grave è che l'idea berlusconiana secondo la quale un sistema parlamentare consiste nel votare ogni cinque anni una maggioranza, la quale può prendersi tutto, ha «il diritto e il dovere» di far quel che vuole, opponendo alla minoranza alle camere il pacchetto disciplinato dei suoi voti, e agli eventuali mormorii al proprio interno il ricorso al voto di fiducia, è tutt'altro che una trovata personale e caratteriale d'un uomo piuttosto ignorante che sta andando fuori di testa. Quest'idea del governo e della democrazia scandalizza ormai ben pochi. Follini osserva con pertinenza che a De Gasperi non sarebbe venuto in mente di definire il Parlamento una perdita di tempo, e non solo perché «l'aula sorda e grigia» di Mussolini era troppo vicino; ma l'Udc resta con Berlusconi. E D'Alema e Fassino si affrettano a raccomandarci di non esagerare, non si tratta di un regime. Nulla di irreparabile sta succedendo.

Noi pensiamo di sì. E' avvenuta in Italia una involuzione culturale profonda. Il paese non ne uscirà identico a prima, simile a un corpo giovane che si rimette dall'influenza. E' come se all'implosione dei comunismi e delle socialdemocrazie fosse seguito anche un indebolimento fatale del pensiero politico moderno. La critica della sinistra radicale agli aspetti formali della democrazia, il libertarismo del 1968 hanno incontrato una reazione che ha finito con il disgregare gli uni e l'altro. La protesta e il progetto, il momento alto del fare politico di cui parlava anche Hannah Arendt, resta ai movimenti. E poco spazio è dato alla sua presenza istituzionale, anche in Europa coraggiosa ma limitata. Che altro è l'astensionismo crescente, lo scontento malmostoso di molti fra i nuovi soggetti che rifiutano o rimandano a non si sa quando la ricostruzione di un segmento di rappresentanza che possa incidere sui poteri? Il rischio dell'americanismo, nella sua accezione più torpida e indifendibile sta in questo. Bisognerà ripartire da qui se dall'era di Berlusconi ci vorremo liberare sul serio.


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RESISTENZA - 31/5/04

CORSERA 31-5

LO STRANO CONGRESSO DI ASSAGO

“Un partito che sicuramente non ha nulla, proprio nulla, di democratico”

di GIOVANNI SARTORI 

Forza Italia nasce nel 1994. Da allora sono passati dieci anni; dieci anni, e soltanto due congressi. Aggiungi che il congresso di Assago è stato improvvisato con il solo fine di «lanciare» Berlusconi alle prossime elezioni europee. Un congresso di partito è tenuto a discutere di se stesso, è tenuto a votare per qualcuno o per qualcosa. In Forza Italia non è mai successo. Forza Italia si riunisce ad ogni morte di papa (come si diceva una volta) soltanto per acclamare un leader che non è mai stato insediato da un voto del suo partito. Un partito cosiffatto non esiste in nessuna democrazia occidentale. Il che legittima la domanda: Forza Italia che razza di partito è mai? Giuliano Urbani sfugge al quesito dichiarando che FI è soltanto un partito elettorale, e quindi soltanto uno strumento acchiappa-voti. Quella di Urbani è la migliore risposta possibile; ma non tiene. Come Urbani sa benissimo, i partiti «soltanto elettorali» sono i partiti americani. Ma i partiti americani non acclamano un leader precostituito, unto (o quasi) dal Signore. La posta, negli Stati Uniti, è di vincere la presidenza. E la contesa per vincere la presidenza è vigorosamente e democraticamente combattuta, Stato per Stato, con le elezioni primarie. Dopodiché le convention quadriennali dei Repubblicani e dei Democratici non sono in alcun modo concepite come congressi di partito ma soltanto come piattaforme di lancio pubblicitario dei rispettivi candidati alla presidenza.

Dal che consegue che le convention americane non definiscono la natura dei partiti americani, e che non sono paragonabili in nessun modo al congresso di Assago. E quindi dire che FI è soltanto un partito elettorale non ci può impedire di chiedere se il partito di Berlusconi sia democratico o no.

Confesso che io non ho mai creduto molto alla democrazia interna dei partiti. Sin dai tempi di Michels (circa il 1910) si è sostenuto che le forme e le procedure democratiche che regolano la vita interna dei partiti sono largamente aggirate. Ma FI non fa nemmeno finta di procedere con regole democratiche: non le ha e basta. Il che - dicevo - non mi sconvolgerebbe più di tanto se poi Berlusconi non ci lezionasse ogni giorno su cosa sia la democrazia e sul deficit democratico dei suoi oppositori.

Anche ad Assago il Cavaliere ha puntato il suo implacabile dito di accusatore sul fatto che il governo di centrosinistra ha cambiato premier e alleanze. «Con un metodo opposto a quello della democrazia». Ora, questa accusa è manifestamente infondata. Finché il nostro sistema resta un sistema parlamentare, cambiare premier e anche cambiare maggioranza non costituisce un reato di lesa democrazia; è, invece, una normale regola di qualsiasi normale parlamentarismo. E fa specie che il Cavaliere ci lezioni sulla democrazia proprio al cospetto di un partito che sicuramente non ha nulla, proprio nulla, di democratico.

Ad Assago Berlusconi ha concluso il suo intervento così: «La storia d’Italia l’abbiamo già cambiata, siamo già nella storia... e vi resteremo da protagonisti». Ma in questa prospettiva stupisce (ancora una stranezza) che il Nostro chieda esplicitamente all’elettorato di centrodestra di votare per lui a danno dei suoi alleati. È vero che in passato anche la Dc invitava a non sprecare il voto sui partitini e a concentrarlo su di sé. Però la Dc poteva invocare la necessità di «fare diga» contro il comunismo; una necessità che non esiste più. L’altra differenza è che allora non avevamo ancora inventato il «polo fisso», cementato e immodificabile. Allora ciascun partito faceva campagna elettorale per sé, e la composizione delle coalizioni di governo poteva variare. Con il «polo fisso» non è più così. Pertanto Berlusconi ha toccato, ad Assago e nella sua lettera a 15 milioni di elettori, un tasto sbagliato, «scollante» di una coalizione che è già scollata. Il Cavaliere vuole restare nella storia ma fa del suo meglio, si direbbe, per uscirne.

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BERLUSCONIANA

L’Unto del Signore ed il suo Gran Sacerdote

«Prodi è il nulla, un uomo di estrema sinistra. Montezemolo è un arcaico reazionario. D’Alema scappa davanti al terrorismo. E Bassanini... Bassanini è sordido, è un Dracula, un elemento chimico negativo, uno stronzo».

Gianni Baget Bozzo, tra le ovazioni, al congresso di Forza Italia, 29 maggio.

(da L’Unità on-line 31-5)

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Il fallimento di Berlusconi e la scoperta di Ferrara

Giuliano Ferrara non si fida più di Berlusconi. E ne spiega le ragioni. Una prima crisi si era manifestata sul caso Sofri. Ora la separazione ha motivazioni più generali. Ma già allora la rottura era tutta politica. Si tratta del segnale più forte, fra i tanti, delle difficoltà di guida politica che sono prepotentemente emersi nell'opera del presidente del Consiglio. Non è casuale che la nota sul “Foglio” sia apparsa all'indomani del discorso di Montezemolo all'assemblea della Confindustria e della recita del Cavaliere ad Assago. Il “carisma” e le idee di questi, elogiate anche oggi da Giuliano, sono servite per destrutturare il sistema, per abbozzarne un altro ma non per portarlo a compimento e governarlo. Insomma Berlusconi fallisce come uomo di governo, come guida politica del paese nel suo complesso. Tuttavia c'è un punto che sottopongo all'attenzione di Giuliano: poteva costruirsi una nuova classe dirigente attorno a una persona senza cultura politica? E, soprattutto, senza una selezione, diversa da quella dei partiti tradizionali (come in Usa con le primarie) in grado di garantire scelte di persone in quanto frutto di un vaglio democratico e un minimo di collegialità? 

(Em.ma, Il Riformista, 29-5)

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L’UNITA’ on-line 31-5

Anche Fazio boccia il governo

Berlusconi è circondato - Dovrebbe arrendersi e gettare la spugna

di Bruno Ugolini

La Banca d'Italia sull'onda della Confindustria. Le "considerazioni" del Governatore Antonio Fazio in sintonia con quelle di Luca di Montezemolo. Qualche esponente del centro-destra ora dirà che i cosiddetti "poteri forti" stanno schiacciando l'occhiolino all'Ulivo. Qualcun altro insinuerà che stanno salendo sul carro del probabile vincitore delle prossime e future elezioni. Quel che conta però è che il Banchiere oggi e l'Industriale ieri non si sono prodotti in comizi come quelli che hanno ispirato la recente assemblea di Forza Italia ad Assago. Antonio Fazio, in particolare, ha portato un'enorme quantità di cifre. E queste documentano inesorabilmente il fallimento delle politiche governative in materia economica "in un contesto di netta ripresa dell'economia mondiale". Siamo nettamente al di sotto della media europea, siamo rimasti "ai margini", calano gli investimenti e la produzione di beni tecnologcamente avanzati, è rimasta elevata la quota di lavoro irregolare, il livello del debito pubblico rimane molto alto (tanto che il governo dovrà varare una seconda manovra di bilancio correttiva).

Occorre, insomma, invertire la tendenza, "ritornare ad una crescita sostenuta". Sono bocciati anche gli slogan elettorali cari a Berlusconi: "Un abbassamento della pressione fiscale" deve essere semmai compensato da una riduzione delle spese.

E soprattutto bisogna investire. E per far questo non bisogna dare addosso ai sindacati. Bisogna, invece, ritrovare "un rinnovato rapporto di collaborazione tra le parti sociali". Certo, non sono tutte rose e fiori. Fazio mantiene le sue idee "sociali", così parla di moderazione salariale (con l'aria che tira nel mondo del lavoro). Tra l'altro accenna alla difficoltà di trovare manodopera al Nord per certi lavori e non si chiede se questo non dipenda anche dai bassi salari offerti. Inoltre sembra apprezzare le riforme del mercato del lavoro (purché non si traducano in precarietà, aggiunge). E i suoi esegeti fanno sapere che lui apprezza soprattutto quanto era stato fatto con il cosiddetto Pacchetto Treu. Insomma il centro destra è circondato. Dovrebbe trarne le conseguenze. Arrendersi e gettare la spugna.

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ESPRESSO on-line 31-5

Il male sono i comunisti, dice Berlusconi

Poi abbraccia Putin che ha studiato al Kgb, una scuola che non ha nulla a che vedere con i Salesiani

Enzo Biagi

La partita di Silvio

In prima pagina su 'l'Unità', c'è una fotografia di Berlusconi ridente, in compagnia di Galliani e di Confalonieri, mentre a Nassiriya dilaga la guerra agli italiani, e c'è un nostro militare in fin di vita. Il presidente del Consiglio ha irrevocabili impegni, deve festeggiare lo scudetto del Milan, ma spiega che i suoi collaboratori lo tengono continuamente informato su quel che succede in Iraq. Chi sa se gli hanno detto che col lifting si può rifare una faccia, non una testa. Adesso il premier ha l'aria di un papone soddisfatto e dice: "I soldati sono pagati per fare i soldati". È vero, ma da acuto statista ha calcolato il valore di una vita? Ed è vero che né lui né lo squisito Martino si preoccupano di tenere "costantemente informato" il presidente della Repubblica Ciampi perché il ministero non ha tempo da perdere, e figuriamoci Berlusconi che di sicuro con le sue trovate strategiche ha conquistato lo scudetto? Povera Italia, se non ci fosse una persona come Ciampi; spero tenga un diario e annoti le iniziative dell'allegra compagnia che decide del destino di 60 milioni di italiani.

Prima il voto e poi le tasse

Forse Berlusconi ha capito che un conto è entrare in ditta, magari con una spintarella di Craxi, un altro a Palazzo Chigi. E i suoi cittadini, forse, capiscono che chi ha fatto tanti soldi per sé non è proprio sicuro che ne faccia anche per gli altri. Silvio Berlusconi aveva promesso: "Stop alle tasse. Provvederò a un taglio". "Contrordine, compagni", diceva il mio amico Giovannino Guareschi. Adesso il Cavaliere precisa: "Lo farò dopo le elezioni, e solo per i ceti medi". Tanto la destra, come i centristi e come la Lega, bocciano i progetti del premier il quale dice che il male sono i comunisti, e abbraccia Putin che ha completato gli studi al Kgb, una scuola che non ha nulla a che vedere coi salesiani. Il presidente del Consiglio ha rinviato le decisioni a dopo le elezioni (che con molte probabilità non dovrebbero essere un trionfo) ed è andato a far visita 'all'amico Bush', ma il vecchio George non è né Roosevelt né Kennedy, e neppure un benefattore. L'economia non è allegra, gli americani neppure. E oltretutto, l'alleato Bossi in questo momento è fuori gioco: auguri. Senza il Carroccio il Cavaliere non fa tanta strada.


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domenica, maggio 30, 2004

MEDITAZIONE - 30/5/04

WWW.APRILEONLINE 30-5

Quell'extraterrestre del Cavaliere

Gli innamorati traditi non seguono più il premier

[Stefano Olivieri]

Dopo gli imprenditori tutti persi dietro alle parole di Montezemolo, adesso perfino il suo popolo, quello degli aficionados “azzurri” con bandierina in mano e distintivo, stenta a seguirlo con qualche interesse ad Assago, in occasione del congresso salvaelezioni. L’uomo più amato dagli italiani quattro anni fa è andato così in fretta nella sua missione di “aggiustare l’Italia” (e casualmente anche i suoi affari personali) che non si è mai voltato indietro a guardare che cosa mai stesse accadendo nel paese, un paese che ripeteva essere il suo ma al quale era ogni giorno più estraneo.

E invero un riccone che non ami parlare di come si è fatto da sé, delle mille traversìe che ha dovuto sperimentare per accumulare tutti quei miliardi, è già di per sé misterioso; ancor più se pensiamo all’ego oceanico di Berlusconi, che diventa un fiume di parole quando si tratta di interpretare il futuro e appena un asfittico rigagnolo se le domande riguardano il passato, in particolar modo il suo di imprenditore.

In tre anni di governo, alla sua seconda legislatura, è riuscito a sprangare la porta a tutti : gelo con il Quirinale, battaglia aperta con i sindacati e con la magistratura, ostilità nei confronti di chiunque non condivida il suo pensiero. E segni di aperta sofferenza si vedono da tempo anche all’interno della Casa delle libertà, una crisi strisciante aperta ben prima del periodo elettorale e mai risolta : ad Assago Fini e Follini brillano per la loro assenza. Infine l’abbraccio con Bush nella guerra preventiva avrebbe dovuto spianargli la strada verso il paradiso e invece ha messo in luce soltanto la completa dipendenza di questo "ET" nostrano dalle decisioni dell’amministrazione statunitense.

Ma adesso sono gli elettori, tutte le mamme, nonne e zie un tempo innamorate perse del cavaliere, a preoccupare Berlusconi.

Mi sbaglierò ma a me sembra un crepuscolo, anche un po’ patetico se vogliamo, non tanto dell’uomo quanto di ciò che Berlusconi si ostina a rappresentare: la politica fatta con il telecomando, arrogante e invadente, che per essere ascoltata è costretta a uscire dalla tv e a replicare se stessa all’infinito, come un vecchio disco rovinato che salta su un solco rigato e invece di dare piacere alla fine procura fastidio. D’altronde sarebbe stato difficile raccontare in tv il successo di Montezemolo, come al solito il buon Vespa ha glissato parlando di diete. Che sia un lapsus freudiano?


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RESISTENZA - 30/5/04

REPUBBLICA on-line 30-5

Il Cavaliere in arcione di un cavallo azzoppato

di EUGENIO SCALFARI

La penultima speranza di Berlusconi per rimontare il disincanto della sua gente registrato dai sondaggi d'opinione è clamorosamente fallita: sedie vuote, coltre di noia e fiera dello sbadiglio (come aveva impietosamente preconizzato Giuliano Ferrara) hanno punteggiato la "tre giorni" monologante del congresso di Assago. Un'occasione sprecata che ha semmai accresciuto perplessità e voglie di distacco. Ora l'ultimo appuntamento utile ai fini elettorali sarà l'arrivo di George Bush il 4 giugno, ma sembra difficile che abbia la forza di modificare una situazione di declino sempre più visibile e contagiosa. È sperabile che vengano isolati e che le forze dell'ordine non perdano il controllo e soprattutto l'autocontrollo come purtroppo avvenne a Genova.

Se anche questo ostacolo sarà superato, avremo elezioni europee e amministrative che, una volta tanto, daranno un giudizio su ciò che è stato fatto e non è stato fatto nei tre anni di governo del centrodestra, sul consuntivo e sul preventivo, sul passato e sul futuro. Ad oggi i sondaggi prevedono un 48 per cento al centrosinistra e un 42 al Polo; all'interno delle due coalizioni un 33 alla lista Prodi e un 22 a Forza Italia, con un 17 per cento di elettori ancora indecisi sul come votare o piuttosto astenersi. Entro questa forchetta si giocherà il risultato.

Nel frattempo le forze sociali hanno già preso posizione. Non sugli schieramenti ma sui problemi, cioè sugli elementi strutturali della situazione italiana. Il risultato è questo: le organizzazioni sindacali e la Confindustria hanno deciso di ridare vita, almeno tra di loro, al metodo della concertazione che da tre anni era stato abbandonato per volontà del governo e del collateralismo filogovernativo della precedente gestione confindustriale.

Su questa politica si avvieranno le parti sociali e su questa chiameranno il governo a prendere posizione.

Di questi problemi il lunghissimo monologo del presidente del Consiglio nella "tre giorni" di Assago non ha affatto parlato. Non una sola parola nel Niagara di frasi scucite che si è abbattuto sui quattromila delegati di Forza Italia riuniti per l'occasione.

Ma ne ha parlato invece l'uomo forte del governo, Giulio Tremonti, cui il Cavaliere dal cavallo azzoppato ha trasferito il suo "sacrum".

Bisogna stare molto attenti alla progettualità di Tremonti. Esattamente l'opposto di quanto chiedono le parti sociali e di quanto sembra a noi necessario per l'economia italiana.

Il Delfino ha ribadito:

1. La riduzione delle imposte ci sarà. Riguarderà tutti i contribuenti. Se ne dovrà discutere con gli alleati in omaggio alla collegialità. Tanto più voti avrà il 13 giugno Forza Italia tanto più la collegialità diventerà un "optional" (questo l'ha detto il Cavaliere quando ha chiesto agli elettori il 51% per il suo partito e alla faccia dei fottutissimi alleati).

2. La riduzione dell'Irpef entrerà in vigore il 1° gennaio 2005 (voto di fiducia per tenere unita la maggioranza).

Dove troverà dunque la copertura a questa manovra Tremonti? Non l'ha detto né gli è stato chiesto dagli assemblati di Assago.

Insomma la partita delle imposte è ancora tutta da giocare sul filo del risultato elettorale.

Se Tremonti dicesse questa verità meriterebbe plauso. Ma il Cavaliere lo ripudierebbe come Delfino. Perciò non la dice. Ma sa che gran parte degli italiani ormai l'hanno capita.

Vedremo tra poco il giudizio degli elettori. Poi quello dei suoi alleati. Poi quello delle parti sociali. È giusto dire che le elezioni europee non comportano un cambio di governo e tanto meno la fine anticipata della legislatura. In teoria. Ma quando un governo è cotto e rischia di condurre in rovina il paese, queste sottigliezze teoriche perdono ogni validità. Perseverare nell'errore è diabolico. Credo che molti ne siano ormai persuasi.

(NdR – versione essenziale di un lunghissimo articolo)

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La parabola del demagogo

di CURZIO MALTESE

NESSUNO si aspettava dalla tre giorni di Assago un vero congresso, al massimo un one man show. È stato molto one man e poco show. La sfida titanica di rovesciare con un colpo d'immagine i sondaggi negativi sembra fallita, naufragata nella noia autocelebrativa. Alla fine della festa mancata, il padrone si ritrova sempre più solo al comando. Il dopo Berlusconi si sente nell'aria, prende voce fra gli industriali con la svolta di Montezemolo, s'affaccia nei discorsi e nei toni degli alleati, s'insinua perfino a corte, con i più furbi pronti al salto dal carro. Ma chi lavora meglio per il dopo Berlusconi è Berlusconi stesso. Neppure ieri ha rinunciato a farsi del male. Era partito bene, con un abbraccio riparatore agli alleati presi a schiaffi l'altro giorno.

Qualche consigliere doveva avergli spiegato nella notte che porre la fiducia su ogni legge, con l'aria che tira, è il modo più sicuro per tornare a casa. Siccome però la natura è natura, subito dopo il Cavaliere ha recitato la letterina agli italiani con il generoso invito a spazzare via gli inutili partitini. Così si è giocato l'ultimo alleato fedele, il solo presente ad Assago, la Lega. Bisognava vederle le facce di Maroni e compagni, più verdi delle camicie padane. "Se continua a dire fesserie fra i partitini ci finisce lui" è stato l'amichevole commento di Calderoli. E Maroni stesso, forzando l'antica indulgenza: "È un bauscia".

Arriva dal congresso dei berluscones la conferma che il grande comunicatore ha perso il dono di comunicare, il mago di Arcore ha smarrito la magia d'un tempo. In tre giorni d'interventi a raffica, prolissi e a tratti isterici, nella mente non rimane scolpito un solo slogan ma neppure una battuta o una provocazione. L'unica trovata finale, quella d'importunare le perplesse famiglie italiane con 15 milioni di copie del libretto dei miracoli, s'annuncia come un boomerang terrificante. Perfino peggiore delle migliaia di manifesti sei per tre che ha fatto appena ritirare da ogni angolo del Paese.

Se davvero c'è qualcuno nel centrosinistra che intende boicottarne la distribuzione, come sostiene Berlusconi, Prodi e Fassino dovrebbero bloccarlo con la forza. Quel manifesto grondante di vanterie e la lettera che lo accompagna sono un regalo inatteso, molto più utile all'Ulivo dei soldi buttati nei mesti cartelloni.

Il fatto è che l'ultimo Berlusconi non riesce a uscire dai binari di una campagna sballata, dominata dall'idea di vendere agli italiani i miracoli compiuti dal governo. Miracoli che hanno visto soltanto Berlusconi e chi è pagato per vederli (nemmeno tutti). Ma un conto è far leva sulla "forza dei sogni" in un Paese disposto da secoli a illudersi con l'avvento del salvifico Principe. Altro è inventarsi grandi opere che non esistono, con il Tg1 costretto a filmare per la terza volta la posa della prima pietra sulla variante di valico. Altro è convincere gli italiani che sono ricchi, allegri e rampanti, in pieno boom economico. "In questi tre anni abbiamo cambiato la faccia del Paese". Al massimo, una faccia.

Il golfo mistico di Assago applaude tutto, anche il passaggio più jettatorio. "L'Italia è ancora la sesta potenza industriale" (ancora?). Ma si scalda davvero soltanto per l'ultima promessa, il taglio fiscale, la solita favola della buonanotte. E qui siamo fra i berluscones d'ordinanza, con il kit sottobraccio, i veri miracolati. Figurarsi fuori, nella società "invidiosa", manipolata dai "media della sinistra".

C'è un tratto di autentica follia in questa strategia del miracolo compiuto, forse l'inevitabile parabola del grande demagogo che finisce per credere alle sue bugie, per ingannare da ultimo se stesso. Fra i segnali del declino c'è anche il non voler guardare al futuro, nell'ossessione di celebrare il passato glorioso e vincente. È vero che il congresso ha indicato come unico possibile delfino il ministro Tremonti. Davvero una bella prospettiva, per la sinistra s'intende. Il futuro di cui s'è parlato nei tre giorni di Assago è un futuro di trincea, la continua rassicurazione che "il governo durerà fino al 2006". C'è bisogno di ripeterlo, con cento deputati di vantaggio sull'opposizione? Occorre minacciare rappresaglie contro possibili tradimenti degli alleati quando "siamo tutti uniti"? Un generale che si preoccupa soltanto di stabilire le pene per i disertori ha già perso la battaglia. Oppure è un futuro ancora più prossimo e allarmante, anzi da incubo. La paura di scontri di piazza durante la visita di Bush, della ricomparsa dei misteriosi black bloc, addirittura di attentati di Al Qaeda, continuamente annunciati, quasi evocati.

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CITAZIONI

SINDROME ALAMO

La sindrome di accerchiamento di cui soffre non è una novità, è dai tempi del «ribaltone» che Berlusconi non perde occasione per ricordare le congiure politiche e giudiziarie di cui si sente vittima. Ma stavolta le parole pronunciate davanti allo stato maggiore azzurro, quel suo «mi sento solo contro tutti», rivelano il timore del premier di non poter contare nemmeno sul proprio esercito. E’ come se quei vuoti sugli spalti al Filaforum di Assago gli avessero fatto capire più dei sondaggi qual è il grado di disaffezione verso Forza Italia. Si sente solo Berlusconi, e se non riesce lui a «bucare» con i messaggi elettorali, figuriamoci gli altri esponenti del suo partito. Perché si può anche ribaltare il risultato di Fort Alamo. Ma bisogna prendere almeno la mira giusta.

(Francesco Verderami, Corsera 30-5) 

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Il Cavaliere e gli alleati un dialogo tra sordi

Silvio Berlusconi riemerge dal proprio congresso riacclamato capo assoluto, ma circondato dalle macerie dei rapporti con gli alleati. Il resto del centrodestra mastica fiele. La tre giorni di Assago viene letta come il tentativo esplicito di ridimensionare gli alleati alle Europee di giugno. Sarebbe la conferma di un premier spaventato da un insuccesso; e per questo determinato a giocare da solo.

(Massimo Franco, Corsera 30-5)


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sabato, maggio 29, 2004

A BERLUSCONI SERVE IL MORTO...

A BERLUSCONI SERVE IL MORTO, MAGARI PIU' D'UNO...
    LO STATO D'ASSEDIO dichiarato da un Berlusconi asserragliato ad Assago è di chiarissima lettura per chiunque abbia due dita di fronte.
    Il 2 e/o il 4 giugno, a Roma, la polizia avrà ordine di provocare l'incidente. Sono probabilissime tempestive esplosioni secondo il modello craxiano antico ed accettato.
ROMA DESERTA DRAPPEGGIATA D'ARCOBALENO
dovrebbe essere il modo migliore per disinnescare il colpo di coda dell'emulo di Vanna Marchi in crisi di audience.

RESISTENZA - 29/5/04

REPUBBLICA –on-line 29-5

Berlusconi: “Votate solo per me”

Gli alleati irritati: "Dice fesserie"

di MARCO BRACCONI

MILANO - Una sfilata di ministri, coordinatori, capigruppo. Aperta e chiusa dal presidente del Consiglio. Sulle note dell'inno del partito, finisce ad Assago il secondo congresso di Forza Italia. Una kermesse dichiaratemente elettorale. La sostanza del suo discorso non cambia. Ripete lo slogan con cui ha deciso di rilanciare la sua campagna elettorale: "L'Italia è cambiata". Attacca la sinistra. Ostenta ottimismo sul futuro, e si dice "certo di governare per i prossimi due anni". Promette che manterrà "tutti gli impegni presi nella campagna elettorale, taglio delle tasse compreso.

L'unico problema, per il premier, è che tutti lo sappiano. Per questo, annuncia, ha preparato un opuscolo che sarà inviato a 15 milioni di italiani. Una ottantina di pagine, che circolano in centinaia di copie al Filaforum di Assago, stampate affinché sia testimoniata, appunto, quella che il Cavaliere definisce "la spasmodica e incessante attività del governo".

E ha avvertito il partito a vigilare perché sia possibile la consegna per posta a tutte le famiglie: "Ci sono basse strategie per renderla difficile - ha detto - dobbiamo vigilare".

Poi lancia un appello che probabilmente non farà piacere a qualcuno dei suoi alleati: "Gli elettori non disperdano il proprio voto su piccoli partiti che portano solo 2-3 deputati".

Nella missiva, il richiamo ai "problemi ereditati dal passato" e, di nuovo, l'argomento di questi giorni, di questa campagna elettorale e di questo congresso: "Abbiamo cambiato l'Italia". Poi, nella chiusa, un passagio chiave: la richiesta esplicita del voto non solo per Forza Italia, ma per sé stesso, candidato "di bandiera". Il capo del governo cerca le preferenze, ne ha bisogno, ora come mai. Per mettere un freno agli alleati, e per ristabilire un primato che non è più scontanto. In tempo di elezioni, è di certo una normale richiesta. Ma anche un segnale di debolezza.

- Non votare i piccoli partiti? "Una fesseria". Ridurre le tasse per tutti? "No comment". Governare a colpi di fiducia? "Extrema ratio". A contraddire o frenare ogni singola affermazione del presidente del Consiglio Silvio Berlusconi sono i suoi stessi alleati, anche l'invito agli elettori perché "non disperdano il proprio voto su piccoli partiti che portano solo 2-3 deputati". E concentrarli, dunque, su Forza Italia.

Un appello che Berlusconi ha inserito in una lettera che spedirà a 15 milioni di italiani e che ha infastidito molti alleati, da Follini a Calderoli a Maroni.

"Berlusconi prenda esempio dalla Dc, che non sfidava gli alleati di governo" ha replicato all'invito del premier il segretario dell'Udc. Governare - ha concluso Follini - non è sfidare gli alleati”.

Decisamente infastidito il coordinatore delle segreterie nazionali della Lega Nord Roberto Calderoli: "Questa di invitare a votare i grandi partiti è proprio una grande fesseria: mi ricorda quella battuta del premier sulle amanti dei senatori. Credo che Berlusconi se continua a dire queste cose finirà ad avere un partito piccolo come quelli che lui dice oggi di non votare". Altro che il 25% che il premier prevede alle europee: "Mi sembra una speranza - ha continuato Calderoli - anch'io vorrei avere l'85%".

Il ricorso alla fiducia è invece per il ministro delle Politiche Agricole Gianni Alemanno solo "l'estrema ratio dopo che si è fatto di tutto per ottenere consensi più allargati. E comunque non è pensabile una fiducia che non sia ricondotta alla collegialità e alla maggioranza". Soprattutto, sottolinea Alemanno, dopo le elezioni si deve cambiare musica e finalmente procedere a quella verifica di governo "che si è trascinata troppo a lungo" e che deve concludersi "con una profonda revisione del programma di governo".

Quanto al taglio delle tasse che dovrebbe essere varato dopo le europee, la posizione di Alemanno è chiara: "Io dico che le riduzioni vanno fatte solo su redditi medio-bassi e non su quelli medio alti".

Su quel 25% a Forza Italia Maroni replica ironizzando: "Negli ultimi giorni, lo dico con simpatia, Berlusconi fa un po' troppo il 'bauscia'".

Commentando poi l'invito di Berlusconi a concentrare i voti su Forza Italia, Maroni ha concluso: "Non ci crede neanche lui, appunto, fa un po' il 'bauscia'.”

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L’UNITA’ on-line 29-5

Berlusconi ad Assago, uno spot e nient’altro

ASSAGO. Ha parlato di meno del primo giorno. Ma l’ha detta grossa. La paura del declino ha esaltato il delirio di potenza che ha portato Silvio Berlusconi, nonostante i molti segnali, ad esprimere la certezza che «andremo oltre il 25 per cento». Una paura che non è stata buona consigliera per il premier che ha chiuso con cinquanta minuti di discorso il primo congresso-campagna elettorale della storia italiana in cui l’unico adempimento di cui si sia avuta notizia è stata la sua elezione a presidente «per acclamazione». Sul palco è salito all’una e dieci. Quando ne è sceso dopo circa cinquanta minuti Berlusconi è nei fatti il leader di una coalizione che non esiste più.

In questa fase di difficile equilibrio, con la verifica dell’urna alle porte, emerge la vera parola d’ordine della coalizione: ognuno usi le armi che ha a disposizione. E lui che ne ha parecchie annuncia spavaldo di aver fatto confezionare un bell’opuscolo che in quindici milioni di copie arriverà nelle case degli italiani accompagnato da una letterina personalizzata a sua firma in cui attacca l’opposizione, e questo è scontato, ma cancella anche i suoi alleati. Una piccola opera necessaria perché «la propaganda dei telegiornali e dei giornali orientati a sinistra copre la realtà dei fatti e i risultati ottenuti dal governo» che i destinatari dovranno verificare con cura di aver ricevuto. «Sappiamo di basse strategie poste in atto per rendere difficile la consegna reale», rivela il premier lanciando un nuovo allarme: il postino comunista. Insomma con poste e telecomunicazioni proprio non va.

La sostanza del testo che scorre sullo sfondo del congresso mentre Berlusconi lo legge è che è utile solo il voto a lui e al suo partito. «È necessario che gli elettori non disperdano il proprio voto sui piccoli partiti che con uno, due, tre deputati finiscono per non contare nulla nel Parlamento europeo». Più che un voto, un referendum sulla persona. Un pericoloso braccio di ferro nella libera casa che gli alleati mostrano di non gradire per niente.

Il copione è quello solito. Attacco duro alla sinistra che può vantare a suo avviso solo record negativi. Segue la pervicace rivendicazione di risultati che vede solo lui ma per cui, garantisce, «siamo nella storia, continueremo a stare nella storia e ci resteremo da protagonisti». Non può mancare la promessa delle promesse. Quella della riduzione delle aliquote fiscali che era il primo punto del contratto con gli italiani «firmato in modo solenne davanti alle telecamere della televisione pubblica» che è stata rinviata alla resa dei conti del dopo elezioni ma su cui bisognerà pure che prenda qualche iniziativa se è vero, come dice lui, che «la moralità in politica è mantenere la parola data». Gli alleati non ne vogliono sentir parlare, almeno nella formula che avvantaggia i ricchi che al premier continua a piacere molto. E questi ultimi sono nel suo cuore.

The end. La kermesse è finita. Il premier è passato «dalla forza di un sogno» alla «forza dei fatti». Per lui l’Italia è cambiata. Ma in peggio.

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«Fesserie», tra gli alleati sale la rabbia

di Luana Benini

 Il cosiddetto congresso di Fi, ovvero il dispendioso spottone elettorale del premier condito con poche carote e tante bastonate per gli alleati ha fatto traboccare il vaso.

Nella Casa, Berlusconi gioca la sua battaglia solo contro tutti, vuole un plebiscito sul suo nome, usa il potere economico e mediatico per contendere fino all’ultima preferenza agli altri inquilini.

15milioni di opuscoli per spiegare agli italiani che non devono «disperdere i voti sui piccoli partiti» ma che devono votare solo lui. Fini abbozza ma non tanto. I suoi colonnelli masticano amaro. L’Udc si trattiene a stento. La Lega sbotta.

Tanto che a sera, dopo una giornata di malcelata irritazione, arriva Sandro Bondi a dire che Berlusconi non si riferiva a nessuna delle forze politiche della maggioranza. Un modo per riparare in extremis.

L’Udc, così come An, troppi rospi ha dovuto ingoiare e ormai si muove sul filo di un equilibrismo coatto. La sua reazione alle battute elettorali del premier è sintomatica di un disagio alle stelle. «De Gasperi, che era De Gasperi - sibila Marco Follini - gli alleati li sapeva coltivare e valorizzare...». Berlusconi potrebbe prendere esempio dalla Dc, che non sfidava gli alleati di governo. E poi chi l’ha detto che «un partito grande non finisca per diventare piccolo?» si lascia andare il compassato Buttiglione. Trovandosi per una volta d’accordo con il leghista Roberto Calderoli. Che però va molto oltre e bolla l’uscita del premier come «una grande fesseria»: «Mi ricorda quella battuta del premier sulle amanti dei senatori...». «Berlusconi in questi momenti fa un pò il bauscia, fa un pò lo sbruffone» fa spallucce il ministro del Lavoro Roberto Maroni. Ma picchetta il suo territorio: «Berlusconi dice che se avesse il 51% avrebbe fatto la riforma fiscale? Meno male che non ce l’ha, altrimenti avrebbe fatto già alcune cose che ha in mente in materia fiscale».

Gianfranco Fini cerca di placare i suoi che scalpitano. Certo però che «alla fine del primo tempo» sarà doveroso «discutere non dell'allenatore, ma dello schema di gioco o della squadra». Il senso è: bocce ferme per ora, se ne parla dopo il voto. E per quanto riguarda An si dovrà parlare soprattutto di politica economica. Altro che ricorso alla fiducia su tutti i provvedimenti cari a Fi. «Il ricorso alla fiducia - spiega il ministro aennino delle Politiche Agricole Gianni Alemanno - deve costituire l’estrema ratio. E comunque non è pensabile una fiducia che non sia ricondotta alla collegialità e alla maggioranza». Dopo le elezioni si deve cambiare musica e finalmente procedere a quella verifica di governo «che si è trascinata troppo a lungo». Il taglio delle tasse? «Non può essere solo ai redditi medio-alti».

Giorgio La Malfa, Pri, attacca: «Mi pare un grande segno di debolezza che il leader del principale partito di una coalizione sia costretto a chiedere agli elettori di concentrare su di sè tutti i voti sottraendoli anche agli alleati».

Per il vice segretario del Nuovo Psi, Bobo Craxi, l’appello di Berlusconi è semplicemente «una caduta di stile» che «cela qualcosa di profondamente antidemocratico».

Emma Bonino sollecita i cittadini «a dare un segnale di irritazione».


Tutto il materiale della serie RESISTENZA, da maggio 2001, è consultabile su www.bresciablob.com                          

Da giugno 2003 anche al sito www.bengodi.org/resistere-a-berlusca


venerdì, maggio 28, 2004

MEDITAZIONE - 28/5/04

ESPRESSO on-line 28-5

Una missione finita prima di cominciare

Il nostro contingente ha operato senza mezzi adeguati e senza il necessario coordinamento con le altre forze schierate sul campo

Giorgio Bocca

 Credo non occorra il 30 giugno della svolta in Iraq per prendere atto che la nostra spedizione è stata una decisione politica e non militare in linea con le nostre tradizioni di improvvisazione. Basterebbe questa considerazione: andati a Nassiriya per una missione di pace, non siamo stati in grado di mantenere il controllo della città, di cui hanno preso possesso le milizie irachene. Con l'aggiunta tragicomica di quella nostra governatrice che nessuno ha mai saputo da dove sia spuntata, trasferita da una sede all'altra per compiti di cui era impotente. La nostra missione era finita prima di cominciare: non avevamo né i mezzi né il personale per la ricostruzione, per rimettere in piedi secondo i bisogni reali elettricità, acqua, comunicazioni. Davamo una mano, cercavamo di apparire amici, si capiva che non cercavamo complicazioni, ma eravamo tollerati più che obbediti. Ma è nel corso degli ultimi avvenimenti che si è capito meglio l'improvvisazione generale, anche quella della Coalizione. In un uno schieramento multiplo differenziato fra i vari paesi della Coalizione non esistevano dei collegamenti organici, non c'era un fronte continuo, c'era una costellazione di corpi separati.

I due contingenti base, l'americano e l'inglese, non hanno mai messo a disposizione generale la loro aviazione e le forze corazzate, non hanno mai dato vita a una logistica comune, anche se è evidente che sarebbero in grado di cacciare dagli abitati e di disperdere i ribelli di Al Sadr. Non è stata assicurata neppure una logistica efficiente: i nostri sono a corto di munizioni mentre ne hanno in abbondanza gli assalitori che pure si servono di rifornimenti clandestini. Non ci sono neppure elicotteri da combattimento grazie ai quali si sarebbero potuti rifornire gli avamposti o metterne in salvo i presidi senza corse nel fuoco del deserto. Il grosso delle forze americane non è mai intervenuto a spazzar via i ribelli, pur avendo piena mobilità. Si è avuta l'impressione che gli dessimo più fastidio che preoccupazione. In teoria dovremmo ricevere istruzioni dagli inglesi da cui Nassiriya dipende, ma il colonnello che segue la nostra governatrice è una comparsa. Manca soprattutto, ma non solo a noi, un progetto strategico, un piano politico militare per vincere la guerra e arrivare alla pace.

Da noi in Italia è pieno di gente che si affanna a spiegare che non possiamo ritirarci, se no in Iraq scoppia la guerra civile. Perché? Non è già scoppiata? Migliaia di poliziotti o di funzionari collaborazionisti non sono già stati uccisi, le loro caserme e uffici distrutti, le loro spie giustiziate? Non sono già affiorate e poi esplose le rivalità religiose ed etniche fra sciiti, sunniti e curdi? La guerra civile in Iraq dura dalla sua formazione come Stato, e Saddam lo ha tenuto assieme con la ferocia. Anche in altri paesi arabi monarchie moderate con l'Occidente, ma spietate nei riguardi dei loro sudditi, soffocano con la forza le opposizioni: in Algeria c'è stata una strage di massa, in Libia funziona una dittatura militare, in Egitto si è sull'orlo di un vulcano. E noi dell'Occidente ricco abbiamo la pretesa di venir qui a mettere ordine, abbiamo la pretesa di continuare con le occupazioni un rapporto fra Stati che la modernità ha reso impossibile, anacronistico. E perseverarvi è diabolico, significa pagare prezzi spaventosi che deturpano le nazioni, svuotano le loro case e uccidono la democrazia.


AVVISO - Chiunque non voglia più ricevere queste mie "circolari" non deve fare altro che mandarmi un UNSUBSCRIBE NOTA -- Da giugno 2003 le MEDITAZIONI arretrate sono consultabili al sito www.bengodi.org/resistere-a-berlusca    


RESISTENZA - 28/5/04

MANIFESTO 28-5

Il comizio di guerra

Berlusconi scatenato: «Basta con le tasse. E con l'autogoverno della magistratura»

ANDREA COLOMBO

Si presenta di fronte alla platea col sorriso smagliante, saluta alla Fonzie, si produce subito in tre esempi a mitraglia di cosa voglia dire avere faccia tosta in politica. I leader dei partiti della Casa delle libertà hanno preferito non unirsi alle comparse di Assago, e vagli a dar torto. L'affronto è palese, ma Berlusconi sa come girare la faccenda: «Mi hanno chiesto se dovevano venir, io gli ho detto di continuare il loro lavoro». Impagabile. E tutte quelle accuse sul dominio che proprio lui eserciterebbe sul sistema radiotelevisivo per intero o quasi (ci sono anche le telecamere di Sky, che trasmettono il discorso in versione integrale). Il capo non si giustifica. Fa di meglio: capovolge la realtà: «Non ripagheremo gli avversari politici con la stessa moneta. Non li distruggeremo personalmente e umanamente, non utilizzeremo il sistema radiotelevisivo come nei sistemi totalitari». E' già da applauso, ma re Silvio supera ogni record quando proclama: «Forza Italia ha introdotto una nuova moralità nel modo di fare politica». Dice proprio così, incurante del ridicolo, senza preoccuparsi del sin troppo facile doppio senso. E poi: «Il nostro sogno, cambiare l'Italia, è già realtà. E' storia». Non che abbia torto, purtroppo.

L'intero e costoso allestimento del congresso finto serve solo a dar risalto a questo discorso. La prima donna non può dunque limitarsi alle battute facili. Stravolgere la realtà è utile, ma non basta. Le elezioni si vincono con le promesse. E la promessa arriva. Forte, chiara, difficilmente mantenibile. «Il taglio delle tasse s'ha da fare, come scritto nel contratto. Intendo assolutamente realizzare il taglio fiscale non solo per rispetto della parola data ma anche perché rappresenta la principale leva per rilanciare la nostra economia. Il taglio delle tasse per tutti è il colpo di frusta».

Non c'è bisogno di perder tempo a spiegare come e con quali fondi il mago di Assago intenda realizzare l'ambizioso impegno. Si sappia però che «da alcune settimane i dati economici ci dicono che ci sono promettenti segni di ripresa. Va molto meglio dell'anno scorso». Cosa si può chiedere di più.

Oltre alle promesse, servono i nemici. In primo luogo, quelli più odiati, quelli che indossano la toga. Berlusconi non li ha dimenticati. Non che intenda «fare la guerra alla magistratura», esordisce. Però, «bisogna superare l'attuale sistema di autoreferenzialità dell'ordine giudiziario. Forza Italia considera proprio dovere storico e istituzionale ricondurre la democrazia italiana nel proprio alveo sistemico. Nessuno si può trovare in condizione di irresponsabilità. Nell'ordine giudiziario vige un sistema di autoreferenzialità, ovvero si controlla da se medesimo. Fino a che non ci saranno nuove forme di indirizzo, nel nostro paese non sarà compiuta la democrazia liberale». Contrariamente alla premessa, si tratta di una dichiarazione di guerra. Totale. Inaudita. Mai Berlusconi si era spinto fino ad affermare che il suo programma è eliminare l'autogoverno della magistratura. Proprio così si traducono in italiano corrente le sue parole di ieri ad Assago.

L'attacco contro l'opposizione è violentissimo, ma scontato. Quello dell'opposizione «è solo un cartello elettorale», il tentativo di ripetere «la truffa del `96». E poi con che coraggio, dopo averlo «mandato in esilio nel `98», ricandidano quel Prodi, che tra l'altro «della pace e dell'Iraq non gli importa nulla: è un meschino che fa prevalere le ragioni della solita politichetta e del calcolo personale»? Non che ci si possa aspettare altro da gente come Massimo D'Alema, che «si è vantato di essere un vecchio bolscevico». Fossero gente seria, quelli dell'opposizione candiderebbero il loro vero leader. Chi? Ovvio, «Fausto Bertinotti».

Resta spazio solo per un ultimo argomento, buttato lì come se nulla fosse: la guerra in Iraq. Il loquace Berlusconi in materia ha poco da dire. Conferma che l'Italia «resterà in Iraq», però, sia chiaro, continuerà anche «con le sue proposte affinché l'Onu abbia un ruolo guida». Per quelli che dovessero giudicare tanta stringatezza eccessiva, in un discorso durato oltre due ore, il capo di Forza Italia aggiunge una sua articolata analisi della crisi irachena: «Ci sono 24 milioni di cittadini che vogliono la pace, e ci sono 5mila miliziani che tentano di imporre una nuova dittatura». Semplice, semplice. Come la tv addomesticata. Come i congressi finti.

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REPUBBLICA on-line 28-5

Il non-congresso del Cavaliere

Una specie di sosia chirurgico del Berlusconi d’un tempo: spento, banale, verboso, noioso e volgare

di CURZIO MALTESE

ALL'ENTRATA del mausoleo vivente di Assago la prima cosa che viene in mente è la vecchia e insuperata definizione del Berlusconi politico data dieci anni fa da Fedele Confalonieri: "Un Ceaucescu buono". A parte l'aggettivo e lo sfarzo, entrambi generosi, non è il caso di chiamare congresso questo soliloquio elettorale lungo tre giorni. Ieri Berlusconi ha illustrato i miracoli compiuti. Oggi parlano direttamente i miracolati, ministri e sottosegretari. Domani si chiude con altri miracoli promessi, dalla riduzione delle tasse in giù. Il dibattito non è previsto, la sola idea di una mozione di minoranza fa sorridere. Nel momento di massima crisi, il partito azienda si rinchiude nel luogo più finto di Milano, il Forum di Assago, per celebrare il più irreale dei riti, il "non" congresso. Tutto è perfettamente prevedibile, come a Disneyland e nel realismo socialista.

Le gigantografie del leader, i cori bulgari, il discorso autocongratulatorio. Più alcuni simboli dell'Occidente in versione berlusconiana: i laser da discoteca, i fondali televisivi, il karaoke e tanto fumo. Una curiosità, nel cielo televisivo alle spalle del palco compaiono di colpo le nuvole, troppe. Gli organizzatori le notano, si lamentano e con un colpo di mouse le nuvole spariscono prima dell'arrivo del capo. Ma l'incubo della sconfitta incombe sull'azzurro cielo di Forza Italia. I sondaggi ufficiali indicano il partito azienda inchiodato al 21% da mesi, nonostante l'inutile spargimento di miliardi. Quelli ufficiosi addirittura lo segnalano sotto il 20. Altro che "governo decennale": uno sprofondo azzurro. D'altra parte Berlusconi è l'unica risorsa del movimento e da un po' di tempo non azzecca mezza mossa. Ha appena fatto ritirare la gran parte dei cartelloni trionfali 3x6, con i quali aveva tappezzato l'Italia per la modica cifra di 25 milioni di euro, dopo aver scoperto dai soliti sondaggi che si stavano trasformando in boomerang elettorali.

C'è un limite anche alla fede nei miracoli. E dire che i berluscones si erano spellati le mani, plaudendo al genio del grande comunicatore. Se c'è qualcuno che può distruggere Berlusconi non sono le ondivaghe opposizioni, è la sua corte. Basta guardare le facce in prima fila ad Assago, da Schifani a Baget Bozzo, e la speranza luccica.

Al resto ci pensano gli alleati. Nel giorno della gran parata elettorale si sono impegnati tutti a guastare la festa. Il quasi ministro Luca Montezemolo ha sparato bordate da non credere dalla presidenza di Confindustria. La consegna dei berluscones è far finta di non aver capito ma al congresso forzitaliota volano commenti pesanti sul successore di D'Amato. Gli alleati di governo Fini e Follini disertano Assago accampando scuse improbabili come gli "impegni per le amministrative assunti in precedenza". In precedenza? L'Election day è stato deciso da un paio di mesi, il congresso di Forza Italia da 7. Chi va oltre è al solito Casini, ormai idolo della sinistra, che sceglie il giorno giusto per cantare il de profundis del personalismo in politica: "Non c'è futuro per i solisti". Si riferirà a Berlusconi? E a chi sennò?

Per spazzare via tutte queste nubi dai cieli azzurri di Forza Italia ci vorrebbe il Berlusconi del '94 o quello del 2001. Qui alle porte di Milano è invece sbarcato dall'elicottero una specie di sosia chirurgico, spento, banale, verboso e noioso all'inverosimile, volgare nella consueta raffica di insulti a Prodi. Pignolo nell'elencare gli invisibili miracoli del suo governo. Come fece nel '99 al congresso di partito l'allora premier D'Alema, proprio alla vigilia delle elezioni europee, avviandosi con incrollabile ottimismo al fatale appuntamento con la realtà.

Il vero miracolo oggi sarebbe far credere agli italiani che sono più ricchi, felici e sicuri. Lo sa Berlusconi e lo sanno perfino i cortigiani che sgomitano in prima fila per farsi notare dal palco. Le bancarelle del congresso vendono titoli che un giorno potrebbero suonare profetici, "Cambiamo rotta" di Franco Frattini, "La nuova strada" di Ferdinando Adornato, "Destra e sinistra" di Sandro Bondi, vero specialista in materia. Chissà se li rivedremo varcare ancora il Rubicone, magari in compagnia di "don Gianni", omonimo del Baget Bozzo che in piena Tangentopoli esaltava i magistrati e intimava a Craxi di chiedere scusa al popolo. Oggi si commuove quando Berlusconi cita l'amico Bettino fra i padri del movimento. I solisti in politica non avranno un futuro ma per i coristi un posto si troverà sempre, anche quando i nostri figli ci domanderanno se davvero c'era una volta un partito chiamato come un grido da stadio.

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CORSERA 28-5

Un altolà preoccupato ad alleati e avversari

L’elettorato è deluso ed i poteri forti prendono le distanze da Berlusconi

 di MASSIMO FRANCO

L’inquietudine affiora dietro un orgoglio obbligatorio, in vista delle elezioni di giugno; e spinto per due ore fino ai limiti dell’autocelebrazione. La segnalano l’insistenza con la quale ieri, al secondo congresso di FI, Silvio Berlusconi ha sottolineato la «moralità del rispetto degli impegni presi»; l’ammonimento che il programma del 2001 è stato presentato agli elettori «in pieno accordo con gli alleati della coalizione»; e la dichiarazione tanto solenne quanto in apparenza superflua, che il suo è e rimarrà «un governo di legislatura». Sventolando il «Contratto con gli italiani» di tre anni fa, ha scandito: «Da quel contratto non è ammesso il balletto dei governi dei 50 anni che ci hanno preceduto». Berlusconi sembrava parlare non al proprio partito, ma a Pier Ferdinando Casini, Gianfranco Fini, Marco Follini: gli alleati che ieri, dietro lo schermo diplomatico di «altri impegni elettorali», hanno disertato la tribuna degli ospiti. La loro assenza è stata percepita come la conferma del comandamento del «fai da te», dominante in questa campagna europea perfino in una coalizione compatta come il centrodestra. Il capo del governo non li ha mai citati esplicitamente. L’unico alleato evocato con affetto è stato quello assente per malattia: il capo della Lega Nord, Umberto Bossi; e gridando «Forza federalismo», è stato rilucidato l’asse con i lumbard.

Ma l’avvertimento obliquo sul governo di legislatura è, in primo luogo, per An e Udc. Nella maggioranza si è parlato di una resa dei conti dopo il 13 giugno; comunque, di un robusto rimescolamento dei ministeri, dando per scontato un riequilibrio dei rapporti di forza interni. Ieri, invece, il premier ha cercato di troncare in anticipo qualunque ipotesi di «Berlusconi bis» o, peggio, di un esecutivo diverso. Contrapponendo il proprio record di longevità ai tre governi ulivisti nati e morti fra il 1996 e il 2001, ha scandito: «Con noi questo non c’è stato, non ci sarà, non ci potrà essere mai».

E’ un segnale alla maggioranza, destinato tuttavia a superarne i confini; a mettere in guardia tutti i poteri e le istituzioni che Berlusconi sospetta di tramare contro di lui, di voltargli le spalle. La stessa freddezza verso il governo notata in mattinata all’assemblea della Confindustria è un campanello d’allarme per Palazzo Chigi. E la difesa del federalismo fatta da Berlusconi al congresso di Assago è stata letta come una replica immediata al nuovo presidente degli imprenditori, Luca di Montezemolo, oltre che come una rassicurazione alla Lega. Eppure, rimane il tarlo di una «demoralizzazione» del Paese, che per la prima volta il capo del centrodestra teme di non riuscire a fronteggiare e a sconfiggere come in passato.

La scelta di espressioni tipo «colpo di frusta», «choc positivo», «scossa» è stata rivelatrice. E’ come se Berlusconi avesse captato una battuta d’arresto di quello «slancio vitale», che addita come peculiarità della propria tribù elettorale; e vedesse una fastidiosa nebbiolina sull’«alba» psicologica dell’esercito di FI. Il rilancio del «taglio delle tasse per tutti» suona come l’estrema magia per risvegliare l’entusiasmo di un elettorato che magari continua a detestare la sinistra; ma comincia a mostrare una delusione crescente nei confronti delle promesse e dei fatti rivendicati da Berlusconi.

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WWW.APRILEONLINE.INFO 28-5

Forza Italia contro tutti

Il disperato tentativo del premier di riguadagnare consensi

[Nicola Tranfaglia]

Si può chiamare congresso quello che si è aperto ieri ad Assago per Forza Italia, il partito di maggioranza relativa nel nostro parlamento, quello che nelle ultime elezioni politiche e amministrative ha ottenuto il maggior numero di voti?

La domanda non è oziosa ma deriva dal fatto, come narrano le cronache, che all’assise partecipano, accanto ai delegati eletti dalle assemblea, altrettante persone che partecipano di diritto e che sono tutte scelte dalla presidenza del partito, vale a dire da Silvio Berlusconi in persona.

Che si tratti peraltro di un puro fatto mediatico e legato alla propaganda elettorale emerge persino dal “Foglio” di Ferrara e da una dichiarazione di Bobo Craxi che ne parla come di un modo per aggirare la par condicio.

A questi elementi è da aggiungere che nei rari congressi svolti finora di solito non si parla della politica del partito ma soltanto (assai male) degli avversari trattati tutti senza distinzione come “comunisti”.

L’immagine più vivida della sporadica attività congressuale del partito di Berlusconi è, infatti, quella dell’autunno 1997, sempre ad Assago, quando il leader maximo arrivò al congresso sbandierando alcune centinaia di copie del “libro nero sul comunismo” che in gran fretta aveva fatto tradurre dalla casa editrice di famiglia per esibirla in tutte le tv a riprova dei loschi progetti dell’Ulivo che allora governava.

Questa volta, invece, di nuovo c’è l’ostentata diserzione di Fini e Follini che politicamente ha un significato preciso: dopo una campagna elettorale che ha visto Forza Italia contro gli alleati per difendere le sue percentuali e mascherare il fallimento del governo, questi ultimi reagiscono e si preparano a fare i conti dopo il 13 giugno. L’intervista di Bruno Tabacci di ieri è molto chiara al riguardo.

E in ogni caso c'è una variante rispetto al '97. Silvio B. ha parlato ancora una volta dei comunisti, cattolici oppure no, che guidano l’opposizione, e ha paragonato per l’ennesima volta a terroristi quelli che intendono manifestare pacificamente per l’arrivo di Bush a Roma il prossimo quattro giugno.

Ma poi ha dedicato la maggior parte del tempo, confondendo in un unico Ente governo e partito Forza Italia, a illustrare le opere fatte nei primi tre anni del suo potere.

Operazione necessaria per due ragioni di fondo. La prima è che, come ha sottolineato Adornato in “Ballarò” l’altra sera, il presidente del Consiglio deve reagire alla nota e diffusa ostilità che i mezzi di comunicazione, e in particolare i giornali, nutrirebbero nei suoi confronti. E qui siamo al delirio giacché basta leggere con un minimo di attenzione la stampa quotidiana e settimanale per rendersi conto che l’affermazione è del tutto infondata.

La seconda ragione è che gli italiani non avvertono dopo tre anni i benefici di cui parlano i manifesti e dunque occorre convincerli in ogni tribuna, a cominciare da quella di Assago.

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IL FOGLIO 28-5

EDITORIALE

Sul perché non ci fidiamo più di Berlusconi (e che cosa questo significa)

Gentile presidente, le diciamo perché non ci fidiamo più di lei e che cosa questo significa (...) Che c’è che non va? C’è che lei non guida il paese entro una misura minima di ordine politico, e la sua coalizione e perfino il suo movimento le si sottraggono o le si sottomettono, ma non fanno luce, non producono un linguaggio nuovo, non sono ancorati a null’altro che non sia un rapporto nevrotico con la sua capricciosa personalità. C’è che lei ha prodotto una classe dirigente cui continua a mancare, salvo rarissime eccezioni, l’amore per la cultura e per la politica stessa, cioè una cura minima del senso di marcia di un’opera che dovrebbe essere collettiva e pensante, ma risulta invece in moltitudine sparsa a caccia di varie ed effimere convenienze. Certo che è un bla bla, questo che le scriviamo, certo che sono chiacchiere incompatibili con la “cultura del fare” di un imprenditore milanese orgoglioso della sua estraneità alla politica istituzionale. Ma dopo avere sposato, interpretato, accarezzato con simpatia non servile la sua parola, per tanti anni e con l’alta redditività politica ricordata prima, ora la sentiamo muta. Perché c’è un problema di soglia. Lei, gentile presidente, continua a nutrire l’illusione che si possa stare in politica da imprenditore curando di diventare sempre più ricchi e sempre più indifferenti alla soluzione di un gigantesco conflitto di interessi che i suoi nemici attaccano per le ragioni sbagliate, e con la coda di paglia, ma che per i suoi amici non ossequienti esiste, ed esiste anche per lei. Lei pensa che si possa annunciare la riforma dell’articolo 18 e poi mollarla lì con un gesto di stizza e di stanchezza. Che si possa annunciare la riforma delle pensioni e la rivoluzione fiscale promesse lasciando che con il tempo tutto si insabbi e si rimpicciolisca fino all’invisibilità. Lei pensa che la riforma istituzionale sia una penosa necessità, e vediamo che succede. Lei pensa che la riforma della giustizia sia l’aspetto vano e astratto della concreta e sacrosanta battaglia per bloccare coloro che le scaraventano addosso personalmente la giustizia politica: gli altri, e i loro diritti civili, vengono tanto dopo che non si vedono più. Lei pensa che si possa tirare avanti con la neutralizzazione dell’informazione e della discussione pubblica, lasciando più o meno ai suoi avversari le loro caselle, eliminandone alcune con censure goffe, conquistandone altre nella logica della solita blandizie verso il potere, non producendo niente di serio e di nuovo, e cioè nuovi spazi di libertà politica, in attesa che qualche nuovo potere editoriale arrivi e pieghi le ginocchia a lei personalmente, come fanno (con la riserva di rivoltarsi al momento giusto) i soliti padrinati dell’emittenza pubblica. Lei pensa che tutto le sia dovuto, che gli alleati siano azionisti di minoranza della sua azienda, che gli amici siano famigli o strumenti, che le idee contano solo se si traducano in scoop vincenti nel mercato dell’immagine personale del leader. Lei rifiuta categoricamente di comprendere l’altra parte del paese nelle sue sfumature e diversità, e ritiene che basti staccare la cedola dell’incomunicabilità e della reciproca delegittimazione ideologica, magari teorizzando l’amore contro l’odio: così tutto si semplifica in modo avvilente, le istituzioni si irrigidiscono in una contesa corporativa di un tedio bestiale, e la società non è scossa e rivoluzionata da idee nuove e dalla passione di governare, persuadere, spiazzare, sorprendere. Insomma, oltre una certa soglia la sua simpatia, il suo genio e talento personale, la sua cocciutaggine e libertà di tono, anche nelle peggiori gaffe, diventano un materiale povero, una ripetizione coatta di automatismi senza più senso. Non c’è pregiudizio né gnagnera moralistica in tutto questo nostro dire: c’è un senso di sbadiglio che vorremmo allontanare. Siamo stati cantori del berlusconismo e della sua autoironia, su spartito scritto da noi stessi, e di fronte alle sue vanità o al grottesco culto spirituale del Capo ci siamo anche compiaciuti di dire che lei andava accettato così com’è: non è il presidente del Consiglio, è Berlusconi. Ora non ci fidiamo più di lei e della fiducia allegra, ma non assoluta, che in lei abbiamo risposto per tanti anni. Dopo esserci battuti a lungo e con tenacia (battaglia vinta) per una persona avventurosa che era una politica e insieme la riforma possibile della politica, nel ‘94 e nel 2001 e negli anni attraverso, abbiamo poi aspettato una politica di là dalla persona, ma invano. Se la cosa la interessa, ma è dubitabile, veda un po’ che cosa può fare. I tempi sono così grami che il sostegno alla sua opera non ha alternative, e forse questo a lei può bastare, per quello che conta. Noi vorremmo anche poterla apprezzare, l’Opera. Ma è tardi, sempre più tardi. 


Tutto il materiale della serie RESISTENZA, da maggio 2001, è consultabile su www.bresciablob.com                          

Da giugno 2003 anche al sito www.bengodi.org/resistere-a-berlusca


giovedì, maggio 27, 2004

MEDITAZIONE 27/5/04

MANIFESTO 27-5

I cocci dell'Iraq

ROSSANA ROSSANDA

Che Bush cerchi di uscire dal sanguinoso pantano in Iraq salvando faccia e petrolio, è evidente. Che punti a una copertura anche retroattiva dell'Onu è altrettanto chiaro, ma che la bozza presentata all'Onu da Usa e Gran Bretagna possa essere rimandata ai mittenti senza discuterne, mi pare difficile. E non solo perché essa ha un suono un po' diverso dal discorso del presidente americano che l'ha accompagnata, ma perché essa segnala anche difficoltà reali della situazione in cui è stato cacciato quel disgraziato paese. Si può dire a Bush: chi rompe paga e i cocci sono suoi? Non tutti i cocci sono permutabili in denaro e irreparabili, ma soprattutto i cocci dell'Iraq se li terrebbe volentieri e sarebbe ancora in grado di farlo sia pure rischiando un alto prezzo, e possono diventare ancora più gravi. Bisogna rifletterci. La mozione a nostro avviso va discussa a fondo. In primo luogo perché non c'è, né materialmente né politicamente una forza dell'Onu in grado di intimare agli Stati uniti e alla Gran Bretagna di ritirarsi subito, sostituendola con una forza propria di interposizione, della quale non facciano parte gli eserciti occupanti. Sarebbe in assoluto il meglio, ma non ce ne sono le condizioni. Il consiglio di sicurezza è in grado invece di trattare con posizioni e comando delle forze in Iraq, controbattendo la volontà americana di non farsi dirigere e limitare da nessuno.

In secondo luogo una fase di transizione appare necessaria, perché fra Saddam, la guerra con l'Iran per conto degli Usa, l'embargo e infine l'aggressione del 2003, quel paese, già diviso fra etnie e confessioni religiose è stato capace di resistenza ma non ha una piattaforma coesa per il domani. Diciamo deliberatamente resistenza: piaccia o non piaccia questo è stata la reazione inattesa al più potente esercito del mondo anche se vi hanno agito molteplici spinte fra le quali un terrorismo del quale non sappiamo quasi nulla, salvo che si tratta di un metodo tremendo usato non da un solo soggetto, ma da più d'uno e con fini e motivazioni.

Si tratta dunque di dar vita a un governo interinario, che non sia la copia del governo fantoccio già tentato; non è facile per Lakhdar Brahimi indicare chi può essere accettato da una grande maggioranza del paese come almeno transitoriamente credibile. E non lo sarà se non avrà il potere di opporsi alle azioni militari non di interposizione e di fissare una data per il ritiro degli occupanti.

In terzo luogo si tratta di restituire agli iracheni il petrolio che dalle mani di Saddam è passato in quelle americane, bottino che da un pezzo è negli interessi privati di Dick Cheney. Non dubitiamo che sarà uno dei punti più difficili da ottenere. Ma deve essere condizione sine qua non per una qualsiasi cauzione delle Nazioni unite. Tutto questo è meno di un ritiro americano incondizionato come fu quello dal Vietnam. Ma allora le condizioni di forza su scala mondiale erano diverse, il Vietnam non era l'Iraq e aveva alle spalle l'Urss e la Cina. E non di meno quella pace è stata vinta meno della guerra. Oggi gli Stati uniti sono la sola superpotenza nel mondo, in difficoltà all'interno per le perdite subite e internazionalmente per avere sperimentato come l'unilateralismo sia più facile da dichiarare che da praticare. Non siamo più nel 2001/2002. Quando - ha ragione Asor Rosa sull'Unità di martedì - non occorreva essere grandi profeti per capire quel che si stava preparando. La responsabilità dell'occidente, Europa inclusa, è di aver finto di ignorare la dottrina della New strategy che dichiarava gli Stati uniti svincolati da ogni legge e diritto internazionale e di averli accompagnati con fanfare nell'impresa afghana, non meno ingloriosa e anch'essa irrisolta. E perciò non riuscendo a impedire quella irachena.

La complicità e le omissioni dell'Occidente sono state grandi. E non soltanto da ieri. Sarà anche un loro frutto se le elezioni del 2005 porteranno a una repubblica islamica, prodotto di due tesi delittuosamente stupide, quella di Huntington sull'inevitabile scontro di civiltà e quella sulle «esportazioni» della democrazia con le armi. Davanti al Medio oriente non possiamo che coprirci il volto con vergogna anche per quel che lo abbiamo indotto a diventare. La sinistra, dal blando Kerry ai nostri riformisti, non ha certo peccato di troppo coraggio. Cerchi di non perdere anche questa, se non entusiasmante, seria occasione.


AVVISO - Chiunque non voglia più ricevere queste mie "circolari" non deve fare altro che mandarmi un UNSUBSCRIBE NOTA -- Da giugno 2003 le MEDITAZIONI arretrate sono consultabili al sito www.bengodi.org/resistere-a-berlusca