MANIFESTO 24-3
Ultras
lL Cavaliere è anche un indovino
GIANNI MINA'
Silvio Berlusconi lo aveva detto «Se non variamo il decreto che spalma in cinque anni i debiti del calcio professionista italiano col fisco e l'Enpals, può scoppiare la rivoluzione». Il cavaliere, che oltre a essere un presidente operaio, un affarista, un posteggiatore e un tecnico di calcio è anche un indovino, evidentemente lo prevedeva e puntualmente domenica scorsa, a Roma, è scoppiato l'inferno all'Olimpico, a metà del derby cittadino, e alcuni pretoriani del tifo sono scesi in campo indisturbati per ingiungere a Totti e compagni di andarsene a casa «...se non volevano che succedesse qualcosa». A quel punto Adriano Galliani, vicepresidente esecutivo del Milan e presidente della Lega, Confindustria del calcio, si è autonominato ministro dell'interno ed esautorando tutti insieme, in un attimo, il prefetto di Roma Achille Serra, il questore Cavaliere e il colonnello dei carabinieri di zona, oltre alla Federcalcio, ha consigliato, via cellulare, all'arbitro Rosetti, di accettare il ricatto. Ora passi per il giovane direttore di gara le cui decisioni in campo, per regolamento non avrebbero dovuto però essere influenzate da nessuno, meno che mai dal vice presidente del club che contende alla Roma (ma, per ora, anche alla Lazio) lo scudetto. E' inaudito invece che una decisione d'ordine pubblico riguardante settantamila persone sia stata presa per telefono, in due minuti, da un signore che non ha nessuna autorità per farlo e non ha nemmeno la sensibilità di consigliare all'arbitro turbato di chiedere almeno consiglio alle autorità di pubblica sicurezza preposte a tutela di quell'evento. D'altronde chi governa (si fa per dire) il calcio dei club ricchi (di cosa?) del nostro paese accettando da anni il falso in bilancio come abitudine e così pure l'elusione di ogni regola (compresa quella di una credibile lotta al doping e alla violenza) che cosa poteva consigliare? La fuga, ovviamente, dalle proprie responsabilità approfittando del fatto che il capo di governo è il suo presidente al Milan oltre a essere il premier di un governo che ha depenalizzato il falso in bilancio, ha affermato che è giusto violare le tasse e ha intenzione, a breve, di tagliare tutti i lacci e i lacciuoli che frenano, in parlamento, i progetti balzani e le «trovate creative» che i suoi ministri più disinvolti propongono. Questo panorama non ha niente a che fare con la più elementare democrazia, il rispetto dei ruoli, il rispetto delle regole, la tutela dei cittadini e nemmeno con la difesa dei diritti dei consumatori dello spettacolo calcio. E' invece la spia di una decadenza morale, sociale e politica. La stessa per cui, ieri, a un determinato segnale si è riempito il parlamento per far passare, con un colpo di mano, la iniqua legge Gasparri che assicura, per sempre, a un solo soggetto, il presidente Berlusconi, il dominio della comunicazione nel nostro paese. Il coordinamento nel mettere in atto il colpo di mano parlamentare è stato perfetto come quello degli ultras di Roma e Lazio che, domenica all'Olimpico, all'inizio del secondo tempo hanno ritirato all'unisono gli striscioni nelle rispettive curve come succede solo quando una azione è preordinata.
Quando si dice la coincidenza. Sono cose che possono succedere solo una volta nella vita o in un derby romano, magari in tempo di elezioni, quando c'è il pericolo di perdere, non c'è più perfetta sintonia con alcuni alleati e non si può rischiare una guerra in nome del calcio. A pensar male - sostiene Andreotti - si fa peccato, ma spesso si indovina.
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EUROPA on the Web 24-3
Berlusconi nel pallone
Esiste una “questione morale” persino per un governo che condona tutto
di FRANCESCO SAVERIO GAROFANI
Quando si parla di Berlusconi la mente corre al conflitto d’interessi. A quello che riguarda la commistione di affari politici ed economici. All’inestricabile nodo che lega in unico groviglio la proprietà di corazzate mediatiche e la formazione del consenso attorno al leader politico. Un altro lato del suddetto conflitto rimane in genere più in ombra.
Quasi dimenticato. Quello che riguarda il calcio. Il ruolo del Berlusconi presidente del Milan appare in genere, agli occhi dell’opinione pubblica, meno grave, comunque più simpatico. È uno sfizio, un hobby miliardario. Forse succede perché il calcio travolge ogni appartenenza, ogni residuo ideologico: gli italiani sono un popolo di tifosi. Berlusconi lo sa bene, e non solo perché anche lui è un tifoso.
Il Cavaliere ha costruito sul calcio uno dei pilastri della sua sorte politica. Perché il calcio dà potere e visibilità. Calcio e tv sono un binomio vincente.
Il calcio fa vincere la corsa dell’audience (che traina pubblicità); e la tv amplifica a dismisura la platea di un evento che da sportivo diventa spettacolo.
Fenomeno culturale globale. I protagonisti di questo fenomeno possono diventare mito. Lo diventano i calciatori-star. Lo diventano gli allenatori vincenti.
Possono diventarlo i presidenti che riempiono le bacheche di trofei e fanno sognare i supporter.
Ora vorrebbero il loro spazio anche i capi tifosi, che non a caso reclamano i loro centimetri quadrati di video. Come possono: con una coreografia in curva, o con una invasione di campo.
Certo, in Italia il calcio è sempre stato importante, e per questo usato come strumento di potere: ci sono stati diversi casi di uomini politici “prestati” al pallone e viceversa. Ma è il mix tra calcio e tv che rende Berlusconi un caso di scuola. Proprio perché nella sua doppia veste il cavaliere è stato in grado di produrre risorse che hanno finito per drogare il sistema con iniezioni miliardarie, garantendo un ritorno di visibilità personale – giocata prima di tutto sul tavolo della politica - che sarebbe stato impossibile estrarre da altri pozzi. Dal caso Lentini in poi il sistema calcio si è messo alla rincorsa della lepre berlusconiana, in una gara folle e senza un traguardo.
Gli stipendi dei calciatori, le aste che hanno animato il calciomercato in questi anni. I diritti televisivi che hanno illuso i presidenti. Miliardi, miliardi, miliardi. E potere. Ma poi i rubinetti si sono chiusi, il mercato si è saturato. Ed è iniziata l’era dei debiti. Crepe che si sono aperte sempre più numerose, sempre più profonde. Chi doveva controllare guardava altrove. Due presidenti che hanno cercato di reggere il passo della competizione sono finiti in galera (e il calcio, nelle loro vicende giudiziarie, c’entra, eccome); qualcun altro si trova sull’orlo del baratro, come quei giocatori di poker che si fanno prendere la mano.
Il sistema sarebbe già crollato se non fosse presidiato da alcuni “fedelissimi” . Uno è a capo della Federazione, un altro alla testa della Lega (e, guarda caso, alla vicepresidenza del Milan). Berlusconi, certo, non ha problemi finanziari. Anche la sua squadra ha bilanci in sofferenza; anche il Milan ha usufruito dei benefici del famoso decreto “spalmadebiti” poi bocciato dal commissario Monti. Ma non è quella manciata di miliardi che ora preoccupa il presidente del Milan. Il problema è ben più grave.
Il premier sa che deve muoversi se vuole salvare il calcio: e salvare il calcio significa puntellare un pilastro fondamentale della sua fortuna. Salvare il calcio oggi vuol dire tenere a galla le squadre delle grandi piazze, quelle che hanno un pubblico che riempie gli stadi e le casse del monopolista che vende i diritti tv del “campionato più bello del mondo”. Quelle che possono aspirare, domani, a partecipare ad una super lega. Salvare il calcio significa, in buona sostanza, salvare la possibilità che il gioco non si riduca a Milan, Inter, Juve. Perché così non interesserebbe più a nessuno e morirebbe. E gli italiani, che pure sono di manica larga, non perdonerebbero il distruttore del loro giocattolo preferito.
Eppure quella mossa che Berlusconi deve assolutamente fare non è facile. Quegli stessi italiani pazzi per il pallone, hanno capito che il limite è stato oltrepassato. Che esiste una “questione morale” persino per un governo che ha condonato tutto.
Che i “cucchiai” di Totti sono preziosi, ma che valgono di più i servizi sociali, le pensioni, la sanità, la scuola.
Berlusconi forse non lo sa, ma anche i tifosi hanno un’anima.
giovedì, marzo 25, 2004
MEDITAZIONE
STAMPA 24-3
Onorevole presentatrice
di Massimo Gramellini
Una ex presidente della Camera ha vinto a Sanremo l'Oscar della tv, categoria «rivelazione dell'anno». Potrà sembrare una bizzarria marginale, in un momento in cui milioni di persone stringono la cinghia, mezza Campania affoga nei rifiuti e la classe politica si occupa di calcio e degli introiti pubblicitari delle aziende del presidente del Consiglio. La vera bizzarria, a dire il vero, non è nemmeno il premio a Irene Pivetti. Ma che nessuno si sia mai indignato per il fatto che una signora che è stata la terza carica dello Stato abbia potuto riciclarsi come conduttrice (mediocre) di programmi spazzatura.
Da un incarico istituzionale ci si dimette. Ma dal rango che vi è connesso, no. Per tutta la vita. Come rimangono i privilegi, così restano le responsabilità, fra le quali quella di precludersi altri mestieri che determinino perdita di autorevolezza. Una democrazia adulta dovrebbe guardare con fastidio persino gli ex Capi dello Stato che, pur senza mettersi a condurre un quiz, restano nell'agone mediatico anziché ritirarsi in quella famosa Riserva della Repubblica che ormai è stata prosciugata dalla vanità. Invece la nostra comunità disprezza a tal punto le proprie istituzioni da trovare normale e positivo (in quanto sintomo di un carattere affabile) che una tipa passi dal trono di Montecitorio al palco di Sanremo, uscendone come l'altra sera in braccio a Vittorio Sgarbi. Pare che Pivetti si sia arrabbiata per il trattamento. Ma il circo lo ha scelto lei. E ai clown non si fa il saluto militare.
STAMPA 24-3
Onorevole presentatrice
di Massimo Gramellini
Una ex presidente della Camera ha vinto a Sanremo l'Oscar della tv, categoria «rivelazione dell'anno». Potrà sembrare una bizzarria marginale, in un momento in cui milioni di persone stringono la cinghia, mezza Campania affoga nei rifiuti e la classe politica si occupa di calcio e degli introiti pubblicitari delle aziende del presidente del Consiglio. La vera bizzarria, a dire il vero, non è nemmeno il premio a Irene Pivetti. Ma che nessuno si sia mai indignato per il fatto che una signora che è stata la terza carica dello Stato abbia potuto riciclarsi come conduttrice (mediocre) di programmi spazzatura.
Da un incarico istituzionale ci si dimette. Ma dal rango che vi è connesso, no. Per tutta la vita. Come rimangono i privilegi, così restano le responsabilità, fra le quali quella di precludersi altri mestieri che determinino perdita di autorevolezza. Una democrazia adulta dovrebbe guardare con fastidio persino gli ex Capi dello Stato che, pur senza mettersi a condurre un quiz, restano nell'agone mediatico anziché ritirarsi in quella famosa Riserva della Repubblica che ormai è stata prosciugata dalla vanità. Invece la nostra comunità disprezza a tal punto le proprie istituzioni da trovare normale e positivo (in quanto sintomo di un carattere affabile) che una tipa passi dal trono di Montecitorio al palco di Sanremo, uscendone come l'altra sera in braccio a Vittorio Sgarbi. Pare che Pivetti si sia arrabbiata per il trattamento. Ma il circo lo ha scelto lei. E ai clown non si fa il saluto militare.
EUROPA on the Web 23-3
Lettere al Direttore
L’antipolitica di Berlusconi
Cara Europa,
proprio non vi capisco. Ogni volta che Berlusconi apre bocca, gli date addosso come se dicesse cose inaudite, mentre a noi cittadini piacciono quasi sempre. Io credo che dovreste ficcarvi in testa una volta per tutte che chi vince le elezioni comanda. Se no, in che consiste la democrazia?
M. JOLANDA SANTACROCE, SIENA
-=oOo=-
RISPONDE FEDERICO ORLANDO
In cosa consiste la democrazia? Esattamente nel rovescio di quel che pensa lei, gentile signora. Intanto, il sistema democratico funziona così: chi vince le elezioni governa (governa, signora, non comanda) e chi perde fa l’opposizione (opposizione, signora, non lo scendiletto di chi governa). In secondo luogo chi governa propone e spinge il Parlamento ad approvare leggi nell’interesse generale, non nel proprio: vedremo (proprio oggi torna alla Camera la legge Gasparri sulle tv), se il premier, dopo aver lasciato votare i suoi contro la legge Sofri dicendo «non sono un dittatore», li lascerà altrettanto liberi sulla legge che riguarda le sue televisioni: oppure se metterà la fiducia, vincolando la coscienza dei deputati. La fiducia su un suo affare personale.
Eppure lei dice che Berlusconi non si è arricchito con la politica, mentre i politici di professione sì (proprio tutti? E perché quando mani Pulite ha cercato di ridare agli italiani almeno una parte del mal tolto, vi siete messi con Berlusconi contro i giudici?)
Ma veniamo alla sua domanda centrale. Lei dice: se vi siete sempre lamentati dei regolamenti parlamentari, perché criticate Berlusconi che dice di volerli riformare? Perché la riforma che Berlusconi, ma solo a parole, vuol fare, è proposta allo scopo di piacere agli elettori che, come lei, se ne vanno in brodo di giuggiole quando si parla male della politica e del Parlamento, che ne è il cuore. Creda a me: Berlusconi non farà alcuna riforma dei regolamenti parlamentari perché non glie ne importa niente: ha una maggioranza tanto vasta che può far funzionare le Camere come vuole lui. Se una legge lo interessa, le Camere marciano alla velocità di un aereo, e non c’è filibustering che regga (filibustering, signora, è la parola che nel gergo parlamentare inglese indica l’ostruzionismo dell’opposizione. Vede bene che il più glorioso parlamento del mondo conosce da qualche secolo l’ostruzionismo, lo definisce con humour richiamando la filibusta dei pirati, ma non si è mai sognato di disconoscerlo come diritto dell’opposizione).
Quando invece il premier non ha interesse a far passare una legge, metti la legge Frattini sul conflitto d’interesse, presentata quasi tre anni fa per dar fumo negli occhi agli elettori, la legge non va in votazione.
Se gli italiani avessero sensibilità per queste cose, anche il centrosinistra farebbe su di esse opposizione e rumore più di quanto non faccia. E poi il centrosinistra ha il peccatuccio storico d’aver approvato, nel parlamento precedente, la riforma Violante, concepita per rendere più agevole il passaggio di alcuni provvedimenti del governo, ma anche per rafforzare i poteri del presidente della Camera. Strumenti di cui oggi, naturalmente, si giova la nuova maggioranza.
Ciò nonostante, per la prima volta nella storia italiana (Mussolini a parte) il capo del governo interviene senza arrossire, mentre noi rabbrividiamo, sul modo in cui il Parlamento deve organizzare i propri lavori. Vorrebbe che a votare le leggi non fossero più i deputati e i senatori, ma solo i capigruppo, stracciando altri tre fondamentali principi costituzionali: rappresentanza della Nazione, niente vincoli di mandato, personalità del voto. Pur di non correre il rischio di inciampare, come tutti i governi democratici del mondo, in un no del Parlamento.
Un intervento simile del governo sul Parlamento s’era verificato solo nel 1928, in piena dittatura fascista, quando Mussolini sciolse la Camera e annunciò ai deputati che la prossima sarebbe stata composta solo da camice nere: «Per discutere l’opera del governo, bene inteso non a scopo di rovesciamento, ma a scopo di critica e collaborazione». Se si tiene conto che Berlusconi vorrebbe per sé il “premierato assoluto” e ridurre il Parlamento a barzelletta, ha ragione il presidente Dini di dire: «Berlusconi ha la mentalità del dittatore ». Anzi, l’avrebbe. In realtà, certe sparate hanno lo scopo di continuare a circuire gli elettori: se non ha potuto mantenere le promesse, è perché i regolamenti parlamentari lo imbrigliano. Sapremo il 13 giugno quanti elettori ancora gli credono.
Lettere al Direttore
L’antipolitica di Berlusconi
Cara Europa,
proprio non vi capisco. Ogni volta che Berlusconi apre bocca, gli date addosso come se dicesse cose inaudite, mentre a noi cittadini piacciono quasi sempre. Io credo che dovreste ficcarvi in testa una volta per tutte che chi vince le elezioni comanda. Se no, in che consiste la democrazia?
M. JOLANDA SANTACROCE, SIENA
-=oOo=-
RISPONDE FEDERICO ORLANDO
In cosa consiste la democrazia? Esattamente nel rovescio di quel che pensa lei, gentile signora. Intanto, il sistema democratico funziona così: chi vince le elezioni governa (governa, signora, non comanda) e chi perde fa l’opposizione (opposizione, signora, non lo scendiletto di chi governa). In secondo luogo chi governa propone e spinge il Parlamento ad approvare leggi nell’interesse generale, non nel proprio: vedremo (proprio oggi torna alla Camera la legge Gasparri sulle tv), se il premier, dopo aver lasciato votare i suoi contro la legge Sofri dicendo «non sono un dittatore», li lascerà altrettanto liberi sulla legge che riguarda le sue televisioni: oppure se metterà la fiducia, vincolando la coscienza dei deputati. La fiducia su un suo affare personale.
Eppure lei dice che Berlusconi non si è arricchito con la politica, mentre i politici di professione sì (proprio tutti? E perché quando mani Pulite ha cercato di ridare agli italiani almeno una parte del mal tolto, vi siete messi con Berlusconi contro i giudici?)
Ma veniamo alla sua domanda centrale. Lei dice: se vi siete sempre lamentati dei regolamenti parlamentari, perché criticate Berlusconi che dice di volerli riformare? Perché la riforma che Berlusconi, ma solo a parole, vuol fare, è proposta allo scopo di piacere agli elettori che, come lei, se ne vanno in brodo di giuggiole quando si parla male della politica e del Parlamento, che ne è il cuore. Creda a me: Berlusconi non farà alcuna riforma dei regolamenti parlamentari perché non glie ne importa niente: ha una maggioranza tanto vasta che può far funzionare le Camere come vuole lui. Se una legge lo interessa, le Camere marciano alla velocità di un aereo, e non c’è filibustering che regga (filibustering, signora, è la parola che nel gergo parlamentare inglese indica l’ostruzionismo dell’opposizione. Vede bene che il più glorioso parlamento del mondo conosce da qualche secolo l’ostruzionismo, lo definisce con humour richiamando la filibusta dei pirati, ma non si è mai sognato di disconoscerlo come diritto dell’opposizione).
Quando invece il premier non ha interesse a far passare una legge, metti la legge Frattini sul conflitto d’interesse, presentata quasi tre anni fa per dar fumo negli occhi agli elettori, la legge non va in votazione.
Se gli italiani avessero sensibilità per queste cose, anche il centrosinistra farebbe su di esse opposizione e rumore più di quanto non faccia. E poi il centrosinistra ha il peccatuccio storico d’aver approvato, nel parlamento precedente, la riforma Violante, concepita per rendere più agevole il passaggio di alcuni provvedimenti del governo, ma anche per rafforzare i poteri del presidente della Camera. Strumenti di cui oggi, naturalmente, si giova la nuova maggioranza.
Ciò nonostante, per la prima volta nella storia italiana (Mussolini a parte) il capo del governo interviene senza arrossire, mentre noi rabbrividiamo, sul modo in cui il Parlamento deve organizzare i propri lavori. Vorrebbe che a votare le leggi non fossero più i deputati e i senatori, ma solo i capigruppo, stracciando altri tre fondamentali principi costituzionali: rappresentanza della Nazione, niente vincoli di mandato, personalità del voto. Pur di non correre il rischio di inciampare, come tutti i governi democratici del mondo, in un no del Parlamento.
Un intervento simile del governo sul Parlamento s’era verificato solo nel 1928, in piena dittatura fascista, quando Mussolini sciolse la Camera e annunciò ai deputati che la prossima sarebbe stata composta solo da camice nere: «Per discutere l’opera del governo, bene inteso non a scopo di rovesciamento, ma a scopo di critica e collaborazione». Se si tiene conto che Berlusconi vorrebbe per sé il “premierato assoluto” e ridurre il Parlamento a barzelletta, ha ragione il presidente Dini di dire: «Berlusconi ha la mentalità del dittatore ». Anzi, l’avrebbe. In realtà, certe sparate hanno lo scopo di continuare a circuire gli elettori: se non ha potuto mantenere le promesse, è perché i regolamenti parlamentari lo imbrigliano. Sapremo il 13 giugno quanti elettori ancora gli credono.
MEDITAZIONE
MANIFESTO 23-3
Rissa da cortile
ROSSANA ROSSANDA
Con un colpo magistrale un centinaio di sedicenti antagonisti e altrettanti dirigenti Ds sono riusciti a oscurare dal palcoscenico mediatico un milione o due di persone che sabato hanno sfilato a Roma contro la guerra. Erano gli uni e gli altri infastiditi dall'evento, che non avevano né organizzato né animato. Protagonista era quella società civile, così spesso evocata a vanvera, che da qualche anno si coagula e si articola in gruppi, associazioni ed elaborazioni diverse, si convoca in grandi appuntamenti su questioni decisive, e aggrega attorno a sé un'opinione vastissima, stufa di manipolazione, che scende per le strade. Che cosa diceva la manifestazione di sabato, inattesa per l'affluenza, calorosa, preoccupata, comunicante? Diceva a un anno dall'inizio della guerra in Iraq, che era stato un disastro, che aveva esiti infausti, che aveva moltiplicato il terrorismo e che l'Italia doveva dissociarsene senza equivoci, consegnando la gestione dei guasti all'Onu, alla quale va da sé che si potrebbe dare aiuto.
La manifestazione è stata sentita come intollerabile per il centrodestra, che l'ha accusata di tutto, compreso di essere nostalgica di Saddam, per il centrosinistra che dalla guerra del Kosovo in poi frascheggia alla Blair con interventi e occupazioni armate, per le smanie di protagonismo di alcuni giovani e meno giovani, che non rappresentano nessuno ma che cercano di inserirsi per scacciare coloro che considerano indegni di prenderne parte.
Né gli uni né gli altri erano in cima ai pensieri del grande gomitolo che si è andato srotolando da mezzogiorno in poi per ore e ore fino a riempire e svuotare un paio di volte il Circo Massimo. E che felicemente ignorava come verso le cinque, cioè a manifestazione inoltrata già da un pezzo, la direzione Ds, asserragliata nella sede di via Nazionale (i ds normali erano fluiti per conto proprio fra i manifestanti) decideva di inserirsi nel corteo standoci pochissimo, forse per non stancarsi o forse per non compromettersi troppo. Ma aveva trovato fuori della porta un centinaio di autoproclamati guardiani della rivoluzione che l'aspettavano per coprirla di ululati. Che è successo fra il ceto politico arrivato e quello aspirante tale? Le immagini consegnano alla storia qualche spintone e strillo, un Fassino verde in faccia, un breve accalcarsi e una sola immagine pulita, i giovani ds che avanzano con le braccia pacificamente alzate. Il segretario se la svignava offeso e coperto dalla polizia per una via laterale. I baldi antagonisti continuavano a spintonare i ds rimasti per cinque minuti, che sarebbero sprofondati nell'oblìo se la segreteria Ds non avesse diramato un drammatico comunicato che denunciava «l'aggressione squadrista» - scusate se è poco - e, come da tradizione, la attribuiva a un complotto di alleati ed eletti irriconoscenti. Miserabile. Sono seguiti il giubilo della destra, una pioggia di telegrammi di solidarietà a Fassino da An e compagnia, telegiornali in fibrillazione, Gad Lerner che scongiurava Luigi Ciotti a dissociarsi da Zanotelli e abiurare Strada, e consimili scemenze. Tempo un'ora, uno o due milioni di persone erano state azzerate al momento di andare sugli schermi e sulle prime pagine dei giornali.
Bel lavoro. Grave per il movimento per la pace? No. Non se n'era neanche accorto. Ma grave per la stampa parlata e scritta, che ne esce inaffidabile per la distanza fra quel che è avvenuto e quel che essa trasmette, per il manifesto servaggio agli inquilini del Palazzo, per l'inattendibilità come osservatore politico. E grave per la sinistra. Sia per quella radicale, cui non giova vedersi attribuita una manciata di estremismo primario, ma soprattutto per la sinistra che si vorrebbe di governo ed è sempre più impigliata nelle sue codardie, incapace di tenere una linea di opposizione e però desiderosa di nascondere dietro presunte aggressioni il suo anelito a schierarsi con Blair. Giorno per giorno precipita la sua capacità di rappresentanza. In Spagna, in grado di raccogliere la protesta di una maggioranza del paese, c'era il modesto Zapatero, da noi neanche quello.
MANIFESTO 23-3
Rissa da cortile
ROSSANA ROSSANDA
Con un colpo magistrale un centinaio di sedicenti antagonisti e altrettanti dirigenti Ds sono riusciti a oscurare dal palcoscenico mediatico un milione o due di persone che sabato hanno sfilato a Roma contro la guerra. Erano gli uni e gli altri infastiditi dall'evento, che non avevano né organizzato né animato. Protagonista era quella società civile, così spesso evocata a vanvera, che da qualche anno si coagula e si articola in gruppi, associazioni ed elaborazioni diverse, si convoca in grandi appuntamenti su questioni decisive, e aggrega attorno a sé un'opinione vastissima, stufa di manipolazione, che scende per le strade. Che cosa diceva la manifestazione di sabato, inattesa per l'affluenza, calorosa, preoccupata, comunicante? Diceva a un anno dall'inizio della guerra in Iraq, che era stato un disastro, che aveva esiti infausti, che aveva moltiplicato il terrorismo e che l'Italia doveva dissociarsene senza equivoci, consegnando la gestione dei guasti all'Onu, alla quale va da sé che si potrebbe dare aiuto.
La manifestazione è stata sentita come intollerabile per il centrodestra, che l'ha accusata di tutto, compreso di essere nostalgica di Saddam, per il centrosinistra che dalla guerra del Kosovo in poi frascheggia alla Blair con interventi e occupazioni armate, per le smanie di protagonismo di alcuni giovani e meno giovani, che non rappresentano nessuno ma che cercano di inserirsi per scacciare coloro che considerano indegni di prenderne parte.
Né gli uni né gli altri erano in cima ai pensieri del grande gomitolo che si è andato srotolando da mezzogiorno in poi per ore e ore fino a riempire e svuotare un paio di volte il Circo Massimo. E che felicemente ignorava come verso le cinque, cioè a manifestazione inoltrata già da un pezzo, la direzione Ds, asserragliata nella sede di via Nazionale (i ds normali erano fluiti per conto proprio fra i manifestanti) decideva di inserirsi nel corteo standoci pochissimo, forse per non stancarsi o forse per non compromettersi troppo. Ma aveva trovato fuori della porta un centinaio di autoproclamati guardiani della rivoluzione che l'aspettavano per coprirla di ululati. Che è successo fra il ceto politico arrivato e quello aspirante tale? Le immagini consegnano alla storia qualche spintone e strillo, un Fassino verde in faccia, un breve accalcarsi e una sola immagine pulita, i giovani ds che avanzano con le braccia pacificamente alzate. Il segretario se la svignava offeso e coperto dalla polizia per una via laterale. I baldi antagonisti continuavano a spintonare i ds rimasti per cinque minuti, che sarebbero sprofondati nell'oblìo se la segreteria Ds non avesse diramato un drammatico comunicato che denunciava «l'aggressione squadrista» - scusate se è poco - e, come da tradizione, la attribuiva a un complotto di alleati ed eletti irriconoscenti. Miserabile. Sono seguiti il giubilo della destra, una pioggia di telegrammi di solidarietà a Fassino da An e compagnia, telegiornali in fibrillazione, Gad Lerner che scongiurava Luigi Ciotti a dissociarsi da Zanotelli e abiurare Strada, e consimili scemenze. Tempo un'ora, uno o due milioni di persone erano state azzerate al momento di andare sugli schermi e sulle prime pagine dei giornali.
Bel lavoro. Grave per il movimento per la pace? No. Non se n'era neanche accorto. Ma grave per la stampa parlata e scritta, che ne esce inaffidabile per la distanza fra quel che è avvenuto e quel che essa trasmette, per il manifesto servaggio agli inquilini del Palazzo, per l'inattendibilità come osservatore politico. E grave per la sinistra. Sia per quella radicale, cui non giova vedersi attribuita una manciata di estremismo primario, ma soprattutto per la sinistra che si vorrebbe di governo ed è sempre più impigliata nelle sue codardie, incapace di tenere una linea di opposizione e però desiderosa di nascondere dietro presunte aggressioni il suo anelito a schierarsi con Blair. Giorno per giorno precipita la sua capacità di rappresentanza. In Spagna, in grado di raccogliere la protesta di una maggioranza del paese, c'era il modesto Zapatero, da noi neanche quello.
REPUBBLICA on-line 22-3
CARTA CANTA
di Marco Travaglio
Berlusconi pacifista
"La crisi irachena avrà sicuramente uno sbocco pacifico: per Silvio Berlusconi, non solo si allontana lo spettro di una guerra in Iraq, ma si fa sempre più concreta l'ipotesi di una soluzione nel segno della pace. E' una sensazione, di più, un convincimento che il premier ha consolidato nei due giorni del vertice Nato di Praga, nel corso del quale ha avuto occasione di approfondire proprio il caso Iraq con gli altri membri dell' Alleanza atlantica.
E ha ripetuto questa sua previsione ottimistica più volte nel corso della giornata, ogni qualvolta ha affrontato con i giornalisti l'argomento. Tra l'altro - è stato il suo ragionamento - è nello stesso interesse del rais di Baghdad adottare comportamenti consoni, anche perchè Saddam Hussein sa che per lui non ci saranno ''scappatoie ulteriori''. Dovrà dunque rispettare il dettato della risoluzione Onu e annientare l'arsenale di armi di distruzione di massa, cosa che, a giudizio di Berlusconi, Saddam ha avuto ''tutto il tempo di fare''.
Al di là delle previsioni improntate alla fiducia del presidente del Consiglio, resta sul tappeto dell' Alleanza atlantica il dilemma guerra si'-guerra no, in attesa dei prossimi sviluppi e del verdetto degli ispettori dell' Onu. Ma dal premier italiano è giunto un secondo messaggio rassicurante, rivolto direttamente al nostro paese: nella nota lettera riservata inviata da Bush agli alleati per sondarne la disponibilità e il possibile contributo in vista di un eventuale intervento militare, per quanto riguarda l'Italia non vi è alcuna richiesta di uomini da impiegare in azioni di guerra. ''Voglio tranquillizzare tutti'', nella lettera ''non c'era la richiesta di uomini per un'azione armata...'', sono state le parole rassicuranti del presidente del Consiglio...
Nel corso del briefing con i giornalisti, Berlusconi ha spiegato quello che forse è stato un piccolo incidente diplomatico con il vicepremier Fini che, non aggiornato sugli sviluppi del vertice Nato relativi all' Iraq, è parso in alcune interviste piuttosto ''interventista''. Il premier ha detto che si sono spiegati e si e' addossato la colpa di questo difetto di comunicazione, causato dal dovere di riservatezza cui era stato chiamato"
(Ansa, 22 novembre 2002)
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STAMPA 22-3
Berlusconi commissaria i politici
Arriva il «tecnico a contratto»
di Filippo Ceccarelli
Ma non è strano, non è incredibile, non è a suo modo fantastico che il neo-assunto «manager organizzativo» di Forza Italia sia stato imposto e presentato a sorpresa da Berlusconi, l'altro giorno, ai coordinatori provinciali e regionali del partito come un «esperto di risorse umane»?
Ma gli altri, allora, i Bondi, i Cicchitto, i politici di professione, che cosa sarebbero? Esperti di risorse disumane?
Usigli ha oggi un contratto di sei mesi. Scade dopo le elezioni. E' per l'appunto «un tecnico a contratto»: esattamente ciò che Bettino Craxi disse qualche anno fa di Giuliano Amato, e non era certo un complimento. Bene, quel paradigma un po' sprezzante sta per diventare una funzione.
Non solo, ma il manager esterno contrattualizzato manda in pensione il vecchio responsabile organizzativo, che nei partiti della Prima Repubblica era un personaggio decisivo, depositario di un potere autonomo, quindi un uomo di assoluta fiducia, garante della continuità del gruppo, più che del capo.
E se è vero che Forza Italia nasce dieci anni orsono proprio grazie all'innesto delle gerarchie e delle professionalità della grande azienda berlusconiana sul corpo della politica, è pure vero che l'assunzione di Usigli, che non proviene né da Fininvest né da Mediaset né da Publitalia né da altra ditta berlusconiana, pone le premesse per il superamento anche del partito azienda. E nelle eterne logiche del potere si avvicina quanto più possibile, con tutto il rispetto, all'arruolamento mercenario.
Vedi gli scherzetti della politica (e della vita). Più l'arte del comando si allontana dalla democrazia, più si professionalizza, più si affida alla iper-tecnica, e più riemergono forme antiche, ombre di principato, proiezioni di dominio arcaico camuffato da efficiente modernità.
Tanto per cambiare, Machiavelli da laggiù se la ride. Per Gramsci e per Togliatti era infatti il Partito il «moderno Principe».
Ed ecco che con Berlusconi si torna al Principe-principe. Il compito che ha affidato all'avvocato Usigli non è facile. Ma la lettura del capitolo XII, che Ser Niccolò volle appunto dedicare alle milizie mercenarie, può rivelarsi per entrambi devastante, giacché «la ruina di Italia non è causata da altro che per essere riposatasi in su le arme mercenarie». Al Cavaliere si deve addirittura una prefazione de «Il Principe». La memoria selettiva è sempre un grande aiuto, però nuoce anche. Agli umani.
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CITAZIONE
''In Iraq deve andarci l'Onu. E in Italia deve andarsene Berlusconi''
Flavio Lotti, portavoce della Tavola della Pace (organizzazione che riunisce centinaia di associazioni ed enti locali) non vuole che della manifestazione di sabato ci si ricordi solo per l'incidente Fassino. E al centrosinistra dice: "noi lavoriamo per l'alternativa a Berlusconi".
(www.aprileonline.info, 22-3)
CARTA CANTA
di Marco Travaglio
Berlusconi pacifista
"La crisi irachena avrà sicuramente uno sbocco pacifico: per Silvio Berlusconi, non solo si allontana lo spettro di una guerra in Iraq, ma si fa sempre più concreta l'ipotesi di una soluzione nel segno della pace. E' una sensazione, di più, un convincimento che il premier ha consolidato nei due giorni del vertice Nato di Praga, nel corso del quale ha avuto occasione di approfondire proprio il caso Iraq con gli altri membri dell' Alleanza atlantica.
E ha ripetuto questa sua previsione ottimistica più volte nel corso della giornata, ogni qualvolta ha affrontato con i giornalisti l'argomento. Tra l'altro - è stato il suo ragionamento - è nello stesso interesse del rais di Baghdad adottare comportamenti consoni, anche perchè Saddam Hussein sa che per lui non ci saranno ''scappatoie ulteriori''. Dovrà dunque rispettare il dettato della risoluzione Onu e annientare l'arsenale di armi di distruzione di massa, cosa che, a giudizio di Berlusconi, Saddam ha avuto ''tutto il tempo di fare''.
Al di là delle previsioni improntate alla fiducia del presidente del Consiglio, resta sul tappeto dell' Alleanza atlantica il dilemma guerra si'-guerra no, in attesa dei prossimi sviluppi e del verdetto degli ispettori dell' Onu. Ma dal premier italiano è giunto un secondo messaggio rassicurante, rivolto direttamente al nostro paese: nella nota lettera riservata inviata da Bush agli alleati per sondarne la disponibilità e il possibile contributo in vista di un eventuale intervento militare, per quanto riguarda l'Italia non vi è alcuna richiesta di uomini da impiegare in azioni di guerra. ''Voglio tranquillizzare tutti'', nella lettera ''non c'era la richiesta di uomini per un'azione armata...'', sono state le parole rassicuranti del presidente del Consiglio...
Nel corso del briefing con i giornalisti, Berlusconi ha spiegato quello che forse è stato un piccolo incidente diplomatico con il vicepremier Fini che, non aggiornato sugli sviluppi del vertice Nato relativi all' Iraq, è parso in alcune interviste piuttosto ''interventista''. Il premier ha detto che si sono spiegati e si e' addossato la colpa di questo difetto di comunicazione, causato dal dovere di riservatezza cui era stato chiamato"
(Ansa, 22 novembre 2002)
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STAMPA 22-3
Berlusconi commissaria i politici
Arriva il «tecnico a contratto»
di Filippo Ceccarelli
Ma non è strano, non è incredibile, non è a suo modo fantastico che il neo-assunto «manager organizzativo» di Forza Italia sia stato imposto e presentato a sorpresa da Berlusconi, l'altro giorno, ai coordinatori provinciali e regionali del partito come un «esperto di risorse umane»?
Ma gli altri, allora, i Bondi, i Cicchitto, i politici di professione, che cosa sarebbero? Esperti di risorse disumane?
Usigli ha oggi un contratto di sei mesi. Scade dopo le elezioni. E' per l'appunto «un tecnico a contratto»: esattamente ciò che Bettino Craxi disse qualche anno fa di Giuliano Amato, e non era certo un complimento. Bene, quel paradigma un po' sprezzante sta per diventare una funzione.
Non solo, ma il manager esterno contrattualizzato manda in pensione il vecchio responsabile organizzativo, che nei partiti della Prima Repubblica era un personaggio decisivo, depositario di un potere autonomo, quindi un uomo di assoluta fiducia, garante della continuità del gruppo, più che del capo.
E se è vero che Forza Italia nasce dieci anni orsono proprio grazie all'innesto delle gerarchie e delle professionalità della grande azienda berlusconiana sul corpo della politica, è pure vero che l'assunzione di Usigli, che non proviene né da Fininvest né da Mediaset né da Publitalia né da altra ditta berlusconiana, pone le premesse per il superamento anche del partito azienda. E nelle eterne logiche del potere si avvicina quanto più possibile, con tutto il rispetto, all'arruolamento mercenario.
Vedi gli scherzetti della politica (e della vita). Più l'arte del comando si allontana dalla democrazia, più si professionalizza, più si affida alla iper-tecnica, e più riemergono forme antiche, ombre di principato, proiezioni di dominio arcaico camuffato da efficiente modernità.
Tanto per cambiare, Machiavelli da laggiù se la ride. Per Gramsci e per Togliatti era infatti il Partito il «moderno Principe».
Ed ecco che con Berlusconi si torna al Principe-principe. Il compito che ha affidato all'avvocato Usigli non è facile. Ma la lettura del capitolo XII, che Ser Niccolò volle appunto dedicare alle milizie mercenarie, può rivelarsi per entrambi devastante, giacché «la ruina di Italia non è causata da altro che per essere riposatasi in su le arme mercenarie». Al Cavaliere si deve addirittura una prefazione de «Il Principe». La memoria selettiva è sempre un grande aiuto, però nuoce anche. Agli umani.
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CITAZIONE
''In Iraq deve andarci l'Onu. E in Italia deve andarsene Berlusconi''
Flavio Lotti, portavoce della Tavola della Pace (organizzazione che riunisce centinaia di associazioni ed enti locali) non vuole che della manifestazione di sabato ci si ricordi solo per l'incidente Fassino. E al centrosinistra dice: "noi lavoriamo per l'alternativa a Berlusconi".
(www.aprileonline.info, 22-3)
MEDITAZIONE
MANIFESTO 21-3
La politica in piazza
VALENTINO PARLATO
La giornata di ieri, a Roma e in molte altre grandi città di questo nostro instabile mondo, è stata molto importante e non dà spazio a giudizi sommari, richiede riflessione. Esattamente un anno fa l'ondata pacifista, quella che fu definita la seconda superpotenza mondiale, fu sconfitta. Bush e Blair invasero l'Iraq, scavalcando i pacifisti; ma anche stati come la Francia, la Germania e la Russia. L'internazionale pacifista fu sconfitta e si disperse, quasi in catalessi.
La guerra cominciò, Saddam fu catturato, ma la guerra non finì in Iraq e diede motivazioni e vigore alla risposta terrorista, sanguinaria, ma fondamentalmente subalterna. Nella nostra storia d'Europa abbiamo avuto numerose ondate terroriste (il terrorismo non è un'esclusiva musulmana anche se questa volta qualcuno parla di «scontro di civiltà»), micidiali, ma tutte fallite.
Ieri il pacifismo sconfitto è tornato in campo e con grande forza, mettendo in evidenza che il pacifismo di oggi non è solo contro la guerra, ma anche e forse soprattutto, contro le radici politiche, sociali, economiche della guerra. Se la guerra preventiva è diventata la politica dei nostri tempi (e non solo la continuazione della politica) il pacifismo è la politica di questa fase di crisi dell'egemonia capitalistica. E proprio, o anche per questo, che la politica, in questa fase, non è più nelle sedi delegate, peraltro cadenti: che cosa contano oggi i partiti o anche i parlamenti?
La politica è fuori e tenta di ricostituirsi nei movimenti, quello per la pace innanzitutto, che ieri ha dimostrato di cominciare a essere una nuova cultura. Molto forte, ma solo un inizio, solo un valido tentativo di ricostruire, non solo in Italia, le basi di quei grandi confronti politici, sociali e culturali, che hanno segnato il mutamento delle condizioni del lavoro dopo la crisi del `29 e la seconda guerra mondiale.
È una grande sciocchezza affermare che questo movimento sia antiamericano o - come ha detto Fini sulla linea di destra avviata su Sofri - al servizio del prigioniero Saddam. Mi correggo, non è una sciocchezza è una forma del combattimento delle forze conservatrici, che - in fase di crisi - per conservarsi, come tante altre volte nel passato, debbono imboccare una linea reazionaria e demonizzante dell'avversario.
Per converso questo movimento costringe le sinistre italiane a rifare i loro conti. Il fatto che il segretario della Quercia abbia dovuto abbandonare il corteo, dopo aver voluto una fallita manifestazione miopemente pensata come bipartisan, non lo si può spiegare con le immancabili scontate accuse di squadrismo, sulle quali ora forse avrebbe anche il consenso di Fini.
La crisi è più profonda, bisogna rifare le analisi e i conti con i cambiamenti delle società occidentali e saper che quando il capitalismo ha difficoltà o crisi la sua risposta autoconservatrice non si lascia frenare dalle ordinarie regole della democrazia.
In ogni modo la giornata di ieri dimostra alla nostra parte, ma anche ai nostri avversari che questo mondo non è governabile con la politica della guerra preventiva del presidente degli Stati uniti George W. Bush, che ormai non è più tanto sicuro di rimanere alla Casa Bianca.
MANIFESTO 21-3
La politica in piazza
VALENTINO PARLATO
La giornata di ieri, a Roma e in molte altre grandi città di questo nostro instabile mondo, è stata molto importante e non dà spazio a giudizi sommari, richiede riflessione. Esattamente un anno fa l'ondata pacifista, quella che fu definita la seconda superpotenza mondiale, fu sconfitta. Bush e Blair invasero l'Iraq, scavalcando i pacifisti; ma anche stati come la Francia, la Germania e la Russia. L'internazionale pacifista fu sconfitta e si disperse, quasi in catalessi.
La guerra cominciò, Saddam fu catturato, ma la guerra non finì in Iraq e diede motivazioni e vigore alla risposta terrorista, sanguinaria, ma fondamentalmente subalterna. Nella nostra storia d'Europa abbiamo avuto numerose ondate terroriste (il terrorismo non è un'esclusiva musulmana anche se questa volta qualcuno parla di «scontro di civiltà»), micidiali, ma tutte fallite.
Ieri il pacifismo sconfitto è tornato in campo e con grande forza, mettendo in evidenza che il pacifismo di oggi non è solo contro la guerra, ma anche e forse soprattutto, contro le radici politiche, sociali, economiche della guerra. Se la guerra preventiva è diventata la politica dei nostri tempi (e non solo la continuazione della politica) il pacifismo è la politica di questa fase di crisi dell'egemonia capitalistica. E proprio, o anche per questo, che la politica, in questa fase, non è più nelle sedi delegate, peraltro cadenti: che cosa contano oggi i partiti o anche i parlamenti?
La politica è fuori e tenta di ricostituirsi nei movimenti, quello per la pace innanzitutto, che ieri ha dimostrato di cominciare a essere una nuova cultura. Molto forte, ma solo un inizio, solo un valido tentativo di ricostruire, non solo in Italia, le basi di quei grandi confronti politici, sociali e culturali, che hanno segnato il mutamento delle condizioni del lavoro dopo la crisi del `29 e la seconda guerra mondiale.
È una grande sciocchezza affermare che questo movimento sia antiamericano o - come ha detto Fini sulla linea di destra avviata su Sofri - al servizio del prigioniero Saddam. Mi correggo, non è una sciocchezza è una forma del combattimento delle forze conservatrici, che - in fase di crisi - per conservarsi, come tante altre volte nel passato, debbono imboccare una linea reazionaria e demonizzante dell'avversario.
Per converso questo movimento costringe le sinistre italiane a rifare i loro conti. Il fatto che il segretario della Quercia abbia dovuto abbandonare il corteo, dopo aver voluto una fallita manifestazione miopemente pensata come bipartisan, non lo si può spiegare con le immancabili scontate accuse di squadrismo, sulle quali ora forse avrebbe anche il consenso di Fini.
La crisi è più profonda, bisogna rifare le analisi e i conti con i cambiamenti delle società occidentali e saper che quando il capitalismo ha difficoltà o crisi la sua risposta autoconservatrice non si lascia frenare dalle ordinarie regole della democrazia.
In ogni modo la giornata di ieri dimostra alla nostra parte, ma anche ai nostri avversari che questo mondo non è governabile con la politica della guerra preventiva del presidente degli Stati uniti George W. Bush, che ormai non è più tanto sicuro di rimanere alla Casa Bianca.
MEDITAZIONE
REPUBBLICA on-line 21-3
Il popolo della pace può vincere la guerra
di EUGENIO SCALFARI
CI SONO varie e non trascurabili novità in questi cortei pacifisti che ieri si sono svolti in molte città e in particolare nei Paesi dell'Occidente europeo e negli Stati Uniti.
La prima novità è che a indirli sono stati i pacifisti americani, segno che l'altra America si è svegliata e sta prendendo coscienza di quanto è avvenuto durante il suo lungo sonno.
La seconda novità la leggiamo sul grande striscione che ha aperto il corteo di Roma e gli ha fornito il titolo: "Contro la guerra e contro il terrorismo".
Finora il nemico della pace era la guerra, ora sono due, due aspetti della violenza, due modalità portatrici di morte alle quali si contrappone la pace portatrice di vita.
La terza novità deriva direttamente dall'evento verificatosi in Spagna nei tre giorni tra l'11 e il 13 marzo, un evento che incombe e segna come un sigillo queste manifestazioni pacifiste, tant'è che lo striscione di testa del corteo era scritto in lingua spagnola: l'11 marzo l'attentato ai treni di Madrid, il 12 milioni e milioni di persone silenziose e dolenti nelle strade e nelle piazze di Spagna mobilitate contro il terrorismo della morte, il 13 il voto con il quale gli elettori spagnoli hanno rovesciato il governo della guerra e dato la vittoria politica ad un governo della pace. Sembra un paradosso invece non lo è affatto: segna il passaggio dell'utopia pacifista alla politica della pace, dal movimentismo che coinvolge la coscienza emozionale al progetto della coscienza responsabile che si confronta con la realtà dei fatti.
Queste tre novità sono di grande importanza e confermano quanto già da tempo gli osservatori più avvertiti avevano preconizzato e cioè che il movimento pacifista si avviava a diventare una forza politica al di là della sua originaria natura di presenza puramente testimoniale percorsa anche da venature ribellistiche. Non è un caso che quest'evoluzione coincida con il primo atto di terrorismo globale perpetrato contro l'Europa.
Finora l'Europa aveva discettato sul terrorismo. ma l'11 marzo l'Europa è diventata anch'essa oggetto e teatro del terrorismo globale.
Poteva (potrebbe) restare in questa condizione di oggetto passivo, di ventre molle dell'Occidente come continuano a definirlo i corifei d'una muscolarità che contrappone la morte alla morte, la violenza alla violenza, la barbarie alla barbarie, subendo e alimentando in un circuito perverso questa inutile cultura del terrore. Invece sembra sia accaduto il contrario. Trascinata suo malgrado sulla prima linea del fuoco, l'oggetto Europa si è di colpo trasformato in soggetto attivo. Unifica terrorismo e guerra in un'unica condanna di massa, oppone alla violenza del fanatismo e alla violenza degli apparati militaristici il progetto politico di disinnescare i detonatori in ogni luogo si manifestino e quale che sia il colore della bandiera con cui si mascherano.
Ho scritto appena una settimana fa che personalmente non sono un pacifista ideologico e tantomeno un utopista, non porgo l'altra guancia per prendermi il secondo schiaffo. Ma sono persuaso che non si costruisce la pace attraverso la guerra. Al terrorismo ci si deve opporre con assoluta fermezza, con il rifiuto di qualunque dialogo e di qualunque concessione. Ci si deve opporre prosciugando attorno ad esso l'acqua dell'omertà e del passivo consenso, dietro al quale il terrorismo si nasconde e di cui si nutre. Ci si oppone con soluzioni politiche, promuovendo la cultura dei diritti umani e le istituzioni capaci di dar voce e rappresentanza a quei diritti. Ci si oppone recuperando sicurezza sociale e sviluppo economico.
Questo progetto non è compatibile con politiche di guerra e di occupazione. Esse, come era prevedibile e previsto, sono fallite. Ora occorre marcare una discontinuità, occorre un approccio nuovo e credibile.
I Paesi dell'Occidente non debbono ritirarsi dai luoghi dove quei diritti sono conculcati; al contrario debbono andarci. Andarci con insegnanti, imprenditori, medici, tecnici, aiutando con tutti i mezzi e i modi possibili le iniziative locali, favorendo contatti, incontri, lavoro, libertà.
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STAMPA 21-3
Quel che fa vincere Al Qaeda
di Barbara Spinelli
TROPPO presto, forse, è stato detto che il terrorismo islamico è stato il vero e unico vincitore delle elezioni spagnole. Si è parlato forse troppo presto di pacificazione col nemico, di cedimenti al terrore, di una riedizione del patto con Hitler firmato nel '38 a Monaco dalle democrazie.
Ma gli eventi che viviamo e soffriamo possiamo anche guardarli da un altro punto di vista: il nostro punto di vista, che è quello delle democrazie.
A intervalli regolari, la popolazione è chiamata alle urne e decide se la politica fin qui seguita ha dato risultati buoni o cattivi, se i governanti si sono comportati bene o se è venuto il momento di mandarli a casa.
Finché può scegliere fra linee diverse, il concetto stesso di politica è salvaguardato e la democrazia ne trae giovamento.
L’elettorato spagnolo ha fatto precisamente questo, domenica 14 marzo. Ha giudicato fallimentare la lotta fin qui condotta da Aznar contro il terrorismo. Ha messo in questione una maniera di far politica che ignorava sistematicamente il parere della popolazione, che isolava la Spagna da una serie di organi multinazionali (Unione europea, Nazioni Unite), che si fondava su un patto bilaterale con Washington destinato a prevalere su tutte le altre alleanze.
La politica di stile franchista ha protetto il paese dalla seconda guerra mondiale ma non lo protegge oggi da Al Qaeda: questo hanno detto gli elettori, licenziando Aznar e chiedendo che un'altra politica sia tentata, per evitare le stragi che da anni colpiscono le popolazioni civili in America, Europa, Asia, Africa. Un'altra politica vuol dire riesaminare quel che è stato fatto finora (la guerra incompiuta in Afghanistan, la guerra in Iraq), e vedere se il terrorismo ne è uscito menomato o no. Un'altra politica vuol dire imboccare strade nuove che siano politicamente gestite dall'Onu, e non coinvolgano solo l'asse - ormai perdente - formatosi attorno a Bush. È la linea del socialismo spagnolo, che col terrorismo non è mai stato morbido. Un'altra politica vuol dire che alti prezzi saranno pagati dalle democrazie, ma tra questi prezzi non deve esservi l'abolizione del pluralismo, dell'alternanza, della politica stessa.
Questo è infatti urgente capire: che la guerra contro il terrorismo si tratta di vincerla davvero, sforzandosi di neutralizzarlo e di impedire che esso recluti simpatizzanti tra i musulmani che vivono nelle nostre città. Si tratta di non usare il terrorismo per politiche che con il terrorismo hanno poco o nulla a che vedere. Si tratta di non adoperare la cultura di morte e gli spot pubblicitari sull'11 settembre per vincere un'elezione, come fa Bush, o per conquistare spazi strategicamente vitali nel mondo. Riconquistare culturalmente e politicamente un quartiere d'immigrati maghrebini come Lavapiés a Madrid, riconquistare il favore del maggior numero di arabi moderati nel mondo: ecco compiti non meno importanti e forse più importanti, oggi, delle guerre mondiali condotte contro un nemico che non è identificabile né con Hitler né con la Germania nazista. È un nemico meno individuabile, più sfuggente. È un nemico con cui non potremo stipulare trattati di resa. Madrid 2004 non è Monaco ’38 per il semplice fatto che non si tratta di evitare una guerra, e che non basta abbattere Bin Laden o Saddam. Nella guerra siamo già immersi fin dall’11 settembre 2001, e non è a Madrid che i terroristi hanno ottenuto la più grande di quelle che considerano loro vittorie.
Le più grandi vittorie, finora, sono state ottenute da Al Qaeda su due fronti: sul fronte della guerra in Iraq innanzitutto, e anche sul fronte del pacifismo integrale. La guerra di Bush fu decisa unilateralmente, mortificando organismi multilaterali come l'Onu, la Nato, l'Unione europea: già questo fu un trionfo, dal punto di vista di Al Qaeda. In poco tempo, si sfaldò l'alleanza mondiale creatasi dopo l'allentato alle Torri e l'Europa stessa si sgretolò, su iniziativa di Aznar, Blair, Berlusconi. Fu inoltre un’offensiva che Bush descrisse come antiterrorista, e proprio questo voleva Al Qaeda: una guerra che trasformasse i terroristi in belligeranti, con cui alla fine si stringono trattati di pace. Al Qaeda oggi è insediata nel cuore d'un paese che fino a ieri le era inaccessibile, come l’Iraq, e lo ha tramutato in un indomabile Afghanistan.
Una politica che fronteggi il terrorismo dovrà per forza partire dagli scacchi che essa ha subito, se vuol evitare la stoltezza di chi s’ostina nell’errore. La guerra antiterrorista di Sharon è fallita in Israele, e Sharon non avrebbe annunciato il ritiro da Gaza se non lo sapesse. La guerra di Bush in Iraq ha tolto risorse dalla battaglia contro i talebani in Afghanistan ed ha accresciuto l’odio terrorista nel mondo, anche se ha aiutato gli iracheni a liberarsi di una dittatura. Ora si tratta di ricominciare a pensare, a ragionare, imparando dagli sbagli e lavorando veramente a quell’integrazione europea che Zapatero dice di voler suscitare. Non si tratta di sostituire le guerre con la mera cooperazione tra polizie e servizi, ma non si tratta neppure di far guerre con l’illusione di «metter fine al male», come promesso nell’ultimo libro dei neoconservatori Richard Perle e David Frum. Oggi, probabilmente, la guerra in Iraq bisogna portarla a termine: perché questo paese è diventato - con il contributo delle democrazie belligeranti - una base terroristica letale. Ma l’Europa nata l’11 marzo ha ben più complicati compiti davanti a sé: ha una politica autonoma da mettere in piedi, di carattere difensivo e diplomatico. Ha un progetto di pace medio-orientale, da escogitare. Ha una comune costituzione da approvare, che diventi un magnete per le tante etnie installate nell'Unione e che sia fedele alla memoria storica dei singoli paesi. E ha un immenso lavoro da svolgere, per riconquistare le menti dei 20 milioni di musulmani che abitano i quartieri delle nostre città e prosciugare gli stagni europei in cui nuotano i professionisti del terrore di massa.
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L’UNITA’ on-line 21-3
BANNER
«La guerra allontana i moderati e incoraggia i fanatici».
Jan Buruma, The New York Times, 18 marzo
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Pietà per l'Irak
di Bruno Ugolini
Non sembra di vivere a Roma, in Italia. Sembra di vivere in un paesetto di provincia, nel Varesotto o nell’Ennese. E’ la semplice sensazione che proviamo guardando la televisione sul secondo canale, nel pomeriggio del sabato dedicato alla pace, e ascoltando le parole del giornalista Carlo Panella da non confondere col vero Pannella (con due enne).
Sul teleschermo rimbalzano immagini con le folle multicolori. Non fanno vedere solo le vie stracariche di Roma, ma anche quelle di Berlino, di Londra, di Madrid, di Seul, di Tokio, di New York. Non siamo in provincia, siamo nel mondo. E lui con acceso livore, incurante delle interruzioni di Sandro Curzi e Peppino Caldarola, con l’aria, appunto, del saputello un po’ provinciale, si scaglia contro quelle folle, considerandole un tutto unico. Come se non ci fosse alcuna differenza tra i seguaci di Casarini e i seguaci di papa Wojtyla. O tra chi chiede il ritiro subito o chi, come Zapatero in Spagna, chiede il ritiro a giugno.
Per il nostro Panella trattasi solo di mandrie umane in preda ad isterie antiamericane (anche quelli che manifestano a New York). Soprattutto per lui sono tutti esponenti della grassa e opulenta borghesia occidentale (anche i coreani) che se ne frega degli irakeni, persegue la pace per le proprie pance e basta.
Come se le popolazioni irakene fossero oggi in preda ad una paradisiaca felicità e non fossero bombardate ogni giorno da attentati, esplosioni, aggressioni, incidenti. La carneficina continua, quasi che la guerra non fosse finita e Saddam non fosse stato fatto prigioniero. E’ possibile ipotizzare che magari una presenza dei caschi bianchi, invece che dei “marines” Usa, rappresenterebbe un formidabile ausilio alla pace vera? Con meno rischi per tutti. Certo Bush ha promesso che lo farà. Ma se almeno anche Panella (e quelli che stanno con lui) gli tirassero la giacca? Magari, certo, per non perdere voti alle prossime elezioni. E magari per un po' di pietà, davvero, per l'Irak.
REPUBBLICA on-line 21-3
Il popolo della pace può vincere la guerra
di EUGENIO SCALFARI
CI SONO varie e non trascurabili novità in questi cortei pacifisti che ieri si sono svolti in molte città e in particolare nei Paesi dell'Occidente europeo e negli Stati Uniti.
La prima novità è che a indirli sono stati i pacifisti americani, segno che l'altra America si è svegliata e sta prendendo coscienza di quanto è avvenuto durante il suo lungo sonno.
La seconda novità la leggiamo sul grande striscione che ha aperto il corteo di Roma e gli ha fornito il titolo: "Contro la guerra e contro il terrorismo".
Finora il nemico della pace era la guerra, ora sono due, due aspetti della violenza, due modalità portatrici di morte alle quali si contrappone la pace portatrice di vita.
La terza novità deriva direttamente dall'evento verificatosi in Spagna nei tre giorni tra l'11 e il 13 marzo, un evento che incombe e segna come un sigillo queste manifestazioni pacifiste, tant'è che lo striscione di testa del corteo era scritto in lingua spagnola: l'11 marzo l'attentato ai treni di Madrid, il 12 milioni e milioni di persone silenziose e dolenti nelle strade e nelle piazze di Spagna mobilitate contro il terrorismo della morte, il 13 il voto con il quale gli elettori spagnoli hanno rovesciato il governo della guerra e dato la vittoria politica ad un governo della pace. Sembra un paradosso invece non lo è affatto: segna il passaggio dell'utopia pacifista alla politica della pace, dal movimentismo che coinvolge la coscienza emozionale al progetto della coscienza responsabile che si confronta con la realtà dei fatti.
Queste tre novità sono di grande importanza e confermano quanto già da tempo gli osservatori più avvertiti avevano preconizzato e cioè che il movimento pacifista si avviava a diventare una forza politica al di là della sua originaria natura di presenza puramente testimoniale percorsa anche da venature ribellistiche. Non è un caso che quest'evoluzione coincida con il primo atto di terrorismo globale perpetrato contro l'Europa.
Finora l'Europa aveva discettato sul terrorismo. ma l'11 marzo l'Europa è diventata anch'essa oggetto e teatro del terrorismo globale.
Poteva (potrebbe) restare in questa condizione di oggetto passivo, di ventre molle dell'Occidente come continuano a definirlo i corifei d'una muscolarità che contrappone la morte alla morte, la violenza alla violenza, la barbarie alla barbarie, subendo e alimentando in un circuito perverso questa inutile cultura del terrore. Invece sembra sia accaduto il contrario. Trascinata suo malgrado sulla prima linea del fuoco, l'oggetto Europa si è di colpo trasformato in soggetto attivo. Unifica terrorismo e guerra in un'unica condanna di massa, oppone alla violenza del fanatismo e alla violenza degli apparati militaristici il progetto politico di disinnescare i detonatori in ogni luogo si manifestino e quale che sia il colore della bandiera con cui si mascherano.
Ho scritto appena una settimana fa che personalmente non sono un pacifista ideologico e tantomeno un utopista, non porgo l'altra guancia per prendermi il secondo schiaffo. Ma sono persuaso che non si costruisce la pace attraverso la guerra. Al terrorismo ci si deve opporre con assoluta fermezza, con il rifiuto di qualunque dialogo e di qualunque concessione. Ci si deve opporre prosciugando attorno ad esso l'acqua dell'omertà e del passivo consenso, dietro al quale il terrorismo si nasconde e di cui si nutre. Ci si oppone con soluzioni politiche, promuovendo la cultura dei diritti umani e le istituzioni capaci di dar voce e rappresentanza a quei diritti. Ci si oppone recuperando sicurezza sociale e sviluppo economico.
Questo progetto non è compatibile con politiche di guerra e di occupazione. Esse, come era prevedibile e previsto, sono fallite. Ora occorre marcare una discontinuità, occorre un approccio nuovo e credibile.
I Paesi dell'Occidente non debbono ritirarsi dai luoghi dove quei diritti sono conculcati; al contrario debbono andarci. Andarci con insegnanti, imprenditori, medici, tecnici, aiutando con tutti i mezzi e i modi possibili le iniziative locali, favorendo contatti, incontri, lavoro, libertà.
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STAMPA 21-3
Quel che fa vincere Al Qaeda
di Barbara Spinelli
TROPPO presto, forse, è stato detto che il terrorismo islamico è stato il vero e unico vincitore delle elezioni spagnole. Si è parlato forse troppo presto di pacificazione col nemico, di cedimenti al terrore, di una riedizione del patto con Hitler firmato nel '38 a Monaco dalle democrazie.
Ma gli eventi che viviamo e soffriamo possiamo anche guardarli da un altro punto di vista: il nostro punto di vista, che è quello delle democrazie.
A intervalli regolari, la popolazione è chiamata alle urne e decide se la politica fin qui seguita ha dato risultati buoni o cattivi, se i governanti si sono comportati bene o se è venuto il momento di mandarli a casa.
Finché può scegliere fra linee diverse, il concetto stesso di politica è salvaguardato e la democrazia ne trae giovamento.
L’elettorato spagnolo ha fatto precisamente questo, domenica 14 marzo. Ha giudicato fallimentare la lotta fin qui condotta da Aznar contro il terrorismo. Ha messo in questione una maniera di far politica che ignorava sistematicamente il parere della popolazione, che isolava la Spagna da una serie di organi multinazionali (Unione europea, Nazioni Unite), che si fondava su un patto bilaterale con Washington destinato a prevalere su tutte le altre alleanze.
La politica di stile franchista ha protetto il paese dalla seconda guerra mondiale ma non lo protegge oggi da Al Qaeda: questo hanno detto gli elettori, licenziando Aznar e chiedendo che un'altra politica sia tentata, per evitare le stragi che da anni colpiscono le popolazioni civili in America, Europa, Asia, Africa. Un'altra politica vuol dire riesaminare quel che è stato fatto finora (la guerra incompiuta in Afghanistan, la guerra in Iraq), e vedere se il terrorismo ne è uscito menomato o no. Un'altra politica vuol dire imboccare strade nuove che siano politicamente gestite dall'Onu, e non coinvolgano solo l'asse - ormai perdente - formatosi attorno a Bush. È la linea del socialismo spagnolo, che col terrorismo non è mai stato morbido. Un'altra politica vuol dire che alti prezzi saranno pagati dalle democrazie, ma tra questi prezzi non deve esservi l'abolizione del pluralismo, dell'alternanza, della politica stessa.
Questo è infatti urgente capire: che la guerra contro il terrorismo si tratta di vincerla davvero, sforzandosi di neutralizzarlo e di impedire che esso recluti simpatizzanti tra i musulmani che vivono nelle nostre città. Si tratta di non usare il terrorismo per politiche che con il terrorismo hanno poco o nulla a che vedere. Si tratta di non adoperare la cultura di morte e gli spot pubblicitari sull'11 settembre per vincere un'elezione, come fa Bush, o per conquistare spazi strategicamente vitali nel mondo. Riconquistare culturalmente e politicamente un quartiere d'immigrati maghrebini come Lavapiés a Madrid, riconquistare il favore del maggior numero di arabi moderati nel mondo: ecco compiti non meno importanti e forse più importanti, oggi, delle guerre mondiali condotte contro un nemico che non è identificabile né con Hitler né con la Germania nazista. È un nemico meno individuabile, più sfuggente. È un nemico con cui non potremo stipulare trattati di resa. Madrid 2004 non è Monaco ’38 per il semplice fatto che non si tratta di evitare una guerra, e che non basta abbattere Bin Laden o Saddam. Nella guerra siamo già immersi fin dall’11 settembre 2001, e non è a Madrid che i terroristi hanno ottenuto la più grande di quelle che considerano loro vittorie.
Le più grandi vittorie, finora, sono state ottenute da Al Qaeda su due fronti: sul fronte della guerra in Iraq innanzitutto, e anche sul fronte del pacifismo integrale. La guerra di Bush fu decisa unilateralmente, mortificando organismi multilaterali come l'Onu, la Nato, l'Unione europea: già questo fu un trionfo, dal punto di vista di Al Qaeda. In poco tempo, si sfaldò l'alleanza mondiale creatasi dopo l'allentato alle Torri e l'Europa stessa si sgretolò, su iniziativa di Aznar, Blair, Berlusconi. Fu inoltre un’offensiva che Bush descrisse come antiterrorista, e proprio questo voleva Al Qaeda: una guerra che trasformasse i terroristi in belligeranti, con cui alla fine si stringono trattati di pace. Al Qaeda oggi è insediata nel cuore d'un paese che fino a ieri le era inaccessibile, come l’Iraq, e lo ha tramutato in un indomabile Afghanistan.
Una politica che fronteggi il terrorismo dovrà per forza partire dagli scacchi che essa ha subito, se vuol evitare la stoltezza di chi s’ostina nell’errore. La guerra antiterrorista di Sharon è fallita in Israele, e Sharon non avrebbe annunciato il ritiro da Gaza se non lo sapesse. La guerra di Bush in Iraq ha tolto risorse dalla battaglia contro i talebani in Afghanistan ed ha accresciuto l’odio terrorista nel mondo, anche se ha aiutato gli iracheni a liberarsi di una dittatura. Ora si tratta di ricominciare a pensare, a ragionare, imparando dagli sbagli e lavorando veramente a quell’integrazione europea che Zapatero dice di voler suscitare. Non si tratta di sostituire le guerre con la mera cooperazione tra polizie e servizi, ma non si tratta neppure di far guerre con l’illusione di «metter fine al male», come promesso nell’ultimo libro dei neoconservatori Richard Perle e David Frum. Oggi, probabilmente, la guerra in Iraq bisogna portarla a termine: perché questo paese è diventato - con il contributo delle democrazie belligeranti - una base terroristica letale. Ma l’Europa nata l’11 marzo ha ben più complicati compiti davanti a sé: ha una politica autonoma da mettere in piedi, di carattere difensivo e diplomatico. Ha un progetto di pace medio-orientale, da escogitare. Ha una comune costituzione da approvare, che diventi un magnete per le tante etnie installate nell'Unione e che sia fedele alla memoria storica dei singoli paesi. E ha un immenso lavoro da svolgere, per riconquistare le menti dei 20 milioni di musulmani che abitano i quartieri delle nostre città e prosciugare gli stagni europei in cui nuotano i professionisti del terrore di massa.
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L’UNITA’ on-line 21-3
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«La guerra allontana i moderati e incoraggia i fanatici».
Jan Buruma, The New York Times, 18 marzo
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Pietà per l'Irak
di Bruno Ugolini
Non sembra di vivere a Roma, in Italia. Sembra di vivere in un paesetto di provincia, nel Varesotto o nell’Ennese. E’ la semplice sensazione che proviamo guardando la televisione sul secondo canale, nel pomeriggio del sabato dedicato alla pace, e ascoltando le parole del giornalista Carlo Panella da non confondere col vero Pannella (con due enne).
Sul teleschermo rimbalzano immagini con le folle multicolori. Non fanno vedere solo le vie stracariche di Roma, ma anche quelle di Berlino, di Londra, di Madrid, di Seul, di Tokio, di New York. Non siamo in provincia, siamo nel mondo. E lui con acceso livore, incurante delle interruzioni di Sandro Curzi e Peppino Caldarola, con l’aria, appunto, del saputello un po’ provinciale, si scaglia contro quelle folle, considerandole un tutto unico. Come se non ci fosse alcuna differenza tra i seguaci di Casarini e i seguaci di papa Wojtyla. O tra chi chiede il ritiro subito o chi, come Zapatero in Spagna, chiede il ritiro a giugno.
Per il nostro Panella trattasi solo di mandrie umane in preda ad isterie antiamericane (anche quelli che manifestano a New York). Soprattutto per lui sono tutti esponenti della grassa e opulenta borghesia occidentale (anche i coreani) che se ne frega degli irakeni, persegue la pace per le proprie pance e basta.
Come se le popolazioni irakene fossero oggi in preda ad una paradisiaca felicità e non fossero bombardate ogni giorno da attentati, esplosioni, aggressioni, incidenti. La carneficina continua, quasi che la guerra non fosse finita e Saddam non fosse stato fatto prigioniero. E’ possibile ipotizzare che magari una presenza dei caschi bianchi, invece che dei “marines” Usa, rappresenterebbe un formidabile ausilio alla pace vera? Con meno rischi per tutti. Certo Bush ha promesso che lo farà. Ma se almeno anche Panella (e quelli che stanno con lui) gli tirassero la giacca? Magari, certo, per non perdere voti alle prossime elezioni. E magari per un po' di pietà, davvero, per l'Irak.
L’UNITA’ on-line 20-3
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Il generale Berlusconi comunica: «Se si vuole avere uno Stato che funzioni dobbiamo cambiare le vecchie regole. Non è piacevole passare la giornata in Parlamento a votare. Io ho già delle idee per cambiare i regolamenti parlamentari. La democrazia si può esprimere anche con altri sistemi, magari scandalosi. Ma occorre guardare avanti».
Silvio Berlusconi, Ansa, 19 marzo
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MANIFESTO 20-3
Camere, il premier dà scandalo
«Si perde tempo. Ho idee scandalose per cambiare i regolamenti»
L'opposizione: «Il sogno di Berlusconi è abolire il parlamento» - «Ha la mentalità del dittatore»
MICAELA BONGI
ROMA - Il suo fastidio nei confronti del parlamento, considerato per lo più un ostacolo sul cammino del governo, il premier lo ha sempre dimostrato. In particolare quando in gioco sono stati i suoi interessi, come il decreto salva Retequattro passato a colpi di fiducia. Ma ecco che Silvio Berlusconi, parlando del decreto sulla sanità bocciato martedì alla camera per le assenze tra i banchi della sua Casa, vuole stupire ancora di più: «Non è piacevole passare la giornata in parlamento a schiacciare un bottone», è la premessa. Del resto questo concetto il Cavaliere lo ha ribadito più volte. E già in passato aveva parlato di procedure da «snellire». Ora fa sapere di avere, al riguardo, «delle idee». Perché i parlamentari «hanno l'impressione di stare lì a perdere tempo», insiste il presidente del consiglio. Mentre «la democrazia si può esprimere anche attraverso altri sistemi di partecipazione al voto... magari scandalosi per chi non riesce a guardare avanti ma ha sempre la testa rivolta indietro». La sua idea Berlusconi non la dice. Forse pensa al modello francese: a votare sono i capigruppo. In ogni caso lo scandalo riesce a provocarlo lo stesso. L'opposizione, in coro, dietro le parole del premier legge così il suo vero sogno: abolire il fastidioso parlamento. «Berlusconi ha una mentalità dittatoriale», è la conclusione di Lamberto Dini. Il Pdci, con Sgobio, presenta un interrogazione parlamentare urgente; Marco Nesci, responsabile riforme di Rifondazione, invita alla mobilitazione nel parlamento e nel paese contro gli attacchi alla democrazia. E il capogruppo della Quercia al senato, Gavino Angius, suggerisce al Cavaliere a rileggersi la Costituzione ma chiede anche che i presidenti delle camere dicano la loro. Se Marcello Pera tace, Pierferdinando Casini, che nel pomeriggio va a fare visita a Berlusconi a palazzo Grazioli, non sembra rapito dall'idea «scandalosa» con cui il premier d'un sol colpo vorrebbe risolvere i problemi della noia dei parlamentari, della lentezza, delle assenze e delle imboscate che hanno colpito pure la sua Gasparri. Uscendo dall'incontro, il presidente della camera giura che di regolamenti parlamentari non si è parlato, ma comunque dice la sua: «Credo che i regolamenti parlamentari non siano il vangelo, possono essere cambiati anche se, in questo momento, questa non mi sembra la priorità: il parlamento ha funzionato e funziona bene», rivendica l'inquilino di Montecitorio. Che aggiunge: «A volte ci sono degli intoppi che però, tante volte, derivano anche dal fatto che i provvedimenti sono di difficile concertazione tra i vari ministeri».
Insieme ai forzisti, che ingaggiano il quotidiano match con l'opposizione che vuole solo togliere la libertà di parola al premier e ricordano la modifica del regolamento della camera introdotta da Luciano Violante. E a schierarsi prontamente con Berlusconi è anche la Lega, con Roberto Calderoli: «Chiunque sia dotato di un minimo di buon senso sa che i regolamenti delle camere sono più adatti allo Statuto albertino che alle attuali esigenze».
Quali siano sempre state le esigenze del premier lo chiarisce il forzista Francesco Giro, che ricorda le parole pronunciate da Berlusconi nel suo «solenne appello che bisognerebbe inviare a tutte le famiglie italiane» pronunciato il 2 agosto del 1995 in un «celebre discorso alla camera»: «La lentezza, la macchinosità del procedimento legislativo, la dispersione delle attività delle camere in una miriade di piccole misure e provvedimenti minimi, che servono a questa o quella clientela, hanno portato alla legificazione di ogni settore dell'ordinamento, che impedisce a qualsiasi governo, anche se animato da buone intenzioni, di farsi protagonista dell'attività riformatrice». Largo al governo, il parlamento ratifichi e basta.
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Il generale Berlusconi comunica: «Se si vuole avere uno Stato che funzioni dobbiamo cambiare le vecchie regole. Non è piacevole passare la giornata in Parlamento a votare. Io ho già delle idee per cambiare i regolamenti parlamentari. La democrazia si può esprimere anche con altri sistemi, magari scandalosi. Ma occorre guardare avanti».
Silvio Berlusconi, Ansa, 19 marzo
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MANIFESTO 20-3
Camere, il premier dà scandalo
«Si perde tempo. Ho idee scandalose per cambiare i regolamenti»
L'opposizione: «Il sogno di Berlusconi è abolire il parlamento» - «Ha la mentalità del dittatore»
MICAELA BONGI
ROMA - Il suo fastidio nei confronti del parlamento, considerato per lo più un ostacolo sul cammino del governo, il premier lo ha sempre dimostrato. In particolare quando in gioco sono stati i suoi interessi, come il decreto salva Retequattro passato a colpi di fiducia. Ma ecco che Silvio Berlusconi, parlando del decreto sulla sanità bocciato martedì alla camera per le assenze tra i banchi della sua Casa, vuole stupire ancora di più: «Non è piacevole passare la giornata in parlamento a schiacciare un bottone», è la premessa. Del resto questo concetto il Cavaliere lo ha ribadito più volte. E già in passato aveva parlato di procedure da «snellire». Ora fa sapere di avere, al riguardo, «delle idee». Perché i parlamentari «hanno l'impressione di stare lì a perdere tempo», insiste il presidente del consiglio. Mentre «la democrazia si può esprimere anche attraverso altri sistemi di partecipazione al voto... magari scandalosi per chi non riesce a guardare avanti ma ha sempre la testa rivolta indietro». La sua idea Berlusconi non la dice. Forse pensa al modello francese: a votare sono i capigruppo. In ogni caso lo scandalo riesce a provocarlo lo stesso. L'opposizione, in coro, dietro le parole del premier legge così il suo vero sogno: abolire il fastidioso parlamento. «Berlusconi ha una mentalità dittatoriale», è la conclusione di Lamberto Dini. Il Pdci, con Sgobio, presenta un interrogazione parlamentare urgente; Marco Nesci, responsabile riforme di Rifondazione, invita alla mobilitazione nel parlamento e nel paese contro gli attacchi alla democrazia. E il capogruppo della Quercia al senato, Gavino Angius, suggerisce al Cavaliere a rileggersi la Costituzione ma chiede anche che i presidenti delle camere dicano la loro. Se Marcello Pera tace, Pierferdinando Casini, che nel pomeriggio va a fare visita a Berlusconi a palazzo Grazioli, non sembra rapito dall'idea «scandalosa» con cui il premier d'un sol colpo vorrebbe risolvere i problemi della noia dei parlamentari, della lentezza, delle assenze e delle imboscate che hanno colpito pure la sua Gasparri. Uscendo dall'incontro, il presidente della camera giura che di regolamenti parlamentari non si è parlato, ma comunque dice la sua: «Credo che i regolamenti parlamentari non siano il vangelo, possono essere cambiati anche se, in questo momento, questa non mi sembra la priorità: il parlamento ha funzionato e funziona bene», rivendica l'inquilino di Montecitorio. Che aggiunge: «A volte ci sono degli intoppi che però, tante volte, derivano anche dal fatto che i provvedimenti sono di difficile concertazione tra i vari ministeri».
Insieme ai forzisti, che ingaggiano il quotidiano match con l'opposizione che vuole solo togliere la libertà di parola al premier e ricordano la modifica del regolamento della camera introdotta da Luciano Violante. E a schierarsi prontamente con Berlusconi è anche la Lega, con Roberto Calderoli: «Chiunque sia dotato di un minimo di buon senso sa che i regolamenti delle camere sono più adatti allo Statuto albertino che alle attuali esigenze».
Quali siano sempre state le esigenze del premier lo chiarisce il forzista Francesco Giro, che ricorda le parole pronunciate da Berlusconi nel suo «solenne appello che bisognerebbe inviare a tutte le famiglie italiane» pronunciato il 2 agosto del 1995 in un «celebre discorso alla camera»: «La lentezza, la macchinosità del procedimento legislativo, la dispersione delle attività delle camere in una miriade di piccole misure e provvedimenti minimi, che servono a questa o quella clientela, hanno portato alla legificazione di ogni settore dell'ordinamento, che impedisce a qualsiasi governo, anche se animato da buone intenzioni, di farsi protagonista dell'attività riformatrice». Largo al governo, il parlamento ratifichi e basta.
MEDITAZIONE
MANIFESTO 20-3
Mi chiedo
STEFANO BENNI
Mi chiedo se non sarebbe corretto cambiare la definizione di «pacifisti» in «la maggioranza dei cittadini italiani contrari alla guerra». Mi chiedo, se è sensato e utile manifestare per la pace e penso, se il potere ogni volta ha un attacco isterico, allora deve essere anche più sensato e utile di quanto speravamo.
Mi chiedo se dopo che è stato dimostrato che l'Iraq non possedeva armi di sterminio, è più vile ritirarsi o è più vile accettare ogni menzogna e veleno di questa guerra.
Mi chiedo, se l'occupazione doveva riportare la pace in Iraq, perché si continua a morire più che in guerra. Se ciò è inevitabile, è frutto di incompetenza militare o è in parte pianificato.
Se l'Onu vuole esistere o continuare a lamentarsi che non esiste.
Se quello che dice il Papa sono gaffes.
Se tra i favorevoli alla guerra quanti sono onesti e convinti, quanti stanno soltanto dalla parte del più forte e quanti antimericani in più ci sarebbero stati se Saddam avesse vinto e fosse diventato il primo petroliere mondiale.
Mi chiedo perché c'è chi diventa pacifista solo quando sa che c'è la televisione a riprendere.
Mi chiedo se quelli che tirano sempre in ballo Hitler è perché temono un suo ritorno o perché rimpiangono i suoi metodi.
Mi chiedo se c'è già un rapporto sulle armi di sterminio di Prodi.
Mi chiedo perché Berlusconi non è ancora andato a Nassiriya e poi me lo spiego. Uno, che coraggio pretendete da uno che ha paura anche di affrontare Fassino? Due, sta aspettando la settimana prima delle elezioni. Tre, il caldo scioglie il fard.
Mi chiedo dove sono finiti Saddam Hussein, Osama e il mullah Omar e se sono già cominciati i provini per il nuovo Satana.
Mi chiedo dove trova tutti questi soldi Al Qaeda se ogni conto era stato bloccato, e come mai si fermano gli aerei per un passeggero sospetto e non si riesce a intercettare un solo carico di armi.
Mi chiedo perché è più facile trovare una tonnellata di esplosivo che un carciofo a buon prezzo.
Mi chiedo se quelli che ti dicono sottovoce che comunque una bomba sui treni a Madrid è un bel colpo contro l'America sono stupidi, sanguinari o ignoranti in geografia.
Mi chiedo quanti strateghi televisivi giocherebbero entusiasticamente coi soldatini e il plastico, se in studio ci fossero i parenti dei soldati.
Mi chiedo se quando andrò a votare, voterò per il nuovo parlamento o per un rinnovo di consiglio aziendale.
Se dopo il voto resterò un cittadino sia nella maggioranza sia nella minoranza.
Se adesso che la Fininvest si è salvata dai debiti scenderanno in campo anche la Tim, la Fiat e il campionato di calcio. Il Bingo sappiamo già che si presenterà.
Se un premier che ha mandato Previti a corrompere i giudici tra tre anni deve ripresentarsi alle urne o al commissariato.
Se un premier che controlla il novanta per cento dell'informazione strilla contro il restante dieci per cento, che bella opinione ha della verità delle sue idee.
Mi chiedo se la sinistra istituzionale comincerà a chiamare le cose col suo nome una settimana prima delle elezioni, oppure la settimana dopo, o mai.
Se non si parla più della Pidue perché ormai è tutta al governo o perché non è più di moda.
Mi chiedo, avendo quasi cento parlamentari la fedina penale sporca, se non sarebbe meglio sostituire l'obsoleto termine di onorevole col moderno termine di riciclabile. Il riciclabile Dell'Utri, parlando con il riciclabile Pomicino...
Mi chiedo perché la sinistra non ha il coraggio di togliere dalla liste persone che hanno la fedina penale sporca. Mi chiedo perché nessuno parla delle tangenti di Tanzi.
Mi chiedo a chi serve pensare che la magistratura è un monolito e non un istituzione complessa e contradditoria, fatta di toghe rosse, subumani antropologicamente inferiori, collusi con la mafia, corrotti , piduisti, e uomini onesti che rischiano la vita.
Mi chiedo perché ogni giorno qualcuno mi dice che Sofri sta per uscire, e Sofri è sempre dentro.
Mi chiedo perché i banchieri hanno problemi cardiaci al momento dell'arresto e gli extracomunitari mai.
Mi chiedo perché dopo cinquant'anni di stragi senza un colpevole né sinistra né destra vogliono aprire i dossier segreti. Se è perché ci ritengono poco maturi o troppo maturi per giudicare.
Mi chiedo quando vado in banca se sto consegnando i miei risparmi a una grande mamma premurosa o sto finanziando qualche bancarottiere.
Mi chiedo se di questi tempi ha senso parlare di cultura e rispondo sì, perché questo governo ha una paura fottuta di ogni forma di intelligenza.
Mi chiedo se Goebbles avrebbe detto «quando sento la parola cultura metto mano al telecomando».
Mi chiedo perché nessuno dice che la televisione sta perdendo ascolto e i libri e le biblioteche resistono benissimo.
Mi chiedo perché siamo l'unica televisione in Europa che non ha una vera trasmissione per i libri.
Mi chiedo: se Vespa è il primo piano, chissà che schifo è il pianterreno.
Mi chiedo se è Baget Bozzo ad aver ispirato Jabba di Guerre Stellari, o viceversa.
Mi chiedo come fanno i ragazzi a essere se stessi se la riforma scolastica gli viene presentata da due cyborg liftati, patinati e cotonati come Silvio e Letizia.
Mi chiedo se la società Autostrade dà un Viacard per due mesi agli automobilisti rimasti bloccati per ore nella neve, se li sta prendendo per il culo o sta cercando di dargli il colpo di grazia.
Mi chiedo se faranno prima il ponte di Messina o la bretella di Mestre.
Mi chiedo quando rifaranno un cellulare che serve solo per telefonare.
Mi chiedo se i cortei per la pace sono più veloci o io sono diventato più vecchio.
Mi chiedo cosa avrebbe scritto oggi Luigi Pintor.
Mi chiedo quanto continueremo a definire anomalo un clima ormai normalmente disastroso.
Mi chiedo se un documento di settecento grandi scienziati che prevede il collasso della terra entro cinquant'anni è meno importante di una pieno di benzina.
Mi chiedo se dobbiamo clonare gli uomini o migliorare i prototipi.
Se non sarebbe meglio ammettere che non esiste un Dio ma tante idee di Dio, non un terrorismo ma cento terrorismi, e che ogni guerra è diversa dall'altra, ma abbiamo un mondo solo.
Mi chiedo se il decimo pianeta recentemente scoperto, non sia quello pronto a sostituirci.
MANIFESTO 20-3
Mi chiedo
STEFANO BENNI
Mi chiedo se non sarebbe corretto cambiare la definizione di «pacifisti» in «la maggioranza dei cittadini italiani contrari alla guerra». Mi chiedo, se è sensato e utile manifestare per la pace e penso, se il potere ogni volta ha un attacco isterico, allora deve essere anche più sensato e utile di quanto speravamo.
Mi chiedo se dopo che è stato dimostrato che l'Iraq non possedeva armi di sterminio, è più vile ritirarsi o è più vile accettare ogni menzogna e veleno di questa guerra.
Mi chiedo, se l'occupazione doveva riportare la pace in Iraq, perché si continua a morire più che in guerra. Se ciò è inevitabile, è frutto di incompetenza militare o è in parte pianificato.
Se l'Onu vuole esistere o continuare a lamentarsi che non esiste.
Se quello che dice il Papa sono gaffes.
Se tra i favorevoli alla guerra quanti sono onesti e convinti, quanti stanno soltanto dalla parte del più forte e quanti antimericani in più ci sarebbero stati se Saddam avesse vinto e fosse diventato il primo petroliere mondiale.
Mi chiedo perché c'è chi diventa pacifista solo quando sa che c'è la televisione a riprendere.
Mi chiedo se quelli che tirano sempre in ballo Hitler è perché temono un suo ritorno o perché rimpiangono i suoi metodi.
Mi chiedo se c'è già un rapporto sulle armi di sterminio di Prodi.
Mi chiedo perché Berlusconi non è ancora andato a Nassiriya e poi me lo spiego. Uno, che coraggio pretendete da uno che ha paura anche di affrontare Fassino? Due, sta aspettando la settimana prima delle elezioni. Tre, il caldo scioglie il fard.
Mi chiedo dove sono finiti Saddam Hussein, Osama e il mullah Omar e se sono già cominciati i provini per il nuovo Satana.
Mi chiedo dove trova tutti questi soldi Al Qaeda se ogni conto era stato bloccato, e come mai si fermano gli aerei per un passeggero sospetto e non si riesce a intercettare un solo carico di armi.
Mi chiedo perché è più facile trovare una tonnellata di esplosivo che un carciofo a buon prezzo.
Mi chiedo se quelli che ti dicono sottovoce che comunque una bomba sui treni a Madrid è un bel colpo contro l'America sono stupidi, sanguinari o ignoranti in geografia.
Mi chiedo quanti strateghi televisivi giocherebbero entusiasticamente coi soldatini e il plastico, se in studio ci fossero i parenti dei soldati.
Mi chiedo se quando andrò a votare, voterò per il nuovo parlamento o per un rinnovo di consiglio aziendale.
Se dopo il voto resterò un cittadino sia nella maggioranza sia nella minoranza.
Se adesso che la Fininvest si è salvata dai debiti scenderanno in campo anche la Tim, la Fiat e il campionato di calcio. Il Bingo sappiamo già che si presenterà.
Se un premier che ha mandato Previti a corrompere i giudici tra tre anni deve ripresentarsi alle urne o al commissariato.
Se un premier che controlla il novanta per cento dell'informazione strilla contro il restante dieci per cento, che bella opinione ha della verità delle sue idee.
Mi chiedo se la sinistra istituzionale comincerà a chiamare le cose col suo nome una settimana prima delle elezioni, oppure la settimana dopo, o mai.
Se non si parla più della Pidue perché ormai è tutta al governo o perché non è più di moda.
Mi chiedo, avendo quasi cento parlamentari la fedina penale sporca, se non sarebbe meglio sostituire l'obsoleto termine di onorevole col moderno termine di riciclabile. Il riciclabile Dell'Utri, parlando con il riciclabile Pomicino...
Mi chiedo perché la sinistra non ha il coraggio di togliere dalla liste persone che hanno la fedina penale sporca. Mi chiedo perché nessuno parla delle tangenti di Tanzi.
Mi chiedo a chi serve pensare che la magistratura è un monolito e non un istituzione complessa e contradditoria, fatta di toghe rosse, subumani antropologicamente inferiori, collusi con la mafia, corrotti , piduisti, e uomini onesti che rischiano la vita.
Mi chiedo perché ogni giorno qualcuno mi dice che Sofri sta per uscire, e Sofri è sempre dentro.
Mi chiedo perché i banchieri hanno problemi cardiaci al momento dell'arresto e gli extracomunitari mai.
Mi chiedo perché dopo cinquant'anni di stragi senza un colpevole né sinistra né destra vogliono aprire i dossier segreti. Se è perché ci ritengono poco maturi o troppo maturi per giudicare.
Mi chiedo quando vado in banca se sto consegnando i miei risparmi a una grande mamma premurosa o sto finanziando qualche bancarottiere.
Mi chiedo se di questi tempi ha senso parlare di cultura e rispondo sì, perché questo governo ha una paura fottuta di ogni forma di intelligenza.
Mi chiedo se Goebbles avrebbe detto «quando sento la parola cultura metto mano al telecomando».
Mi chiedo perché nessuno dice che la televisione sta perdendo ascolto e i libri e le biblioteche resistono benissimo.
Mi chiedo perché siamo l'unica televisione in Europa che non ha una vera trasmissione per i libri.
Mi chiedo: se Vespa è il primo piano, chissà che schifo è il pianterreno.
Mi chiedo se è Baget Bozzo ad aver ispirato Jabba di Guerre Stellari, o viceversa.
Mi chiedo come fanno i ragazzi a essere se stessi se la riforma scolastica gli viene presentata da due cyborg liftati, patinati e cotonati come Silvio e Letizia.
Mi chiedo se la società Autostrade dà un Viacard per due mesi agli automobilisti rimasti bloccati per ore nella neve, se li sta prendendo per il culo o sta cercando di dargli il colpo di grazia.
Mi chiedo se faranno prima il ponte di Messina o la bretella di Mestre.
Mi chiedo quando rifaranno un cellulare che serve solo per telefonare.
Mi chiedo se i cortei per la pace sono più veloci o io sono diventato più vecchio.
Mi chiedo cosa avrebbe scritto oggi Luigi Pintor.
Mi chiedo quanto continueremo a definire anomalo un clima ormai normalmente disastroso.
Mi chiedo se un documento di settecento grandi scienziati che prevede il collasso della terra entro cinquant'anni è meno importante di una pieno di benzina.
Mi chiedo se dobbiamo clonare gli uomini o migliorare i prototipi.
Se non sarebbe meglio ammettere che non esiste un Dio ma tante idee di Dio, non un terrorismo ma cento terrorismi, e che ogni guerra è diversa dall'altra, ma abbiamo un mondo solo.
Mi chiedo se il decimo pianeta recentemente scoperto, non sia quello pronto a sostituirci.
MANIFESTO 19-3
Sofri, il Cavaliere si lava la macchia
Dittatura dell'elettorato «Ahimè non sono un dittatore»
GIULIA BIANCHI
ROMA - «Certe volte mi spiaccio di non essere un dittatore, ma ahimè non lo sono». Silvio Berlusconi gigioneggia, ma invece è stato proprio in ossequio alla dittatura forcaiola dei sondaggi che il premier ha acconsentito a far silurare la legge Boato: quella che avrebbe ricondotto nelle mani del capo dello stato il potere esclusivo di grazia, a partire dal caso di Adriano Sofri. Un tale passo indietro rispetto al decisionismo marcato Arcore, da mandare su tutte le furie i cromosomi american-leninisti di Giuliano Ferrara, in rivolta per il cedimento neo-democristiano ai bassi istinti della folla elettorale. Il premier lo ammette a chiare lettere: «Ho manifestato anche ieri (mercoledì, ndr) mattina al capogruppo di Forza Italia alla camera la mia posizione e la volontà di arrivare ad una soluzione positiva per Sofri - spiega - Ma purtroppo l'atteggiamento dei deputati di Forza Italia corrisponde a quello degli elettori che in molti modi hanno manifestato la loro posizione contraria». Come confermano anche i peones forzisti che sciorinano le mail degli elettori e l'orgoglio vendicativo di An, secondo cui Sofri deve implorare prima di ottenere grazia.
Colmo dei colmi, dunque, lo spirito forcaiolo dell'elettorato in questo caso vale più di ogni altra cosa, seppur per il cavaliere perseguitato dalle toghe. E forse non c'è neanche di che stupirsene, date le sventure che si susseguono per il governo berlusconiano: dal tracollo elettorale del sodale spagnolo José Maria Aznar, ai malanni di Umberto Bossi, senza la cui leadership - destinata e rimanere eclissata non brevemente - l'irruenza leghista può presto diventare una scheggia impazzita al punto di far vacillare l'esecutivo. Bando agli azzardi, dunque: da quelli che potrebbero irritare il già scosso popolo leghista, a quelli che potrebbero rivoltarsi a favore della fermezza nazional-alleata. E mano ai sondaggi, alla volontà popolare: per seguirne pedissequamente le indicazioni. «Ho sempre manifestato apertamente la mia posizione che mantengo nonostante quello che si dice da parte di alcuni giornali - si lava la macchia il cavaliere - In Italia non esiste un regime, un dittatore che può imporre ai deputati della Casa delle libertà o al suo partito delle decisioni che poi non sono sentite. Su questo problema abbiamo quindi lasciato la libertà di voto, in base alla propria coscienza. E credo che il leader di un partito liberale non potesse fare diversamente».
Un'abdicazione in piena regola, agli occhi di uno che come Ferrara ha sempre coltivato il primato leninista della politica, sia esso esercitato da destra come da sinistra. Non diversamente da come la vede un post-dc come Marco Follini, che sulla base di un analogo principio in versione sturzian-degasperiana avoca alla politica una dimensione non plebiscitaria. Non a caso Follini disconosce non solo il voto dei suoi stessi parlamentari (rivendicato invece dal ministro dei rapporti con il parlamento Carlo Giovanardi), ma anche le manifestazioni di giubilo da parte dei deputati di maggioranza: «Si tratta di un voto che mette tristezza - dice - ancor di più l'applauso che è seguito: credo che si possano avere idee diverse, ma quell'applauso è stato un modo di infierire in una situazione in cui si sente il bisogno di una giustizia forte e mite». Il leader post-dc che sulla giustizia viaggia a braccetto con il cavaliere, non digerisce neanche per il caso Sofri lo sventolar di cappi e saponette che fa tanto sacco di Tangentopoli.
Ma nei momenti difficili è sempre stato alla dimensione plebiscitaria che il cavaliere ha dovuto affidarsi. E questa volta è toccato a Adriano Sofri finirci di mezzo. Più che mai attenti ai bassi istinti dell'elettorato di riferimento, dunque, i parlamentari della casa berlusconiana hanno seguito i precetti del fondatore. E con la sua benedizione. «L'opinione pubblica, soprattutto l'elettorato di centrodestra, non avrebbe capito...», spiegano i deputati azzurri. Mentre la Lega vanta almeno un buon motivo per non cadere nella guerra di successione e di secessione: «Il tonfo della legge Boato - dice Roberto Calderoli - rappresenta un gran giorno per la giustizia e per le vittime del terrorismo». E An incassa: «Non si tratta di essere forcaioli. Ma di condizionare la grazia a che `il fine galeotto' si adatti a chinare un po' la testa ricordandosi che è pur sempre stato condannato per omicidio da un tribunale `democratico e antifascista'...». Quei tribunali che quando condannano Berlusconi sono «comunisti». Ma, ahinoi, così è la politica.
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L’UNITA’ on-line 19-3
Berlusconi
Riforma del Parlamento? Ho certe idee per la testa...
di red.
Il miglior presidente del Consiglio del più bel governo che ci sia ha alcune «idee scandalose» su come andrebbero cambiato il Parlamento. Non soddisfatto di quello che ha fatto, il premier sogna il Parlamento del futuro, in cui Lui potrà andare e non perder tempo in noiosaggini e stupide proteste dell’opposizione come avviene ora. Tanto ha i numeri per fare tutto quello che vuole, e lo ripete sempre. Berlusconi queste sue «idee scandalose» le ha pensate da un po’, ma non le vuole divulgare subito. Perché non è il momento giusto. E perché, comunque, bisogna «avere il coraggio di rompere con vecchie regole che rendono difficile governare a chiunque», cioè non solo a lui e al centrodestra.
In realtà, il premier è sicuro che il suo governo già sta facendo, e bene secondo lui, nel campo del funzionamento del Parlamento. Per esempio, con la riforma «su cui si voterà la settima prossima», che modifica il bicameralismo perfetto. «E questo - osserva Berlusconi - è un grandissimo passo avanti in vista di un Parlamento che funzioni meglio, dove chi sta lì non avverta la sensazione di perdere tempo».
Insomma, conclude il premier, su questo punto «ci sono anche altri sistemi di partecipazione, che non sia il solo spingere tasti. Sistemi - aggiunge sorridendo sornione- magari scandalosi», ma scandalosi solo, si corregge, «per chi ha la testa rivolta all'indietro». A buon intenditor...
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ESPRESSO on-line 19-3
Per chi cantano i Galli della Loggia
Secondo Berlusconi, la guerra in Iraq è giusta e la democrazia è in marcia fra il Tigri e l'Eufrate. Con gli applausi dei nostri riformisti
Giorgio Bocca
Parlare di riformismo nell'Italia di Silvio Berlusconi e nell'Occidente di George Bush è come parlare della difesa degli animali in una macelleria. Ma chi sta ancora parlando di riformismo? Gli appartenenti a una piccola congrega di pesci in barile che cercano di superare la controriforma berlusconiana fingendo di stare nel mezzo, figli della ragione nella tempesta della nuova rapina senza se e senza ma. Ospiti di giornali e di televisioni che grazie ai loro discorsi a pera simulano equidistanza e democratico confronto.
Per essere chiari con i lettori: le riforme che possono diventare rivoluzioni si fanno con alcuni decisivi rapporti di forze. Uno, il principale, è quello dello scontro di classe, fra i padroni e i lavoratori, fra il potere del denaro e delle armi e quello del popolo e dei suoi diritti. Questa resa dei conti nell'Italia di oggi non c'è per ragioni storiche che è inutile ripercorrere. Il professor Ernesto Galli della Loggia, il più accorato dei riformisti senza riforme, lo riconosce con una sconcertante sincerità: i riformisti italiani sono un gruppo velleitario, emarginato, clamante nel deserto perché non c'è più una classe operaia combattiva, non ci sono più sindacati di massa capaci di mobilitare gli operai e non ci sono più partiti capaci di guidarli.
Non ci sono neppure gli intellettuali, non c'è la rete dei club riformisti che anticiparono le rivoluzioni borghesi. Ci sono invece visibilissimi, arrembanti, in espansione e in arroganza un neocolonialismo e un neomilitarismo senza se e senza ma nella nuova rapina a dimensione mondiale.
E sarà anche vero che così è andata la musica nei millenni, ma non scambiamola per riformismo, non chiamiamo riformismo l'antica astuzia degli intellettuali italiani di saltare sul carro del vincitore e di accattivarselo con dei bassi servizi. Chi troviamo alla testa della campagna antifascista e antipartigiana gradita alla destra di regime? Troviamo i riformisti a cui il nuovo padrone ha concesso grandi spazi nella stampa e nella televisione, troviamo coloro che hanno ottenuto il monopolio dei dibattiti nei mass media. E qualcuno glielo avrà pure dato, qualcuno avrà pur deciso di mettere i Ferrara e i Battista al posto dei Biagi e dei Santoro nei commenti di prima serata, qualcuno avrà pur deciso di finanziare i giornaletti del riformismo che parla di Berlusconi come 'dell'amor nostro'.
Fare del riformismo mentre è al potere l'autoritarismo della propaganda menzognera è dare una mano al bugiardo. Durante l'incontro con il premier britannico Tony Blair, il leader di questo regime ha infilato senza la minima esitazione, rivolgendosi al popolo italiano, una serie di menzogne sesquipedali sapendo di non avere contraddittorio: la guerra in Iraq è giusta e noi vi parteciperemo fin quando piacerà agli americani. L'occupazione va benissimo, gli iracheni sono con noi e la democrazia è in marcia fra il Tigri e l'Eufrate. E le stragi quotidiane? L'impossibilità di controllare il territorio, la crescita terrificante del terrorismo, i fatti irrefutabili che ogni italiano conosce?
L'ometto non se ne preoccupa, mente come un pesce che nuota nel suo stagno. Il riformismo? Il riformismo c'è, eccome, ma in senso contrario: nella mancanza di ogni controllo finanziario, di ogni regola nell'affarismo di Stato, nella dissipazione del patrimonio pubblico ceduto sotto prezzo ai cortigiani più fidati, le storie che tutti tacciono della improvvisa fortuna di società immobiliari e di quell'altra industria super-redditizia che consiste nella bonifica del territorio appena devastato dai corrotti di regime.
Ma che ci stanno a cantare i Galli della Loggia e le altre prefiche di un riformismo inesistente o venduto?
Sofri, il Cavaliere si lava la macchia
Dittatura dell'elettorato «Ahimè non sono un dittatore»
GIULIA BIANCHI
ROMA - «Certe volte mi spiaccio di non essere un dittatore, ma ahimè non lo sono». Silvio Berlusconi gigioneggia, ma invece è stato proprio in ossequio alla dittatura forcaiola dei sondaggi che il premier ha acconsentito a far silurare la legge Boato: quella che avrebbe ricondotto nelle mani del capo dello stato il potere esclusivo di grazia, a partire dal caso di Adriano Sofri. Un tale passo indietro rispetto al decisionismo marcato Arcore, da mandare su tutte le furie i cromosomi american-leninisti di Giuliano Ferrara, in rivolta per il cedimento neo-democristiano ai bassi istinti della folla elettorale. Il premier lo ammette a chiare lettere: «Ho manifestato anche ieri (mercoledì, ndr) mattina al capogruppo di Forza Italia alla camera la mia posizione e la volontà di arrivare ad una soluzione positiva per Sofri - spiega - Ma purtroppo l'atteggiamento dei deputati di Forza Italia corrisponde a quello degli elettori che in molti modi hanno manifestato la loro posizione contraria». Come confermano anche i peones forzisti che sciorinano le mail degli elettori e l'orgoglio vendicativo di An, secondo cui Sofri deve implorare prima di ottenere grazia.
Colmo dei colmi, dunque, lo spirito forcaiolo dell'elettorato in questo caso vale più di ogni altra cosa, seppur per il cavaliere perseguitato dalle toghe. E forse non c'è neanche di che stupirsene, date le sventure che si susseguono per il governo berlusconiano: dal tracollo elettorale del sodale spagnolo José Maria Aznar, ai malanni di Umberto Bossi, senza la cui leadership - destinata e rimanere eclissata non brevemente - l'irruenza leghista può presto diventare una scheggia impazzita al punto di far vacillare l'esecutivo. Bando agli azzardi, dunque: da quelli che potrebbero irritare il già scosso popolo leghista, a quelli che potrebbero rivoltarsi a favore della fermezza nazional-alleata. E mano ai sondaggi, alla volontà popolare: per seguirne pedissequamente le indicazioni. «Ho sempre manifestato apertamente la mia posizione che mantengo nonostante quello che si dice da parte di alcuni giornali - si lava la macchia il cavaliere - In Italia non esiste un regime, un dittatore che può imporre ai deputati della Casa delle libertà o al suo partito delle decisioni che poi non sono sentite. Su questo problema abbiamo quindi lasciato la libertà di voto, in base alla propria coscienza. E credo che il leader di un partito liberale non potesse fare diversamente».
Un'abdicazione in piena regola, agli occhi di uno che come Ferrara ha sempre coltivato il primato leninista della politica, sia esso esercitato da destra come da sinistra. Non diversamente da come la vede un post-dc come Marco Follini, che sulla base di un analogo principio in versione sturzian-degasperiana avoca alla politica una dimensione non plebiscitaria. Non a caso Follini disconosce non solo il voto dei suoi stessi parlamentari (rivendicato invece dal ministro dei rapporti con il parlamento Carlo Giovanardi), ma anche le manifestazioni di giubilo da parte dei deputati di maggioranza: «Si tratta di un voto che mette tristezza - dice - ancor di più l'applauso che è seguito: credo che si possano avere idee diverse, ma quell'applauso è stato un modo di infierire in una situazione in cui si sente il bisogno di una giustizia forte e mite». Il leader post-dc che sulla giustizia viaggia a braccetto con il cavaliere, non digerisce neanche per il caso Sofri lo sventolar di cappi e saponette che fa tanto sacco di Tangentopoli.
Ma nei momenti difficili è sempre stato alla dimensione plebiscitaria che il cavaliere ha dovuto affidarsi. E questa volta è toccato a Adriano Sofri finirci di mezzo. Più che mai attenti ai bassi istinti dell'elettorato di riferimento, dunque, i parlamentari della casa berlusconiana hanno seguito i precetti del fondatore. E con la sua benedizione. «L'opinione pubblica, soprattutto l'elettorato di centrodestra, non avrebbe capito...», spiegano i deputati azzurri. Mentre la Lega vanta almeno un buon motivo per non cadere nella guerra di successione e di secessione: «Il tonfo della legge Boato - dice Roberto Calderoli - rappresenta un gran giorno per la giustizia e per le vittime del terrorismo». E An incassa: «Non si tratta di essere forcaioli. Ma di condizionare la grazia a che `il fine galeotto' si adatti a chinare un po' la testa ricordandosi che è pur sempre stato condannato per omicidio da un tribunale `democratico e antifascista'...». Quei tribunali che quando condannano Berlusconi sono «comunisti». Ma, ahinoi, così è la politica.
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L’UNITA’ on-line 19-3
Berlusconi
Riforma del Parlamento? Ho certe idee per la testa...
di red.
Il miglior presidente del Consiglio del più bel governo che ci sia ha alcune «idee scandalose» su come andrebbero cambiato il Parlamento. Non soddisfatto di quello che ha fatto, il premier sogna il Parlamento del futuro, in cui Lui potrà andare e non perder tempo in noiosaggini e stupide proteste dell’opposizione come avviene ora. Tanto ha i numeri per fare tutto quello che vuole, e lo ripete sempre. Berlusconi queste sue «idee scandalose» le ha pensate da un po’, ma non le vuole divulgare subito. Perché non è il momento giusto. E perché, comunque, bisogna «avere il coraggio di rompere con vecchie regole che rendono difficile governare a chiunque», cioè non solo a lui e al centrodestra.
In realtà, il premier è sicuro che il suo governo già sta facendo, e bene secondo lui, nel campo del funzionamento del Parlamento. Per esempio, con la riforma «su cui si voterà la settima prossima», che modifica il bicameralismo perfetto. «E questo - osserva Berlusconi - è un grandissimo passo avanti in vista di un Parlamento che funzioni meglio, dove chi sta lì non avverta la sensazione di perdere tempo».
Insomma, conclude il premier, su questo punto «ci sono anche altri sistemi di partecipazione, che non sia il solo spingere tasti. Sistemi - aggiunge sorridendo sornione- magari scandalosi», ma scandalosi solo, si corregge, «per chi ha la testa rivolta all'indietro». A buon intenditor...
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ESPRESSO on-line 19-3
Per chi cantano i Galli della Loggia
Secondo Berlusconi, la guerra in Iraq è giusta e la democrazia è in marcia fra il Tigri e l'Eufrate. Con gli applausi dei nostri riformisti
Giorgio Bocca
Parlare di riformismo nell'Italia di Silvio Berlusconi e nell'Occidente di George Bush è come parlare della difesa degli animali in una macelleria. Ma chi sta ancora parlando di riformismo? Gli appartenenti a una piccola congrega di pesci in barile che cercano di superare la controriforma berlusconiana fingendo di stare nel mezzo, figli della ragione nella tempesta della nuova rapina senza se e senza ma. Ospiti di giornali e di televisioni che grazie ai loro discorsi a pera simulano equidistanza e democratico confronto.
Per essere chiari con i lettori: le riforme che possono diventare rivoluzioni si fanno con alcuni decisivi rapporti di forze. Uno, il principale, è quello dello scontro di classe, fra i padroni e i lavoratori, fra il potere del denaro e delle armi e quello del popolo e dei suoi diritti. Questa resa dei conti nell'Italia di oggi non c'è per ragioni storiche che è inutile ripercorrere. Il professor Ernesto Galli della Loggia, il più accorato dei riformisti senza riforme, lo riconosce con una sconcertante sincerità: i riformisti italiani sono un gruppo velleitario, emarginato, clamante nel deserto perché non c'è più una classe operaia combattiva, non ci sono più sindacati di massa capaci di mobilitare gli operai e non ci sono più partiti capaci di guidarli.
Non ci sono neppure gli intellettuali, non c'è la rete dei club riformisti che anticiparono le rivoluzioni borghesi. Ci sono invece visibilissimi, arrembanti, in espansione e in arroganza un neocolonialismo e un neomilitarismo senza se e senza ma nella nuova rapina a dimensione mondiale.
E sarà anche vero che così è andata la musica nei millenni, ma non scambiamola per riformismo, non chiamiamo riformismo l'antica astuzia degli intellettuali italiani di saltare sul carro del vincitore e di accattivarselo con dei bassi servizi. Chi troviamo alla testa della campagna antifascista e antipartigiana gradita alla destra di regime? Troviamo i riformisti a cui il nuovo padrone ha concesso grandi spazi nella stampa e nella televisione, troviamo coloro che hanno ottenuto il monopolio dei dibattiti nei mass media. E qualcuno glielo avrà pure dato, qualcuno avrà pur deciso di mettere i Ferrara e i Battista al posto dei Biagi e dei Santoro nei commenti di prima serata, qualcuno avrà pur deciso di finanziare i giornaletti del riformismo che parla di Berlusconi come 'dell'amor nostro'.
Fare del riformismo mentre è al potere l'autoritarismo della propaganda menzognera è dare una mano al bugiardo. Durante l'incontro con il premier britannico Tony Blair, il leader di questo regime ha infilato senza la minima esitazione, rivolgendosi al popolo italiano, una serie di menzogne sesquipedali sapendo di non avere contraddittorio: la guerra in Iraq è giusta e noi vi parteciperemo fin quando piacerà agli americani. L'occupazione va benissimo, gli iracheni sono con noi e la democrazia è in marcia fra il Tigri e l'Eufrate. E le stragi quotidiane? L'impossibilità di controllare il territorio, la crescita terrificante del terrorismo, i fatti irrefutabili che ogni italiano conosce?
L'ometto non se ne preoccupa, mente come un pesce che nuota nel suo stagno. Il riformismo? Il riformismo c'è, eccome, ma in senso contrario: nella mancanza di ogni controllo finanziario, di ogni regola nell'affarismo di Stato, nella dissipazione del patrimonio pubblico ceduto sotto prezzo ai cortigiani più fidati, le storie che tutti tacciono della improvvisa fortuna di società immobiliari e di quell'altra industria super-redditizia che consiste nella bonifica del territorio appena devastato dai corrotti di regime.
Ma che ci stanno a cantare i Galli della Loggia e le altre prefiche di un riformismo inesistente o venduto?
MANIFESTO 18-3
«L'ha voluto Berlusconi»
Giuliano Ferrrara protesta con violenza - E accusa il premier di «aver suonato la ritirata»
G.P
ROMA - «Traditori, cialtroni, gaglioffi», la furia di Giuliano Ferrara non ha limiti. Il suo editoriale sul Foglio, distribuito alle agenzie ben prima di andare in stampa, è una vera e propria scenata a tutti i protagonisti della fine ingloriosa della legge Boato. Ma se loro sono un «manipolo di vecchi missini riciclati e il capociurma delle tifoserie varesotte della Lega, combattenti per la libertà e il diritto ma solo a proprio vantaggio», il colpevole numero uno è proprio lui: Silvio Berlusconi. E non solo perché è «uno che sa distrarsi come pochi altri quando non si tratti degli affari suoi». L'accusa di Ferrara infatti è chiara e netta, se i deputati di Forza Italia hanno votato con An e la Lega è perché l'ordine è venuto dall'alto. Da chi, dopo essersi fatto prendere in giro per un anno e mezzo, «ha pensato bene di dare lo squillo di tromba della ritirata: Il Cav. non vuole grane prima delle elezioni, e la legge Boato vada a farsi fottere e con la legge tutto, coscienza personale e ragionevolezza politica e civile». Non è la prima volta in realtà che l'ex consigliere del presidente si scaglia contro il quartier generale. Proprio ieri mattina il Foglio attaccava in prima pagina gli «sciamannati» della Casa delle libertà, incapaci di gestire la grande idea (lanciata proprio dal quotidiano) di indire una manifestazione bispartisan contro il terrorismo. Ma per l'appunto la colpa era delle truppe incapaci, una volta di più, di capire la genialità del generale. Ora la storia è ben diversa, tanto che Giuliano Ferrara (protagonista da anni della campagna per Sofri) arriva a mettere in campo anche qualcosa di più della politica. «Questo giornale è nato da un patto d'amicizia non servile con Berlusconi - scrive infatti nel suo editoriale - Ora dovrebbe chiudere all'istante, insieme con un'amicizia consumata». Una frase di troppo? Forse sì e forse no, visto che la chiusa è un triste, e ambiguo, «essendo un giornale minimamente utile, andremo avanti nella più assoluta libertà, senza più illusioni e senza rancori, finchè la proprietà non deciderà di cacciarci».
Meno potente, ma altrettanto amara è del resto la reazione dei pochissimi che, nel centrodestra, sono rimasti fedeli all'idea di mettere nelle mani del presidente della repubblica la grazia di Adriano Sofri. Il centrista D'Alia, parla così di «un'occasione mancata per fare una buona legge» e, non volendo sparare sul premier, definisce «ancora incomprensibile il repentino cambio di linea da parte di Forza Italia». Mentre il nazional alleato Altero Matteoli, ministro per l'ambiente, ricorda di essere «sempre stato d'accordo, largamente minoritario nel mio partito, con la grazia a Sofri per chiudere una stagione politica». Ancor più desolato il commento di Alfredo Biondi, il vecchio garantista di Forza Italia che di fronte allo smacco chiude gli occhi, preferisce pensare a un colpo di mano dei suoi colleghi di partito e sostiene che «in questo modo si è contraddetto anche il presidente Berlusconi, che si era espresso chiaramente sulla grazia a Sofri».
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REPUBBLICA on-line 18-3
"Politici ladri"
Berlusconi indagato per diffamazione
ROMA - Berlusconi è indagato per diffamazione. Il nome del presidente del Consiglio è stato iscritto dalla magistratura romana nel registro degli indagati per reato di diffamazione in seguito alle dichiarazioni del 19 febbraio scorso ad Atene quando parlando dei "politici di professione" disse che "nella loro vita hanno solo chiacchierato e non combinato niente altro che prendere i soldi dai cittadini".
L'iscrizione nel registro degli indagati è conseguente alla denuncia che il giorno successivo venne presentata dal senatore Alessandro Battisti e del deputato Roberto Giachetti entrambi della Margherita. La questione, affidata per il momento al pubblico ministero Bice Barborini, finirà necessariamente all'esame del Tribunale dei ministri, considerato il ruolo di Berlusconi.
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STAMPA 18-3
Se Di Pietro in tv si alza e se ne va
La visione meschina e mediocre di Berlusconi
di Lietta Tornabuoni
Non s'era mai vista una tale accanita ostilità e mancanza di rispetto verso un voto popolare: soprattutto da parte di chi, Berlusconi in testa, per aver ricevuto la maggioranza dei voti s'è sempre proclamato l'Eletto, l'Onnipotente. Il lunedì seguente le elezioni spagnole e la vittoria dei socialisti, alle televisioni s'è sfrenata una autentica sarabanda: con la ripetizione compulsiva dello slogan adottato dalla destra («il terrorismo ha vinto le elezioni spagnole»), con un intrecciarsi di finti interrogativi («per chi vota Bin Laden?», «chi ha votato in Spagna?»), con affermazioni apodittiche («pacifismo irresponsabile», «terrorismo fattore elettorale»), con una tale furia che Antonio Di Pietro ha dovuto alzarsi ed andarsene da «Luned'Italia» perché gli impedivano di parlare e che «Ballarò» veniva eliminato nel timore che avanzasse altre idee. Con uno schieramento univoco, indiscusso, senza dubbi. «Al Qaida cambia il governo spagnolo», affermava poi il quotidiano edito da Paolo Berlusconi, fratello del presidente del Consiglio.
Tanto per fare un confronto: sul tema, il titolo principale de Le Monde, uno dei quotidiani più stimati d'Europa, era «La Spagna punisce la menzogna di Stato»: l'opinione avanzata (certo non solo dal giornale) sosteneva che gli elettori spagnoli, già al 90% contrari alla presenza militare in Iraq, avevano voluto contrastare col voto l'insistenza dell'ex leader Aznar nel riversare sull'Eta la responsabilità dell'orribile massacro di Madrid, nella speranza di ricavarne vantaggi elettorali.
Ora, si capisce che ciascuno abbia la propria idea e il diritto di esporla, se ne ha i mezzi. Si capisce che la vittoria elettorale di uno schieramento opposto al proprio, anche in un altro Paese, può fare dispiacere e rabbia: tanto più se i vincitori socialisti ribadiscono subito quelle posizioni sull'Iraq che avevano da sempre e che possono mettere in imbarazzo l'Italia legata ad altri comportamenti. Si capisce meno che per difendere questi comportamenti si arrivi ad insultare interi popoli e la loro espressione democratica nel voto, a dar loro dei vigliacchi, dei tremebondi, dei terrorizzati pronti a sottomettersi a ogni ricatto.
L'impressione data da queste reazioni è duplice. Da una parte, lo stupore per un fiero opinionismo sempre governativo e la difficoltà di capire come mai persone intelligenti possano mostrarsi così intolleranti e fondamentaliste. D'altra parte, il timore che qualunque novità politica, infamia sanguinosa, svolta elettorale accada, anche altrove, venga considerata dal punto di vista personale o di gruppo, di vantaggio o svantaggio per se stessi o la propria formazione, di necessità d'elaborare slogan molto meno furbastri ed efficaci di quanto gli autori credano: anzichè valutare le cose del mondo con mente aperta, interesse e passione. E' un tipo di visione meschina, mediocre.
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CITAZIONI
Venite a vedere il sangue per le strade di Madrid, di questa città che ha gridato «pace» con voce unanime, e il suo grido è stato ignorato da un servo dell'imperialismo nordamericano, da un lacchè del signore della guerra che pretende di governare il mondo, ed è solo riuscito a portare l'orrore in Europa.
Luìs Sepùlveda, Manifesto 16-3
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Prodi: «Dobbiamo recuperare la gioia di vivere». Detto ad un Berlusconi convinto di avere «il sole in tasca», l’ultima annotazione suona peggiore di un insulto.
Massimo Franco, Corsera 18-3
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IL RIFORMISTA 18-3
FERRARA: LA DESTRA È CIALTRONA E IL PREMIER MISERABILE
La morte del berlusconismo di sinistra
…Al di là del caso Sofri, che pure ha un peso devastante nella vicenda, la chiusa dell'editoriale di Ferrara («Questo giornale ora dovrebbe chiudere all'istante, insieme con un'amicizia consumata. Andremo avanti finché la proprietà editoriale non deciderà di cacciarci. Poi ne faremo un altro, se possibile più bello») segna l'epilogo di un rapporto, quello tra l'Elefantino e il Cavaliere, che nell'ultimo anno era diventato gelido. Qualcuno riferisce che la delusione di Ferrara per il premier, non solo a causa di Sofri, covava da mesi e non a caso si fa notare la surreale paginata di Pietrangelo Buttafuoco, all'indomani della strage di Madrid, sul 25 luglio prossimo venturo di Berlusconi, sostituito da Beppe Pisanu. In sostanza, da tempo, il direttore del Foglio avrebbe intravisto un destino fallimentare per il centrodestra e per questo già ragionerebbe sugli scenari della sconfitta. Resta da vedere che cosa accadrà al Foglio. Per il momento, la Cdl perde un altro pezzo, forse il più significativo, del berlusconismo di sinistra, quello laico e liberale che da un po' manifestava la sua insofferenza per questa maggioranza.
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ESPRESSO on-line 18-3
Guai a chi dialoga
La paura di restare intrappolati nella deriva berlusconiana
Massimo Riva
A giudicare da come si agitano i topi nella stiva, la barca del governo Berlusconi naviga davvero in cattive acque. Non siamo alla fuga in massa, ma tutto questo squittire è chiaro sintomo di un panico crescente: anche perché i segnali di malessere e le proposte di cambiamento di rotta cominciano a venire da alcuni leader di peso. Come il ministro dell'Economia che, d'improvviso, ha scoperto quello che lui chiama 'metodo repubblicano' per aprire il dialogo con l'opposizione sulle riforme di risparmio e pensioni. Ovvero come il presidente della Camera che ritiene necessarie intese bipartisan sulle modifiche della Costituzione.
Simili iniziative sembrano costituire un passo avanti rispetto ad altre grottesche aperture come quelle, per esempio, del presidente del Senato. Secondo il quale il paese non deve dividersi sulla politica estera: ma nel senso che l'opposizione dovrebbe avallare le scelte della maggioranza, punto e a capo. No, stavolta i due autorevoli aperturisti ci tengono a far credere che vogliono fare sul serio, forse perché consapevoli dei rischi di impopolarità connessi a riforme come quella della previdenza. Siamo, dunque, di fronte a una svolta rispetto all'arrogante autosufficienza finora vantata dal governo Berlusconi?
La prova si potrà avere soltanto quando il budino sarà in tavola. Per ora, tuttavia, va segnalato che quelli di Casini e Tremonti appaiono atti di ribellione a metà, perché mossi più dalla paura di restare intrappolati nella deriva berlusconiana che dal coraggio di contestare il vano titanismo del Cavaliere. Sarà un caso, infatti, eppure c'è un tema tipicamente bipartisan che sia il presidente della Camera sia il ministro dell'Economia si sono ben guardati dall'inserire nell'agenda del dialogo: quello della libertà d'informazione. Cioè, di quella contestata legge Gasparri, che risulta concepita soprattutto a difesa degli interessi aziendali di Silvio Berlusconi. Un'omissione eloquentissima.
E non basta. Nel caso specifico di Tremonti va segnalato che questi, appena socchiusa la porta al dialogo sulla legge per la tutela del risparmio, ha subito provveduto a fissare rigidi paletti. In particolare, dichiarando improponibile per l'Italia uno specifico istituto giuridico: quella 'class action' o azione di categoria che, negli Stati Uniti, costituisce sia un formidabile strumento di deterrenza contro gli abusi delle grandi corporation bancarie e industriali sia una via giudiziaria privilegiata per le richieste di risarcimento da parte della clientela più debole nei confronti dei giganti dell'economia.
Un simile veto getta una luce di forte ambiguità sulla mossa di Tremonti. Perché ripropone la vecchia concezione centralistica della tutela del risparmio, che si esaurisce nelle funzioni delle Autorità statali e rifiuta di offrire ai cittadini strumenti diretti di difesa dei propri diritti. Nel timore inconfessato che l'esercizio di questi ultimi possa disturbare i manovratori, vuoi del potere politico vuoi di quello economico. Sarà anche presto per pronosticare l'esito delle aperture tremontiane ma, se il buon giorno si riconosce dal mattino, sembra poco saggio farsi illusioni.
«L'ha voluto Berlusconi»
Giuliano Ferrrara protesta con violenza - E accusa il premier di «aver suonato la ritirata»
G.P
ROMA - «Traditori, cialtroni, gaglioffi», la furia di Giuliano Ferrara non ha limiti. Il suo editoriale sul Foglio, distribuito alle agenzie ben prima di andare in stampa, è una vera e propria scenata a tutti i protagonisti della fine ingloriosa della legge Boato. Ma se loro sono un «manipolo di vecchi missini riciclati e il capociurma delle tifoserie varesotte della Lega, combattenti per la libertà e il diritto ma solo a proprio vantaggio», il colpevole numero uno è proprio lui: Silvio Berlusconi. E non solo perché è «uno che sa distrarsi come pochi altri quando non si tratti degli affari suoi». L'accusa di Ferrara infatti è chiara e netta, se i deputati di Forza Italia hanno votato con An e la Lega è perché l'ordine è venuto dall'alto. Da chi, dopo essersi fatto prendere in giro per un anno e mezzo, «ha pensato bene di dare lo squillo di tromba della ritirata: Il Cav. non vuole grane prima delle elezioni, e la legge Boato vada a farsi fottere e con la legge tutto, coscienza personale e ragionevolezza politica e civile». Non è la prima volta in realtà che l'ex consigliere del presidente si scaglia contro il quartier generale. Proprio ieri mattina il Foglio attaccava in prima pagina gli «sciamannati» della Casa delle libertà, incapaci di gestire la grande idea (lanciata proprio dal quotidiano) di indire una manifestazione bispartisan contro il terrorismo. Ma per l'appunto la colpa era delle truppe incapaci, una volta di più, di capire la genialità del generale. Ora la storia è ben diversa, tanto che Giuliano Ferrara (protagonista da anni della campagna per Sofri) arriva a mettere in campo anche qualcosa di più della politica. «Questo giornale è nato da un patto d'amicizia non servile con Berlusconi - scrive infatti nel suo editoriale - Ora dovrebbe chiudere all'istante, insieme con un'amicizia consumata». Una frase di troppo? Forse sì e forse no, visto che la chiusa è un triste, e ambiguo, «essendo un giornale minimamente utile, andremo avanti nella più assoluta libertà, senza più illusioni e senza rancori, finchè la proprietà non deciderà di cacciarci».
Meno potente, ma altrettanto amara è del resto la reazione dei pochissimi che, nel centrodestra, sono rimasti fedeli all'idea di mettere nelle mani del presidente della repubblica la grazia di Adriano Sofri. Il centrista D'Alia, parla così di «un'occasione mancata per fare una buona legge» e, non volendo sparare sul premier, definisce «ancora incomprensibile il repentino cambio di linea da parte di Forza Italia». Mentre il nazional alleato Altero Matteoli, ministro per l'ambiente, ricorda di essere «sempre stato d'accordo, largamente minoritario nel mio partito, con la grazia a Sofri per chiudere una stagione politica». Ancor più desolato il commento di Alfredo Biondi, il vecchio garantista di Forza Italia che di fronte allo smacco chiude gli occhi, preferisce pensare a un colpo di mano dei suoi colleghi di partito e sostiene che «in questo modo si è contraddetto anche il presidente Berlusconi, che si era espresso chiaramente sulla grazia a Sofri».
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REPUBBLICA on-line 18-3
"Politici ladri"
Berlusconi indagato per diffamazione
ROMA - Berlusconi è indagato per diffamazione. Il nome del presidente del Consiglio è stato iscritto dalla magistratura romana nel registro degli indagati per reato di diffamazione in seguito alle dichiarazioni del 19 febbraio scorso ad Atene quando parlando dei "politici di professione" disse che "nella loro vita hanno solo chiacchierato e non combinato niente altro che prendere i soldi dai cittadini".
L'iscrizione nel registro degli indagati è conseguente alla denuncia che il giorno successivo venne presentata dal senatore Alessandro Battisti e del deputato Roberto Giachetti entrambi della Margherita. La questione, affidata per il momento al pubblico ministero Bice Barborini, finirà necessariamente all'esame del Tribunale dei ministri, considerato il ruolo di Berlusconi.
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STAMPA 18-3
Se Di Pietro in tv si alza e se ne va
La visione meschina e mediocre di Berlusconi
di Lietta Tornabuoni
Non s'era mai vista una tale accanita ostilità e mancanza di rispetto verso un voto popolare: soprattutto da parte di chi, Berlusconi in testa, per aver ricevuto la maggioranza dei voti s'è sempre proclamato l'Eletto, l'Onnipotente. Il lunedì seguente le elezioni spagnole e la vittoria dei socialisti, alle televisioni s'è sfrenata una autentica sarabanda: con la ripetizione compulsiva dello slogan adottato dalla destra («il terrorismo ha vinto le elezioni spagnole»), con un intrecciarsi di finti interrogativi («per chi vota Bin Laden?», «chi ha votato in Spagna?»), con affermazioni apodittiche («pacifismo irresponsabile», «terrorismo fattore elettorale»), con una tale furia che Antonio Di Pietro ha dovuto alzarsi ed andarsene da «Luned'Italia» perché gli impedivano di parlare e che «Ballarò» veniva eliminato nel timore che avanzasse altre idee. Con uno schieramento univoco, indiscusso, senza dubbi. «Al Qaida cambia il governo spagnolo», affermava poi il quotidiano edito da Paolo Berlusconi, fratello del presidente del Consiglio.
Tanto per fare un confronto: sul tema, il titolo principale de Le Monde, uno dei quotidiani più stimati d'Europa, era «La Spagna punisce la menzogna di Stato»: l'opinione avanzata (certo non solo dal giornale) sosteneva che gli elettori spagnoli, già al 90% contrari alla presenza militare in Iraq, avevano voluto contrastare col voto l'insistenza dell'ex leader Aznar nel riversare sull'Eta la responsabilità dell'orribile massacro di Madrid, nella speranza di ricavarne vantaggi elettorali.
Ora, si capisce che ciascuno abbia la propria idea e il diritto di esporla, se ne ha i mezzi. Si capisce che la vittoria elettorale di uno schieramento opposto al proprio, anche in un altro Paese, può fare dispiacere e rabbia: tanto più se i vincitori socialisti ribadiscono subito quelle posizioni sull'Iraq che avevano da sempre e che possono mettere in imbarazzo l'Italia legata ad altri comportamenti. Si capisce meno che per difendere questi comportamenti si arrivi ad insultare interi popoli e la loro espressione democratica nel voto, a dar loro dei vigliacchi, dei tremebondi, dei terrorizzati pronti a sottomettersi a ogni ricatto.
L'impressione data da queste reazioni è duplice. Da una parte, lo stupore per un fiero opinionismo sempre governativo e la difficoltà di capire come mai persone intelligenti possano mostrarsi così intolleranti e fondamentaliste. D'altra parte, il timore che qualunque novità politica, infamia sanguinosa, svolta elettorale accada, anche altrove, venga considerata dal punto di vista personale o di gruppo, di vantaggio o svantaggio per se stessi o la propria formazione, di necessità d'elaborare slogan molto meno furbastri ed efficaci di quanto gli autori credano: anzichè valutare le cose del mondo con mente aperta, interesse e passione. E' un tipo di visione meschina, mediocre.
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CITAZIONI
Venite a vedere il sangue per le strade di Madrid, di questa città che ha gridato «pace» con voce unanime, e il suo grido è stato ignorato da un servo dell'imperialismo nordamericano, da un lacchè del signore della guerra che pretende di governare il mondo, ed è solo riuscito a portare l'orrore in Europa.
Luìs Sepùlveda, Manifesto 16-3
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Prodi: «Dobbiamo recuperare la gioia di vivere». Detto ad un Berlusconi convinto di avere «il sole in tasca», l’ultima annotazione suona peggiore di un insulto.
Massimo Franco, Corsera 18-3
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IL RIFORMISTA 18-3
FERRARA: LA DESTRA È CIALTRONA E IL PREMIER MISERABILE
La morte del berlusconismo di sinistra
…Al di là del caso Sofri, che pure ha un peso devastante nella vicenda, la chiusa dell'editoriale di Ferrara («Questo giornale ora dovrebbe chiudere all'istante, insieme con un'amicizia consumata. Andremo avanti finché la proprietà editoriale non deciderà di cacciarci. Poi ne faremo un altro, se possibile più bello») segna l'epilogo di un rapporto, quello tra l'Elefantino e il Cavaliere, che nell'ultimo anno era diventato gelido. Qualcuno riferisce che la delusione di Ferrara per il premier, non solo a causa di Sofri, covava da mesi e non a caso si fa notare la surreale paginata di Pietrangelo Buttafuoco, all'indomani della strage di Madrid, sul 25 luglio prossimo venturo di Berlusconi, sostituito da Beppe Pisanu. In sostanza, da tempo, il direttore del Foglio avrebbe intravisto un destino fallimentare per il centrodestra e per questo già ragionerebbe sugli scenari della sconfitta. Resta da vedere che cosa accadrà al Foglio. Per il momento, la Cdl perde un altro pezzo, forse il più significativo, del berlusconismo di sinistra, quello laico e liberale che da un po' manifestava la sua insofferenza per questa maggioranza.
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ESPRESSO on-line 18-3
Guai a chi dialoga
La paura di restare intrappolati nella deriva berlusconiana
Massimo Riva
A giudicare da come si agitano i topi nella stiva, la barca del governo Berlusconi naviga davvero in cattive acque. Non siamo alla fuga in massa, ma tutto questo squittire è chiaro sintomo di un panico crescente: anche perché i segnali di malessere e le proposte di cambiamento di rotta cominciano a venire da alcuni leader di peso. Come il ministro dell'Economia che, d'improvviso, ha scoperto quello che lui chiama 'metodo repubblicano' per aprire il dialogo con l'opposizione sulle riforme di risparmio e pensioni. Ovvero come il presidente della Camera che ritiene necessarie intese bipartisan sulle modifiche della Costituzione.
Simili iniziative sembrano costituire un passo avanti rispetto ad altre grottesche aperture come quelle, per esempio, del presidente del Senato. Secondo il quale il paese non deve dividersi sulla politica estera: ma nel senso che l'opposizione dovrebbe avallare le scelte della maggioranza, punto e a capo. No, stavolta i due autorevoli aperturisti ci tengono a far credere che vogliono fare sul serio, forse perché consapevoli dei rischi di impopolarità connessi a riforme come quella della previdenza. Siamo, dunque, di fronte a una svolta rispetto all'arrogante autosufficienza finora vantata dal governo Berlusconi?
La prova si potrà avere soltanto quando il budino sarà in tavola. Per ora, tuttavia, va segnalato che quelli di Casini e Tremonti appaiono atti di ribellione a metà, perché mossi più dalla paura di restare intrappolati nella deriva berlusconiana che dal coraggio di contestare il vano titanismo del Cavaliere. Sarà un caso, infatti, eppure c'è un tema tipicamente bipartisan che sia il presidente della Camera sia il ministro dell'Economia si sono ben guardati dall'inserire nell'agenda del dialogo: quello della libertà d'informazione. Cioè, di quella contestata legge Gasparri, che risulta concepita soprattutto a difesa degli interessi aziendali di Silvio Berlusconi. Un'omissione eloquentissima.
E non basta. Nel caso specifico di Tremonti va segnalato che questi, appena socchiusa la porta al dialogo sulla legge per la tutela del risparmio, ha subito provveduto a fissare rigidi paletti. In particolare, dichiarando improponibile per l'Italia uno specifico istituto giuridico: quella 'class action' o azione di categoria che, negli Stati Uniti, costituisce sia un formidabile strumento di deterrenza contro gli abusi delle grandi corporation bancarie e industriali sia una via giudiziaria privilegiata per le richieste di risarcimento da parte della clientela più debole nei confronti dei giganti dell'economia.
Un simile veto getta una luce di forte ambiguità sulla mossa di Tremonti. Perché ripropone la vecchia concezione centralistica della tutela del risparmio, che si esaurisce nelle funzioni delle Autorità statali e rifiuta di offrire ai cittadini strumenti diretti di difesa dei propri diritti. Nel timore inconfessato che l'esercizio di questi ultimi possa disturbare i manovratori, vuoi del potere politico vuoi di quello economico. Sarà anche presto per pronosticare l'esito delle aperture tremontiane ma, se il buon giorno si riconosce dal mattino, sembra poco saggio farsi illusioni.
MEDITAZIONE
IL FOGLIO 18-3
(Direttore: Giuliano Ferrara
Azionista di riferimento: Lario Veronica in Berlusconi)
EDITORIALE
Una destra cialtrona
Il tradimento della parola data su una questione di coscienza: una vergogna
Il voto ad personam della destra parlamentare contro Adriano Sofri mostra chiaramente il carattere cialtrone della coalizione che governa questo paese. I suoi partiti, la maggioranza dei suoi deputati, il suo leader Silvio Berlusconi, uno che sa distrarsi come pochi altri quando non si tratti degli affari suoi, hanno dato una prova miserabile. Berlusconi aveva detto e scritto in coscienza, e si tratta della vita di un uomo e di un caso civile di evidente valore, che “sono maturi i tempi per la grazia a Sofri”. Da un anno e mezzo si è fatto prendere in giro da un manipolo di vecchi missini riciclati e dal capociurma delle tifoserie varesotte della Lega, e dopo avere ceduto a questi inflessibili garantisti, a questi combattenti strenui per la libertà e il diritto, ma solo in casa propria e a proprio vantaggio, dopo aver rinunciato a esercitare dignitosamente le sue prerogative di guida, ha pensato bene di dare lo squillo di tromba della ritirata: il Cav. non vuole grane prima delle elezioni, e la legge Boato vada a farsi fottere, e con la legge tutto, coscienza personale e ragionevolezza politica e civile di una soluzione umanitaria alla quale si frapponeva solo l’idiosincrasia per gli “intellettuali” del burocrate che fa le funzioni di Guardasigilli e di quattro mozzorecchi forcaioli. Noi sul caso Sofri non abbiamo mai fatto, da sedici anni a questa parte, cioè da un tempo in cui Berlusconi si occupava solo del Milan e delle sue tv, una battaglia ideologica o anche solo politica. Abbiamo detto quel che pensavamo nell’ordalia dei processi, abbiamo chinato il capo e messo la più rigorosa sordina al nostro convinto innocentismo di fronte ai verdetti finali, abbiamo chiesto un provvedimento di grazia per un prigioniero esemplare, che era stato un imputato esemplare dal punto di vista del funzionamento dello stato di diritto in una democrazia moderna. Ci è stato detto che avevamo ragione, che la nostra richiesta era condivisa, e alla fine che la soluzione Boato era “ragionevole”. Poi è stata tradita vergognosamente la parola data, e con un voto gaglioffo una legge che autorizzava il presidente della Repubblica a esercitare un potere che la Costituzione gli garantisce in via esclusiva è stata colpita e affondata per paura delle “pernacchie”, come ha detto Er Pecora, uno degli statisti della Casa delle libertà e della galera. Questo giornale è nato da un patto d’amicizia non servile con Berlusconi, ora dovrebbe chiudere all’istante, insieme con un’amicizia consumata. Essendo un giornale minimamente utile, andiamo avanti nella più assoluta libertà, senza più illusioni e senza rancori, finché la proprietà editoriale non deciderà di cacciarci. Poi ne faremo un altro, se possibile ancora più bello.
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L’UNITA’ on-line 18-3
BANNER
«Ho seguito con attenzione il dibattito alla Camera. Sono molto sollevato perché a un certo punto avevo fortemente temuto che un ultimo emendamento reintroducesse nel nostro codice la pena di morte».
Gianni Sofri, Ansa, 17 marzo
IL FOGLIO 18-3
(Direttore: Giuliano Ferrara
Azionista di riferimento: Lario Veronica in Berlusconi)
EDITORIALE
Una destra cialtrona
Il tradimento della parola data su una questione di coscienza: una vergogna
Il voto ad personam della destra parlamentare contro Adriano Sofri mostra chiaramente il carattere cialtrone della coalizione che governa questo paese. I suoi partiti, la maggioranza dei suoi deputati, il suo leader Silvio Berlusconi, uno che sa distrarsi come pochi altri quando non si tratti degli affari suoi, hanno dato una prova miserabile. Berlusconi aveva detto e scritto in coscienza, e si tratta della vita di un uomo e di un caso civile di evidente valore, che “sono maturi i tempi per la grazia a Sofri”. Da un anno e mezzo si è fatto prendere in giro da un manipolo di vecchi missini riciclati e dal capociurma delle tifoserie varesotte della Lega, e dopo avere ceduto a questi inflessibili garantisti, a questi combattenti strenui per la libertà e il diritto, ma solo in casa propria e a proprio vantaggio, dopo aver rinunciato a esercitare dignitosamente le sue prerogative di guida, ha pensato bene di dare lo squillo di tromba della ritirata: il Cav. non vuole grane prima delle elezioni, e la legge Boato vada a farsi fottere, e con la legge tutto, coscienza personale e ragionevolezza politica e civile di una soluzione umanitaria alla quale si frapponeva solo l’idiosincrasia per gli “intellettuali” del burocrate che fa le funzioni di Guardasigilli e di quattro mozzorecchi forcaioli. Noi sul caso Sofri non abbiamo mai fatto, da sedici anni a questa parte, cioè da un tempo in cui Berlusconi si occupava solo del Milan e delle sue tv, una battaglia ideologica o anche solo politica. Abbiamo detto quel che pensavamo nell’ordalia dei processi, abbiamo chinato il capo e messo la più rigorosa sordina al nostro convinto innocentismo di fronte ai verdetti finali, abbiamo chiesto un provvedimento di grazia per un prigioniero esemplare, che era stato un imputato esemplare dal punto di vista del funzionamento dello stato di diritto in una democrazia moderna. Ci è stato detto che avevamo ragione, che la nostra richiesta era condivisa, e alla fine che la soluzione Boato era “ragionevole”. Poi è stata tradita vergognosamente la parola data, e con un voto gaglioffo una legge che autorizzava il presidente della Repubblica a esercitare un potere che la Costituzione gli garantisce in via esclusiva è stata colpita e affondata per paura delle “pernacchie”, come ha detto Er Pecora, uno degli statisti della Casa delle libertà e della galera. Questo giornale è nato da un patto d’amicizia non servile con Berlusconi, ora dovrebbe chiudere all’istante, insieme con un’amicizia consumata. Essendo un giornale minimamente utile, andiamo avanti nella più assoluta libertà, senza più illusioni e senza rancori, finché la proprietà editoriale non deciderà di cacciarci. Poi ne faremo un altro, se possibile ancora più bello.
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L’UNITA’ on-line 18-3
BANNER
«Ho seguito con attenzione il dibattito alla Camera. Sono molto sollevato perché a un certo punto avevo fortemente temuto che un ultimo emendamento reintroducesse nel nostro codice la pena di morte».
Gianni Sofri, Ansa, 17 marzo
MANIFESTO 17-3
Sommario di I pag.
Febbre spagnola
La clamorosa vittoria dei socialisti in Spagna spaventa i sostenitori della guerra preventiva. Berlusconi reagisce a modo suo: con la censura. Cancellata Ballarò, trasmissione di Raitre dedicata al successo di Zapatero. In televisione non c'è spazio per raccontare la rivolta contro le bugie di Aznar. Ma il virus spagnolo disturba anche l'opposizione. Almeno quella che era pronta all'unità nazionale con la destra. La manifestazione di domani imbarazza i riformisti. Nessun imbarazzo invece nei pacifisti, sabato prossimo in piazza in tutto il mondo. Cominciando da Madrid.
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CITAZIONE
Ma intanto [Berlusconi – ndr] continua a vivere in un villaggio vacanze dove splende sempre il sole e l'unico problema è quali giochi organizzare dopocena. Ieri, parlando per la prima volta in pubblico dopo la strage, ha avuto parole rassicuranti: «Sui giornali si parla solo dei meriti di Ancelotti e mai dei miei». Si parla anche di Bin Laden, ma c'è chi le prime pagine riesce a saltarle, beato lui.
Massimo Gramellini, Stampa 17-3
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EUROPA on the Web 17-3
La faziosità berlusconiana “percepita“
Sorpresa: Porta a porta è filogovernativa
di (ni.col.)
Altro che “realtà percepita”. La straripante accoglienza riservata a Silvio Berlusconi, al governo e alla sua maggioranza da Bruno Vespa è una “realtà vera”, effettiva, confortata dalle cifre. Niente affatto falsata, come vorrebbe far credere il conduttore di Porta a porta, da una presunta mistificazione operata dalla sinistra. Perché a fare i conti, e la presidenza Rai li ha fatti, si scopre che proprio come accade nei tg, anche nel salotto politico di casa Raiuno il premier è sempre l’ospite di riguardo. E di questo, c’è da giurarci, gli italiani hanno sì una “percezione reale”. Quando venerdì scorso Vespa si è preso la briga di “sbugiardare” le malelingue dell’opposizione spiegando, dalle colonne del Corriere della sera, che al confronto di Francesco Rutelli e Piero Fassino il presidente del consiglio è per il pubblico di Porta a porta un perfetto sconosciuto, il sottosegretario Paolo Bonaiuti ha gridato ai quattro venti: «Ma questi qui conoscono il sentimento della vergogna?».
Una dichiarazione di sdegno, prontamente ripresa dal Tg1 delle 20. Ma se il portavoce di Berlusconi avesse preso fiato e fosse andato a vedere cosa scrive l’Osservatorio di Pavia alla voce «Tempo di parola dei politici ospiti di Bruno Vespa», si sarebbe risparmiato, lui sì, una bella figuraccia. Perché l’unico dato in grado di misurare, realmente, il pluralismo di un programma non è il numero di presenze di questo o quel politico, ma quanto questo o quel politico viene lasciato parlare. Sorvolando sul parterre (e se è più o meno compiacente, fa una bella differenza) dal primo gennaio all’11 marzo 2004, cronometro alla mano, Silvio Berlusconi ha totalizzato da Vespa ben 7.191 secondi di parlato, più di 119 minuti che fanno due ore in appena due interventi.
Il primo leader dell’opposizione per tempo di parola è Piero Fassino: 4.985 secondi, ossia 83 minuti, un’ora e 28. Segue Francesco Rutelli che “imperversa”, come ha puntualmente rilevato il fido Schifani, con 58 minuti. Superato anche da La Russa, che è riuscito a conquistare un minuto in più di lui. I dati aggregati restituiscono un quadro che ha poco a che fare con la “percezione”. Governo e maggioranza conquistano in poco più di due mesi 9 ore e 4 minuti (54,6% del totale); l’opposizione 6 ore e 50 minuti (41,2 %) le istituzioni 30 minuti (3 %); i radicali 12 (1,2 %).
Che ci sia, infine, anche lo zampino di Vespa sull’annullamento di Ballarò? Floris voleva occuparsi della vittoria del Psoe in Spagna e della lotta al terrorismo, argomento trattato però anche da Porta a porta. «È il solito metodo Cattaneo: due pesi e due misure», dice furibonda Lucia Annunziata. Ieri il direttore generale si è giustificato spiegando che il servizio pubblico non poteva non occuparsi dell’anniversario del rapimento Moro. L’altro ieri, invece, aveva detto che Floris si era già impegnato con Vespa per lo scambio di serata. Ma a Raitre non ne sapevano nulla. Cattaneo contraddice se stesso e sceglie la linea del rigore. Unilaterale, come sempre.
Sommario di I pag.
Febbre spagnola
La clamorosa vittoria dei socialisti in Spagna spaventa i sostenitori della guerra preventiva. Berlusconi reagisce a modo suo: con la censura. Cancellata Ballarò, trasmissione di Raitre dedicata al successo di Zapatero. In televisione non c'è spazio per raccontare la rivolta contro le bugie di Aznar. Ma il virus spagnolo disturba anche l'opposizione. Almeno quella che era pronta all'unità nazionale con la destra. La manifestazione di domani imbarazza i riformisti. Nessun imbarazzo invece nei pacifisti, sabato prossimo in piazza in tutto il mondo. Cominciando da Madrid.
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CITAZIONE
Ma intanto [Berlusconi – ndr] continua a vivere in un villaggio vacanze dove splende sempre il sole e l'unico problema è quali giochi organizzare dopocena. Ieri, parlando per la prima volta in pubblico dopo la strage, ha avuto parole rassicuranti: «Sui giornali si parla solo dei meriti di Ancelotti e mai dei miei». Si parla anche di Bin Laden, ma c'è chi le prime pagine riesce a saltarle, beato lui.
Massimo Gramellini, Stampa 17-3
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EUROPA on the Web 17-3
La faziosità berlusconiana “percepita“
Sorpresa: Porta a porta è filogovernativa
di (ni.col.)
Altro che “realtà percepita”. La straripante accoglienza riservata a Silvio Berlusconi, al governo e alla sua maggioranza da Bruno Vespa è una “realtà vera”, effettiva, confortata dalle cifre. Niente affatto falsata, come vorrebbe far credere il conduttore di Porta a porta, da una presunta mistificazione operata dalla sinistra. Perché a fare i conti, e la presidenza Rai li ha fatti, si scopre che proprio come accade nei tg, anche nel salotto politico di casa Raiuno il premier è sempre l’ospite di riguardo. E di questo, c’è da giurarci, gli italiani hanno sì una “percezione reale”. Quando venerdì scorso Vespa si è preso la briga di “sbugiardare” le malelingue dell’opposizione spiegando, dalle colonne del Corriere della sera, che al confronto di Francesco Rutelli e Piero Fassino il presidente del consiglio è per il pubblico di Porta a porta un perfetto sconosciuto, il sottosegretario Paolo Bonaiuti ha gridato ai quattro venti: «Ma questi qui conoscono il sentimento della vergogna?».
Una dichiarazione di sdegno, prontamente ripresa dal Tg1 delle 20. Ma se il portavoce di Berlusconi avesse preso fiato e fosse andato a vedere cosa scrive l’Osservatorio di Pavia alla voce «Tempo di parola dei politici ospiti di Bruno Vespa», si sarebbe risparmiato, lui sì, una bella figuraccia. Perché l’unico dato in grado di misurare, realmente, il pluralismo di un programma non è il numero di presenze di questo o quel politico, ma quanto questo o quel politico viene lasciato parlare. Sorvolando sul parterre (e se è più o meno compiacente, fa una bella differenza) dal primo gennaio all’11 marzo 2004, cronometro alla mano, Silvio Berlusconi ha totalizzato da Vespa ben 7.191 secondi di parlato, più di 119 minuti che fanno due ore in appena due interventi.
Il primo leader dell’opposizione per tempo di parola è Piero Fassino: 4.985 secondi, ossia 83 minuti, un’ora e 28. Segue Francesco Rutelli che “imperversa”, come ha puntualmente rilevato il fido Schifani, con 58 minuti. Superato anche da La Russa, che è riuscito a conquistare un minuto in più di lui. I dati aggregati restituiscono un quadro che ha poco a che fare con la “percezione”. Governo e maggioranza conquistano in poco più di due mesi 9 ore e 4 minuti (54,6% del totale); l’opposizione 6 ore e 50 minuti (41,2 %) le istituzioni 30 minuti (3 %); i radicali 12 (1,2 %).
Che ci sia, infine, anche lo zampino di Vespa sull’annullamento di Ballarò? Floris voleva occuparsi della vittoria del Psoe in Spagna e della lotta al terrorismo, argomento trattato però anche da Porta a porta. «È il solito metodo Cattaneo: due pesi e due misure», dice furibonda Lucia Annunziata. Ieri il direttore generale si è giustificato spiegando che il servizio pubblico non poteva non occuparsi dell’anniversario del rapimento Moro. L’altro ieri, invece, aveva detto che Floris si era già impegnato con Vespa per lo scambio di serata. Ma a Raitre non ne sapevano nulla. Cattaneo contraddice se stesso e sceglie la linea del rigore. Unilaterale, come sempre.
MANIFESTO 17-3
Il bastone di Monaco
GUGLIELMO RAGOZZINO
Monaco, da qualche anno, soprattutto da quando si è messo in movimento il popolo delle bandiere, è usato come un manganello contro i pacifisti. «Voi, quelli di Monaco» dicono con disprezzo i benpensanti, e ci accusano di tre intollerabili delitti in una volta sola: viltà, tradimento, ingratitudine. La viltà è quella di aver ceduto di fronte ad Adolf Hitler il 29 settembre del 1938, il tradimento quello nei confronti della Polonia, l'ingratitudine quella nei confronti dagli Stati uniti, venuti in Europa a salvarci dalla barbarie nazista. Su questa falsariga si muovono molti dei nostri maestri pensatori. Ieri è stato Angelo Panebianco, sul Corriere della sera, ma è solo l'ultimo di molti esempi. «Lo spirito di Monaco soffia sull'Europa» così comincia l'articolo di Panebianco che bolla come infausta la frase del vincitore delle elezioni spagnole, Zapatero: «ci ritireremo dall'Iraq entro il 30 giugno». José Luis Rodriguez Zapatero, che è nato nel `60 sotto Franco, il cui nonno è stato fucilato dai franchisti, anche lui è colpevole, è un vigliacco, proprio come il francese Daladier, come l'inglese Chamberlain, quelli che a Monaco hanno ceduto a Hitler, hanno comprato una pace di vergogna, tradendo il debole alleato, anzi lasciandolo nelle mani del tiranno. Di quei giorni di Monaco ci parla spesso Vittorio Foa. Li ricorda come i giorni peggiori della sua prigionia, forse della sua vita, quando ogni speranza sembrava perduta; ma che c'entrano Zapatero e i pacifisti di oggi?
Monaco è un bastone per colpire quelli che non si allineano con la guerra infinita degli Stati uniti. Gli editorialisti italiani hanno imparato a usare Monaco e ormai non fanno altro. Guardano alle manifestazioni di massa contro la guerra, del 2003, a quella del 20 marzo, le paragonano a quelle del 1938; ma scambiano le parti, per loro gli americani hanno sempre ragione, i pacifisti sempre torto. Tutto il resto ne discende, automaticamente. Allora si lasciò fare a Hitler, con i pessimi esiti che sappiamo, ergo oggi, per non ripetere l'errore mostruoso abbiamo fatto la guerra a Saddam che forse aveva armi di distruzione di massa. In effetti non ne aveva, si è saputo dopo, ma come potevano bastare 270 mila incursioni aeree soltanto in dieci anni, cosa si poteva vedere con quelle scarse decine di satelliti spia, con quel poco di intelligence sul campo: non si poteva pretendere di essere informati, con tanto poco. In ogni caso l'intenzione di Saddam era cattiva. E covava sotto la sabbia. E poi c'è sempre la «sporca bugia» (l'espressione è di Giuliano Ferrara) che è proibito ripetere: un'ennesima guerra per il controllo del petrolio mediorientale... In Italia Mussolini, al ritorno da Monaco `38 ebbe gli onori del trionfo: era lui il salvatore della pace. Ma Mussolini stava dalla parte dei forti, a Monaco. Le manifestazioni in favore della pace di allora erano di regime, quello che proprio in quei mesi varava le leggi razziali. Era il regime che tre anni prima aveva aggredito l'Etiopia, infischiandosene delle sanzioni della Società delle nazioni, come si chiamava l'Onu allora.
Il bastone di Monaco
GUGLIELMO RAGOZZINO
Monaco, da qualche anno, soprattutto da quando si è messo in movimento il popolo delle bandiere, è usato come un manganello contro i pacifisti. «Voi, quelli di Monaco» dicono con disprezzo i benpensanti, e ci accusano di tre intollerabili delitti in una volta sola: viltà, tradimento, ingratitudine. La viltà è quella di aver ceduto di fronte ad Adolf Hitler il 29 settembre del 1938, il tradimento quello nei confronti della Polonia, l'ingratitudine quella nei confronti dagli Stati uniti, venuti in Europa a salvarci dalla barbarie nazista. Su questa falsariga si muovono molti dei nostri maestri pensatori. Ieri è stato Angelo Panebianco, sul Corriere della sera, ma è solo l'ultimo di molti esempi. «Lo spirito di Monaco soffia sull'Europa» così comincia l'articolo di Panebianco che bolla come infausta la frase del vincitore delle elezioni spagnole, Zapatero: «ci ritireremo dall'Iraq entro il 30 giugno». José Luis Rodriguez Zapatero, che è nato nel `60 sotto Franco, il cui nonno è stato fucilato dai franchisti, anche lui è colpevole, è un vigliacco, proprio come il francese Daladier, come l'inglese Chamberlain, quelli che a Monaco hanno ceduto a Hitler, hanno comprato una pace di vergogna, tradendo il debole alleato, anzi lasciandolo nelle mani del tiranno. Di quei giorni di Monaco ci parla spesso Vittorio Foa. Li ricorda come i giorni peggiori della sua prigionia, forse della sua vita, quando ogni speranza sembrava perduta; ma che c'entrano Zapatero e i pacifisti di oggi?
Monaco è un bastone per colpire quelli che non si allineano con la guerra infinita degli Stati uniti. Gli editorialisti italiani hanno imparato a usare Monaco e ormai non fanno altro. Guardano alle manifestazioni di massa contro la guerra, del 2003, a quella del 20 marzo, le paragonano a quelle del 1938; ma scambiano le parti, per loro gli americani hanno sempre ragione, i pacifisti sempre torto. Tutto il resto ne discende, automaticamente. Allora si lasciò fare a Hitler, con i pessimi esiti che sappiamo, ergo oggi, per non ripetere l'errore mostruoso abbiamo fatto la guerra a Saddam che forse aveva armi di distruzione di massa. In effetti non ne aveva, si è saputo dopo, ma come potevano bastare 270 mila incursioni aeree soltanto in dieci anni, cosa si poteva vedere con quelle scarse decine di satelliti spia, con quel poco di intelligence sul campo: non si poteva pretendere di essere informati, con tanto poco. In ogni caso l'intenzione di Saddam era cattiva. E covava sotto la sabbia. E poi c'è sempre la «sporca bugia» (l'espressione è di Giuliano Ferrara) che è proibito ripetere: un'ennesima guerra per il controllo del petrolio mediorientale... In Italia Mussolini, al ritorno da Monaco `38 ebbe gli onori del trionfo: era lui il salvatore della pace. Ma Mussolini stava dalla parte dei forti, a Monaco. Le manifestazioni in favore della pace di allora erano di regime, quello che proprio in quei mesi varava le leggi razziali. Era il regime che tre anni prima aveva aggredito l'Etiopia, infischiandosene delle sanzioni della Società delle nazioni, come si chiamava l'Onu allora.
mercoledì, marzo 17, 2004
REPUBBLICA on-line 16-3
Berlusconi si prenota al governo
"Tra tre anni ancora premier"
ROMA - Posando la prima pietra del nuovo dipartimento d'emergenza dell'ospedale San Matteo di Pavia, che sarà completato tra tre anni, Silvio Berlusconi dà appuntamento ai dirigenti e al personale sanitario: "Mi prenoto per venire qui fra tre anni, sempre come responsabile del governo a inaugurare questa straordinaria realizzazione".
Alla nuova opera, garantisce il presidente del Consiglio, presterà una "attenzione assoluta" a nome suo e del governo affinché "venga realizzata nei tempi stabiliti e rappresenti un esempio d'eccellenza per tutti gli ospedali italiani".
Berlusconi coglie l'occasione della cerimonia a Pavia - alla quale erano presenti il ministro della Salute Girolamo Sirchia, quello dell'Economia Giulio Tremonti, quello del Welfare Roberto Maroni e il presidente della Regione Lombardia Roberto Formigoni - per sottolineare l'importanza della "politica del fare" contro quella di oggi, "fatta di parole". Parole che secondo il premier "troppe volte scadono negli insulti e nella disinformazione. Ci si vede attribuire cose mai dette e mai pensate".
Un esempio? Berlusconi rinvia alla voce riforma della scuola e dell'università, sulla quale, spiega il premier "c'è stata tanta disinformazione". Replicando al rettore dell'Università di Pavia, Roberto Schmid, che ha sollecitato una maggiore collaborazione tra ospedale e mondo della ricerca, Berlusconi aggiunge: "Noi per quanto riguarda la riforma dell'Università siamo aperti a tutti i suggerimenti migliorativi, da qualunque parte essi arrivino. Li accettiamo senza preconcetti".
Il problema è che altri fanno disinformazione e questo, sostiene il premier, "è motivo di angoscia per chi è chiamato a fare il bene del Paese e lo vuole fare. Per chi vorrebbe solo fare cose buone nell'interesse di tutti". "Per questo - commenta, rivolgendosi ai vertici dell'ospedale San Matteo e alle numerose autorità presenti - sono grato di essere qui a partecipare ad un progetto finito. Un progetto teso al bene e ad alleviare le sofferenze di chi è colpito dal male".
Berlusconi poi trova lo spazio per parlare del Milan, e lamentarsi, con un sorriso, del fatto che "si parla del Milan di Sacchi, di Zaccheroni e di Ancelotti e non si parla mai del Milan di Berlusconi. Eppure sono io che da 18 anni faccio le formazioni, detto le regole e compero i giocatori". Insomma, denuncia scherzoso il premier, "sembra che io non esista".
Nell'atmosfera autocelebrativa, con tanto di 'prenotazione' ufficiale per il prossimo governo, il presidente del Consiglio viene contestato da un gruppo di dipendenti dell'ospedale San Matteo, tra i quali alcuni in camice bianco che gli urlano "buffone". Ma il premier, anziché scomporsi come accaduto in passato, rivolge loro con tono evangelico un "Padre perdonali, non sanno cosa fanno". Poi chiede al vescovo di Pavia, Giovanni Giudici, che si appresta a benedire l'avvio dei lavori della nuova struttura, anche una "benedizione per quelli che proclamano la democrazia".
Durante la cerimonia all'esterno dell'ospedale si è anche svolta una manifestazione organizzata dalla Cgil Funzione pubblica San Matteo per chiedere di "difendere la sanità pubblica per garantire prestazioni di qualità ai cittadini e tutelare i diritti dei suoi operatori".
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STAMPA 16-3
La corrida è qui
Berlusconi avrebbe giurato che parlava di Eta-Beta
di Massimo Gramellini
Il primo politico al mondo a dichiarare che le elezioni spagnole le aveva vinte Bin Laden non è stato Aznar, ma Gustavo Selva. Mentre a Madrid andava in scena il minuetto sacro della democrazia, con i vincitori che esultavano composti e gli sconfitti che riconoscevano il risultato senza metterne in dubbio la validità, a Roma le trombette della destra denunciavano che il voto era stato falsato dagli attentati e i tromboni della sinistra si impossessavano impunemente della vittoria in contropiede di Zapatero, scoprendosi zapateristi dopo essere già stati lulisti, clintoniani e a mesi alterni pure blairiani, sempre in attesa di capire che cosa siano davvero.
Si può dunque immaginare ciò che sarebbe accaduto da noi in circostanze analoghe, nell'ipotesi remota che gli elettori italiani avessero punito le bugie del governo, con le quali convivono serenamente da almeno un secolo. Emilio Fede avrebbe invalidato la vittoria dell'Ulivo fin dagli exit poll, mostrando un fotomontaggio della moglie di Prodi col burqa. Di Pietro e Sabina Guzzanti avrebbero spiccato un mandato di cattura nei confronti di Forza Italia per concorso esterno in strage. Quanto a Berlusconi, si sarebbe barricato nel salotto di Vespa, giurando sui suoi figli che quando aveva parlato di Eta intendeva Eta Beta, il vero capo di Al Qaeda anche secondo il suo amico George Bush, e che in ogni caso le elezioni non erano perse perché bisognava ancora giocare il ritorno e stavolta la formazione l'avrebbe fatta lui.
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CORSERA 16-3
I timori del premier
Berlusconi e la «sindrome spagnola»
di MASSIMO FRANCO
Adesso, per Silvio Berlusconi lo scenario si complica. È venuto meno il principale alleato europeo di Palazzo Chigi; e la novità rende il centrodestra più esposto alle critiche e all’isolamento nel Vecchio continente. In fondo, José Maria Aznar era il perno dell’alleanza Stati Uniti-Gran Bretagna-Spagna, insieme con l’Italia. Il 16 marzo di un anno fa era stato lui a ospitare George Bush e Tony Blair alle Isole Azzorre per l’ultimo vertice prima della guerra contro Saddam Hussein. Quella che Berlusconi percepiva come la sponda più sicura, di colpo si è sgretolata. Così, un centrosinistra che rischiava la frattura coi pacifisti sulla missione a Nassiriya, corre ad abbracciare il socialista Josè Luis Zapatero; condivide l’ipotesi di un ritiro dei soldati entro il 30 giugno; e con Giuliano Amato lascia cadere gli inviti del governo al dialogo. E da Bruxelles, ieri Romano Prodi ha ripetuto che l’Europa era e rimane contro la guerra in Iraq. Insomma, tutti i segnali lasciano capire che l’opposizione si sente rafforzata. E non vuole concedere a Berlusconi una tregua in nome della lotta al terrorismo islamico. «Prodi» accusa Sandro Bondi, coordinatore di FI, «non aiuta l’unità».
Non è detto che invece Berlusconi la voglia davvero. Ma è un fatto che abbia invocato un fronte comune contro l’eversione. Conta relativamente che il segnale sia stato considerato poco distensivo, perché il premier ha intimato alla sinistra di uscire dalle ambiguità. Dopo il crollo dei popolari spagnoli, Berlusconi sa di essere più solo nell’Unione europea. E la maggioranza, seppure compatta, dà segni di confusione.
Probabilmente, pesa anche l’assenza dalla scena del capo della Lega, Umberto Bossi, tuttora in ospedale. Così, il ministro Roberto Maroni dice no alla manifestazione di domani proposta dal sindaco diessino di Firenze, Leonardo Domenici. Gustavo Selva, di An, arriva a sostenere che con la vittoria di José Luis Zapatero «Bin Laden segna un altro punto al suo attivo». E il vicepremier Gianfranco Fini, capo di An, è costretto a smentirlo indirettamente. Ma nel partito, la tesi di Selva ha un seguito.
Sono parole diverse da quelle del ministro dell’Udc, Rocco Buttiglione. Per lui, sono state sconfitte le «menzogne di Aznar». E il problema è «come venire via dall’Iraq». Si tratta di reazioni a caldo, ma non sembrano di buon auspicio. I giochi si sono riaperti; e non nella direzione più incoraggiante per il centrodestra. Quello che fino a due giorni fa era «il vantaggio Aznar», per Berlusconi rischia di diventare «la sindrome spagnola».
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IL RIFORMISTA 16-3
BERLUSCONI
La solitudine del premier
Uno alla volta, per motivi vari ma con effetti convergenti, Silvio Berlusconi sta perdendo i suoi migliori amici ed alleati. Si potrebbe cominciare seriamente a parlare della solitudine di Berlusconi. Umberto Bossi l’ha perso solo provvisoriamente; gli auguriamo di cuore di tornare presto a far tuonare il suo vocione per le cose in cui crede. Ma non va sottovalutata la gravità politica della sua assenza per il disegno politico del premier. Il leader della Lega è l’altra ruota dell’asse, è l’acceleratore quando gli altri frenano, è il contrappeso sulla bilancia, è quello che alza la voce quando il premier bisbiglia, e lo tira per la giacca quando lui tentenna. E’ l’incarnazione in canottiera dell’anima del leader, che resta padana e da partita Iva.
Ma l’amico Aznar il premier l’ha perso per sempre. E’ molto improbabile che nel tempo politico in cui Berlusconi resterà premier riuscirà a rivederlo tornare in sella. E Aznar non è solo un amico. E’ il traghettatore, lo sdoganatore, lo spallone che ha portato il Cavaliere in Europa, che l’ha fatto passare alla dogana del Partito popolare europeo, e che ha dato una dignità politica continentale a un movimento altrimenti molto personale e locale, fin dal nome - Forza Italia - senza parenti e quarti di nobiltà. Di più: Aznar è stato il mentore - in politica economica, in politica estera - e anche l’elastico che ha portato Berlusconi nell’orbita di Bush, un altro amico che il nostro premier deve ardentemente sperare di non perdere a novembre.
Quanto fosse importante Aznar per Berlusconi (e per Bush) lo si è capito dalla pedanteria con cui il governo italiano ha seguito la pista Eta, e il Foglio l’ha sostenuta anche mentre in Spagna arrestavano marocchini. Uno zelo inspiegabile per un governo di centrodestra impegnato tra i willing in Iraq, che avrebbe avuto tutto l’interesse a segnalare che siamo tutti a rischio, e che la guerra islamista non fa sconti. (Non a caso gli «amici» israeliani dicevano Jihad, e fin dalla prima ora). Ma la Moncloa così chiedeva, la De Palacio così scriveva, e l’ambasciatore così suggeriva. Ecco un caso tipico in cui un primo ministro può danneggiare se stesso per aiutare un amico.
Il danno che Berlusconi si è arrecato era evidente nell’intervista scritta ieri dal Foglio. Esprimendosi prima dei risultati spagnoli, e scommettendo sul successo di Aznar per costruire una linea in Italia, Berlusconi poneva condizioni al centrosinistra italiano, nella convinzione che la scoperta a Madrid di Al Qaeda potesse riaccendere un effetto Nassiriya, e provocare un rassemblement a guida governativa. Non sapeva Berlusconi - non poteva saperlo - che a giornale in edicola sarebbe stato il centrosinistra spagnolo vincente a porre condizioni ai willing, e dunque anche al governo italiano; non sapeva che la reazione del centrosinistra italiano sarà zapatera, non bipartisan, nella speranza di far il bis a Roma con un pacifismo soft.
Già Blair aveva annusato l’aria, ed era andato a stringere la mano a Chirac e Schroeder (mentre il bilaterale franco-italiano si rinvia da settimane). Aznar ora non c’è più. E presto arriverà il momento di decidere se la svolta in Iraq c’è stata o no, se restare con gli americani o no. Il giorno in cui la brigata «Plus ultra» spagnola dovesse davvero lasciare la Mesopotamia, quella solitudine si farà pericolosa. Coinciderà, più o meno, con la data delle elezioni europee.
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EUROPA on the Web 16-3
Una lezione per Berlusconi
Sono i trucchi che hanno rovinato Aznar
di STEFANO MENICHINI
Berlusconi è ancora più solo. Che stavolta non è uno slogan antiberlusconiano ma un importante dato di politica europea e italiana. L’uscita di scena di Aznar e la sconfitta dei suoi eredi toglie a Forza Italia l’alleato più stretto e potente, ideologicamente per molti aspetti più affine.
Che sia così, lo si ricava anche dalla linea adottata dal centrodestra: la Spagna è un incidente oscuro, un inquinamento, un regalo a bin Laden. Affermazioni talmente gravi si giustificano solo con la paura.
Innanzi tutto, con la paura di ritrovarsi in una situazione analoga. Che è la cosa più seria, perché evoca il timore, che abbiamo tutti, di una forte esposizione italiana al terrorismo di matrice islamica. Senza una politica positiva per il Medio oriente non possiamo che sentirci più insicuri. Il governo, nell’incapacità di una svolta nelle relazioni internazionali, sa solo mettere le mani avanti ed esorcizzare lo scenario spagnolo.
Poi c’è la paura del contagio. Zapatero ha vinto per le colpe altrui, però il Psoe era lì pronto a rappresentare – dopo un percorso durato anni – una alternativa credibile al Pp. Ricorda qualcosa questo? Ricorda che nei momenti cruciali occorre avere le carte in regola. I socialisti, per gli spagnoli, le avevano. È grave che dal centrodestra italiano si metta in dubbio l’eccezionale prova di democrazia di quel paese, dove due milioni e mezzo di persone che fino a tre giorni prima erano astensioniste hanno deciso di rispondere col voto alla sfida terrorista.
Ed è gravissimo che Berlusconi abbia mascherato dietro una finta proposta di unità d’azione contro il terrorismo una provocazione bell’e buona alle opposizioni, uno smaccato tentativo di dividerle: proprio trucchi così hanno perduto il suo amico spagnolo.
Le carte in regola, dicevamo. Contro il Psoe (come contro Kerry) vale zero l’accusa di debolezza contro il terrore.
La loro critica all’avventurismo militare è credibile perché non hanno mai messo sullo stesso piano chi mette le bombe e chi ne muore. Questa è la linea della stragrande maggioranza dell’Ulivo, e tale rimarrà anche nella prevedibile accentuazione pacifista che la sua politica avrà nei prossimi tempi.
Berlusconi si prenota al governo
"Tra tre anni ancora premier"
ROMA - Posando la prima pietra del nuovo dipartimento d'emergenza dell'ospedale San Matteo di Pavia, che sarà completato tra tre anni, Silvio Berlusconi dà appuntamento ai dirigenti e al personale sanitario: "Mi prenoto per venire qui fra tre anni, sempre come responsabile del governo a inaugurare questa straordinaria realizzazione".
Alla nuova opera, garantisce il presidente del Consiglio, presterà una "attenzione assoluta" a nome suo e del governo affinché "venga realizzata nei tempi stabiliti e rappresenti un esempio d'eccellenza per tutti gli ospedali italiani".
Berlusconi coglie l'occasione della cerimonia a Pavia - alla quale erano presenti il ministro della Salute Girolamo Sirchia, quello dell'Economia Giulio Tremonti, quello del Welfare Roberto Maroni e il presidente della Regione Lombardia Roberto Formigoni - per sottolineare l'importanza della "politica del fare" contro quella di oggi, "fatta di parole". Parole che secondo il premier "troppe volte scadono negli insulti e nella disinformazione. Ci si vede attribuire cose mai dette e mai pensate".
Un esempio? Berlusconi rinvia alla voce riforma della scuola e dell'università, sulla quale, spiega il premier "c'è stata tanta disinformazione". Replicando al rettore dell'Università di Pavia, Roberto Schmid, che ha sollecitato una maggiore collaborazione tra ospedale e mondo della ricerca, Berlusconi aggiunge: "Noi per quanto riguarda la riforma dell'Università siamo aperti a tutti i suggerimenti migliorativi, da qualunque parte essi arrivino. Li accettiamo senza preconcetti".
Il problema è che altri fanno disinformazione e questo, sostiene il premier, "è motivo di angoscia per chi è chiamato a fare il bene del Paese e lo vuole fare. Per chi vorrebbe solo fare cose buone nell'interesse di tutti". "Per questo - commenta, rivolgendosi ai vertici dell'ospedale San Matteo e alle numerose autorità presenti - sono grato di essere qui a partecipare ad un progetto finito. Un progetto teso al bene e ad alleviare le sofferenze di chi è colpito dal male".
Berlusconi poi trova lo spazio per parlare del Milan, e lamentarsi, con un sorriso, del fatto che "si parla del Milan di Sacchi, di Zaccheroni e di Ancelotti e non si parla mai del Milan di Berlusconi. Eppure sono io che da 18 anni faccio le formazioni, detto le regole e compero i giocatori". Insomma, denuncia scherzoso il premier, "sembra che io non esista".
Nell'atmosfera autocelebrativa, con tanto di 'prenotazione' ufficiale per il prossimo governo, il presidente del Consiglio viene contestato da un gruppo di dipendenti dell'ospedale San Matteo, tra i quali alcuni in camice bianco che gli urlano "buffone". Ma il premier, anziché scomporsi come accaduto in passato, rivolge loro con tono evangelico un "Padre perdonali, non sanno cosa fanno". Poi chiede al vescovo di Pavia, Giovanni Giudici, che si appresta a benedire l'avvio dei lavori della nuova struttura, anche una "benedizione per quelli che proclamano la democrazia".
Durante la cerimonia all'esterno dell'ospedale si è anche svolta una manifestazione organizzata dalla Cgil Funzione pubblica San Matteo per chiedere di "difendere la sanità pubblica per garantire prestazioni di qualità ai cittadini e tutelare i diritti dei suoi operatori".
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STAMPA 16-3
La corrida è qui
Berlusconi avrebbe giurato che parlava di Eta-Beta
di Massimo Gramellini
Il primo politico al mondo a dichiarare che le elezioni spagnole le aveva vinte Bin Laden non è stato Aznar, ma Gustavo Selva. Mentre a Madrid andava in scena il minuetto sacro della democrazia, con i vincitori che esultavano composti e gli sconfitti che riconoscevano il risultato senza metterne in dubbio la validità, a Roma le trombette della destra denunciavano che il voto era stato falsato dagli attentati e i tromboni della sinistra si impossessavano impunemente della vittoria in contropiede di Zapatero, scoprendosi zapateristi dopo essere già stati lulisti, clintoniani e a mesi alterni pure blairiani, sempre in attesa di capire che cosa siano davvero.
Si può dunque immaginare ciò che sarebbe accaduto da noi in circostanze analoghe, nell'ipotesi remota che gli elettori italiani avessero punito le bugie del governo, con le quali convivono serenamente da almeno un secolo. Emilio Fede avrebbe invalidato la vittoria dell'Ulivo fin dagli exit poll, mostrando un fotomontaggio della moglie di Prodi col burqa. Di Pietro e Sabina Guzzanti avrebbero spiccato un mandato di cattura nei confronti di Forza Italia per concorso esterno in strage. Quanto a Berlusconi, si sarebbe barricato nel salotto di Vespa, giurando sui suoi figli che quando aveva parlato di Eta intendeva Eta Beta, il vero capo di Al Qaeda anche secondo il suo amico George Bush, e che in ogni caso le elezioni non erano perse perché bisognava ancora giocare il ritorno e stavolta la formazione l'avrebbe fatta lui.
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CORSERA 16-3
I timori del premier
Berlusconi e la «sindrome spagnola»
di MASSIMO FRANCO
Adesso, per Silvio Berlusconi lo scenario si complica. È venuto meno il principale alleato europeo di Palazzo Chigi; e la novità rende il centrodestra più esposto alle critiche e all’isolamento nel Vecchio continente. In fondo, José Maria Aznar era il perno dell’alleanza Stati Uniti-Gran Bretagna-Spagna, insieme con l’Italia. Il 16 marzo di un anno fa era stato lui a ospitare George Bush e Tony Blair alle Isole Azzorre per l’ultimo vertice prima della guerra contro Saddam Hussein. Quella che Berlusconi percepiva come la sponda più sicura, di colpo si è sgretolata. Così, un centrosinistra che rischiava la frattura coi pacifisti sulla missione a Nassiriya, corre ad abbracciare il socialista Josè Luis Zapatero; condivide l’ipotesi di un ritiro dei soldati entro il 30 giugno; e con Giuliano Amato lascia cadere gli inviti del governo al dialogo. E da Bruxelles, ieri Romano Prodi ha ripetuto che l’Europa era e rimane contro la guerra in Iraq. Insomma, tutti i segnali lasciano capire che l’opposizione si sente rafforzata. E non vuole concedere a Berlusconi una tregua in nome della lotta al terrorismo islamico. «Prodi» accusa Sandro Bondi, coordinatore di FI, «non aiuta l’unità».
Non è detto che invece Berlusconi la voglia davvero. Ma è un fatto che abbia invocato un fronte comune contro l’eversione. Conta relativamente che il segnale sia stato considerato poco distensivo, perché il premier ha intimato alla sinistra di uscire dalle ambiguità. Dopo il crollo dei popolari spagnoli, Berlusconi sa di essere più solo nell’Unione europea. E la maggioranza, seppure compatta, dà segni di confusione.
Probabilmente, pesa anche l’assenza dalla scena del capo della Lega, Umberto Bossi, tuttora in ospedale. Così, il ministro Roberto Maroni dice no alla manifestazione di domani proposta dal sindaco diessino di Firenze, Leonardo Domenici. Gustavo Selva, di An, arriva a sostenere che con la vittoria di José Luis Zapatero «Bin Laden segna un altro punto al suo attivo». E il vicepremier Gianfranco Fini, capo di An, è costretto a smentirlo indirettamente. Ma nel partito, la tesi di Selva ha un seguito.
Sono parole diverse da quelle del ministro dell’Udc, Rocco Buttiglione. Per lui, sono state sconfitte le «menzogne di Aznar». E il problema è «come venire via dall’Iraq». Si tratta di reazioni a caldo, ma non sembrano di buon auspicio. I giochi si sono riaperti; e non nella direzione più incoraggiante per il centrodestra. Quello che fino a due giorni fa era «il vantaggio Aznar», per Berlusconi rischia di diventare «la sindrome spagnola».
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IL RIFORMISTA 16-3
BERLUSCONI
La solitudine del premier
Uno alla volta, per motivi vari ma con effetti convergenti, Silvio Berlusconi sta perdendo i suoi migliori amici ed alleati. Si potrebbe cominciare seriamente a parlare della solitudine di Berlusconi. Umberto Bossi l’ha perso solo provvisoriamente; gli auguriamo di cuore di tornare presto a far tuonare il suo vocione per le cose in cui crede. Ma non va sottovalutata la gravità politica della sua assenza per il disegno politico del premier. Il leader della Lega è l’altra ruota dell’asse, è l’acceleratore quando gli altri frenano, è il contrappeso sulla bilancia, è quello che alza la voce quando il premier bisbiglia, e lo tira per la giacca quando lui tentenna. E’ l’incarnazione in canottiera dell’anima del leader, che resta padana e da partita Iva.
Ma l’amico Aznar il premier l’ha perso per sempre. E’ molto improbabile che nel tempo politico in cui Berlusconi resterà premier riuscirà a rivederlo tornare in sella. E Aznar non è solo un amico. E’ il traghettatore, lo sdoganatore, lo spallone che ha portato il Cavaliere in Europa, che l’ha fatto passare alla dogana del Partito popolare europeo, e che ha dato una dignità politica continentale a un movimento altrimenti molto personale e locale, fin dal nome - Forza Italia - senza parenti e quarti di nobiltà. Di più: Aznar è stato il mentore - in politica economica, in politica estera - e anche l’elastico che ha portato Berlusconi nell’orbita di Bush, un altro amico che il nostro premier deve ardentemente sperare di non perdere a novembre.
Quanto fosse importante Aznar per Berlusconi (e per Bush) lo si è capito dalla pedanteria con cui il governo italiano ha seguito la pista Eta, e il Foglio l’ha sostenuta anche mentre in Spagna arrestavano marocchini. Uno zelo inspiegabile per un governo di centrodestra impegnato tra i willing in Iraq, che avrebbe avuto tutto l’interesse a segnalare che siamo tutti a rischio, e che la guerra islamista non fa sconti. (Non a caso gli «amici» israeliani dicevano Jihad, e fin dalla prima ora). Ma la Moncloa così chiedeva, la De Palacio così scriveva, e l’ambasciatore così suggeriva. Ecco un caso tipico in cui un primo ministro può danneggiare se stesso per aiutare un amico.
Il danno che Berlusconi si è arrecato era evidente nell’intervista scritta ieri dal Foglio. Esprimendosi prima dei risultati spagnoli, e scommettendo sul successo di Aznar per costruire una linea in Italia, Berlusconi poneva condizioni al centrosinistra italiano, nella convinzione che la scoperta a Madrid di Al Qaeda potesse riaccendere un effetto Nassiriya, e provocare un rassemblement a guida governativa. Non sapeva Berlusconi - non poteva saperlo - che a giornale in edicola sarebbe stato il centrosinistra spagnolo vincente a porre condizioni ai willing, e dunque anche al governo italiano; non sapeva che la reazione del centrosinistra italiano sarà zapatera, non bipartisan, nella speranza di far il bis a Roma con un pacifismo soft.
Già Blair aveva annusato l’aria, ed era andato a stringere la mano a Chirac e Schroeder (mentre il bilaterale franco-italiano si rinvia da settimane). Aznar ora non c’è più. E presto arriverà il momento di decidere se la svolta in Iraq c’è stata o no, se restare con gli americani o no. Il giorno in cui la brigata «Plus ultra» spagnola dovesse davvero lasciare la Mesopotamia, quella solitudine si farà pericolosa. Coinciderà, più o meno, con la data delle elezioni europee.
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EUROPA on the Web 16-3
Una lezione per Berlusconi
Sono i trucchi che hanno rovinato Aznar
di STEFANO MENICHINI
Berlusconi è ancora più solo. Che stavolta non è uno slogan antiberlusconiano ma un importante dato di politica europea e italiana. L’uscita di scena di Aznar e la sconfitta dei suoi eredi toglie a Forza Italia l’alleato più stretto e potente, ideologicamente per molti aspetti più affine.
Che sia così, lo si ricava anche dalla linea adottata dal centrodestra: la Spagna è un incidente oscuro, un inquinamento, un regalo a bin Laden. Affermazioni talmente gravi si giustificano solo con la paura.
Innanzi tutto, con la paura di ritrovarsi in una situazione analoga. Che è la cosa più seria, perché evoca il timore, che abbiamo tutti, di una forte esposizione italiana al terrorismo di matrice islamica. Senza una politica positiva per il Medio oriente non possiamo che sentirci più insicuri. Il governo, nell’incapacità di una svolta nelle relazioni internazionali, sa solo mettere le mani avanti ed esorcizzare lo scenario spagnolo.
Poi c’è la paura del contagio. Zapatero ha vinto per le colpe altrui, però il Psoe era lì pronto a rappresentare – dopo un percorso durato anni – una alternativa credibile al Pp. Ricorda qualcosa questo? Ricorda che nei momenti cruciali occorre avere le carte in regola. I socialisti, per gli spagnoli, le avevano. È grave che dal centrodestra italiano si metta in dubbio l’eccezionale prova di democrazia di quel paese, dove due milioni e mezzo di persone che fino a tre giorni prima erano astensioniste hanno deciso di rispondere col voto alla sfida terrorista.
Ed è gravissimo che Berlusconi abbia mascherato dietro una finta proposta di unità d’azione contro il terrorismo una provocazione bell’e buona alle opposizioni, uno smaccato tentativo di dividerle: proprio trucchi così hanno perduto il suo amico spagnolo.
Le carte in regola, dicevamo. Contro il Psoe (come contro Kerry) vale zero l’accusa di debolezza contro il terrore.
La loro critica all’avventurismo militare è credibile perché non hanno mai messo sullo stesso piano chi mette le bombe e chi ne muore. Questa è la linea della stragrande maggioranza dell’Ulivo, e tale rimarrà anche nella prevedibile accentuazione pacifista che la sua politica avrà nei prossimi tempi.
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