venerdì, gennaio 30, 2004

REPUBBLICA on-line 27-1

CARTA CANTA

di Marco Travaglio

Sembra ieri

''Nessun partito della provvidenza, nessuna alleanza potrà fare miracoli... Anche se ci fosse Gesù Cristo non riuscirebbe a farli e Berlusconi, più che Gesù Cristo, mi sembra Lazzaro: il miracolato dal vecchio sistema dei partiti".

(Ferdinando Adornato, Ansa, 28 febbraio 1994)

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Berlusconi all’assalto del Quirinale

di MASSIMO GIANNINI

"UNTO" per la seconda volta dallo Spirito Santo nel rito mistico del decennale di Forza Italia, Silvio Berlusconi inaugura la "fase due" della legislatura con un duplice obiettivo: schiantare avversari e alleati alle elezioni europee di giugno, sfiancare Ciampi per costringerlo alle dimissioni anticipate dal Quirinale nel 2006. Il primo obiettivo è palese, e quasi scontato: risponde alla fisiologia dei rapporti di forza con la quale si è forgiato l'Imprenditore d'Italia. Il secondo obiettivo è nascosto, e desta qualche inquietudine: conferma la genesi patologica del populismo berlusconiano.

Con l'attacco all'euro di venerdì scorso, malgrado la debole e solo apparente correzione di rotta nel discorso pronunciato al Palaeur, il Cavaliere rende manifesto un conflitto istituzionale che in quest'ultimo anno era solo latente. Tra il presidente del Consiglio e il presidente della Repubblica si è esaurita da tempo la fase della cooperazione. Ma dopo il rinvio alle Camere della legge Gasparri rischia di essere superata persino la fase della "coabitazione all'italiana" alla quale ormai si era acconciato lo stesso Ciampi. Quel rapporto "minimo" tra due entità statuali, sempre più distinte e sempre più distanti, che tuttavia conservano almeno il rispetto formale imposto dal galateo istituzionale.

Ormai non c'è neanche più questo, nelle parole risentite pronunciate dal premier la settimana scorsa, e soprattutto nei suoi fragorosi silenzi di queste ultime ore. L'offensiva di Berlusconi contro la moneta unica è eloquente: nel brandire la "clava azzurra" che bastonerà i governi dell'Ulivo per tutta la campagna elettorale, il Cavaliere non può non aver calcolato che sotto i suoi colpi sarebbe finito non solo Romano Prodi, ma prima di lui il Capo dello Stato.

Non può non aver valutato l'impatto dell'assalto orchestrato dal Carroccio. Sull'euro, dalla piazza di Milano, Bossi declina alla simpatica maniera leghista l'attacco iniziale dell'uomo di Arcore. "La rapina del millennio", la chiama. E non gli basta: "La moneta amata dai massoni", aggiunge. Berlusconi ascolta. E tace. Sulle banche e il caso Parmalat Mario Borghezio lancia il tipico anatema padano: "Il cameriere Ciampi deve imparare la lezione". Berlusconi ascolta. E tace.

Sul tricolore Alessandro Cè sibila la rituale minaccia nordista: "Ciampi deve essere il presidente di tutti, oppure ci pensiamo noi". Berlusconi ascolta. E tace.

C'è qualcosa di più, rispetto alla voglia esplicita di cavalcare un tema attuale e popolare, che anche a costo dell'ennesima manipolazione della verità può portare comunque voti al "partito personale". C'è qualcosa di più, rispetto alla volontà implicita di rafforzare, dentro la rissosa coalizione di centrodestra impegnata da oltre sette mesi in una "verifica permanente", il governo delle "due B" (Berlusconi-Bossi) contro il sub-governo delle "due F" (Fini-Follini). Quel "di più" - che se non è il movente previsto è quanto meno l'effetto prevedibile della mossa del Cavaliere - si può intuire facilmente.

Offuscare l'immagine del Quirinale. Delegittimare chi lo occupa. Metterlo sotto pressione, di qui alla fine del 2006. Per lavare l'onta della mancata promulgazione di una riforma delle tv rigorosamente incardinata sul "Sic", senza il quale Mediaset cederebbe una concessione sul mercato televisivo e perderebbe quote sul mercato pubblicitario. Per vendicare la bocciatura del Lodo Schifani da parte della Consulta, sulla cui legittimità qualche ufficio del Colle aveva forse dato qualche garanzia riservata ai consiglieri di Palazzo Grazioli.

È una sommessa "dichiarazione di guerra" al Quirinale. E postula una battaglia finale. L'elezione del prossimo presidente della Repubblica. Berlusconi - secondo gli inquilini della Casa delle Libertà che lo frequentano - è sfibrato dalla seconda esperienza a Palazzo Chigi. L'"uomo del fare", oggi come nel 1994, non regge le vischiose e paralizzanti liturgie del "teatrino della politica". Ha dimostrato di saper vincere, non di saper governare. Ma scarica le responsabilità sul "sistema", non riconoscendo il sorprendente deficit di leadership che ha obiettivamente dimostrato in questi due anni e mezzo.

Per questo è tornato ad accarezzare il suo grande sogno. Succedere a Ciampi, facendosi eleggere da questo Parlamento, nel quale la coalizione che lo sostiene conta su una maggioranza totale, tra Camera e Senato, di 169 seggi rispetto all'Ulivo. Per riuscirci, il Cavaliere ha bisogno che Ciampi (volente o nolente) lasci il Colle in anticipo rispetto alla scadenza naturale del settennato.

Il rischio è che di qui alla fine della legislatura si apra una stagione di scontro sistemico. È probabile che Berlusconi usi tutti gli strumenti che ha a disposizione - dalla campagna di discredito sull'euro al super-premierato previsto nel pacchetto di Lorenzago - per indurre il presidente della Repubblica a gettare la spugna prima dell'aprile 2006 (ultimo mese della presidenza Ciampi) e prima del giugno 2006 (ultimo mese di "vita" dell'attuale Parlamento). Questo si nasconde, dietro le ultime manovre del premier. Ormai ne parlano apertamente anche i suoi alleati della Cdl.

Con qualche preoccupazione. Non si può spiegare diversamente la ferma difesa di Ciampi, e l'aspra controffensiva su Berlusconi e Bossi, che proprio sul tema cruciale dell'euro è arrivata ieri dal leader dell'Udc Marco Follini, con l'ovvia benedizione del presidente della Camera, Pier Ferdinando Casini. Sulla stessa frequenza si muove Gianfranco Fini: il vicepremier non dimentica che l'unica scelta autenticamente bipartisan compiuta dai Poli nella travagliata transizione del maggioritario all'italiana è stata proprio l'elezione di Ciampi alla presidenza della Repubblica. Un "patrimonio" modesto, se si vuole, ma il leader di An non vuole lasciarlo alla sinistra.

Ancora una volta, quello che Marco Tarchi chiama "il sottofondo plebiscitario del populismo di Berlusconi" tende a far premio su tutto. Sulle maggioranze e sulle opposizioni. Sulle regole e sulle istituzioni. La sovranità del popolo, al quale il Cavaliere si rivolge senza mediazioni, non può sopportare limiti di sorta. Il fatto nuovo, e confortante, è che Ciampi non gli farà cortesie "indebite". Come ripete da mesi a chi va a trovarlo sul Colle, e come ha già annunciato sabato nella sua Livorno, resterà al suo posto "per altri due anni e tre mesi", cioè fino all'ultimo giorno del suo mandato. Nessuno glielo aveva chiesto. Il fatto che abbia sentito il bisogno di dirlo vuol dire che il Capo dello Stato non accetterà compromessi.

In quasi cinque anni, di fronte alla retorica telecratica del premier e agli allarmi "anti-regime" dei girotondi, ha opposto una "resistenza" leale, equidistante e mai "partigiana" sulle questioni di fondo. Oggi si può permettere di fare qualsiasi "battaglia". In nome della Repubblica e del popolo italiano, che rappresenta molto di più di chi vorrebbe "sfrattarlo".

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CORSERA 27-1

I CONTROPOTERI ANNICHILITI

Berlusconi ci propone l’ esatto contrario di tutti i dettati del costituzionalismo

di GIOVANNI SARTORI

Qualche giorno fa scrivevo della riforma costituzionale in corso e promettevo un seguito. In quell’articolo accettavo la dizione di Giuliano Amato di «dittatura della maggioranza», ma la raddoppiavo, per così dire, dicendo che la riforma prefigurava una dittatura del premier sulla dittatura della sua maggioranza. Esageravo? Mica tanto (…)

Dunque, la democrazia liberale - che fa tutt’uno con la democrazia costituzionale - è data da un sistema di poteri limitati da contropoteri e da regole di comando che limitano il diritto di maggioranza.

Invece il governo Berlusconi ci propone - con il disegno di legge 2544 - lo smantellamento dei contropoteri e regole di comando che schiacciano l’opposizione. L’esatto contrario, allora, di tutti i dettati del costituzionalismo.

Prendiamo il caso emblematico di come viene trasformata la figura del capo dello Stato. In primo luogo, l’elezione diretta del premier - dichiarata o camuffata che sia - priva il presidente della Repubblica del potere di designarlo (su indicazione, beninteso, della maggioranza parlamentare).

Inoltre Berlusconi chiede per il capo del governo il potere di sciogliere la Camera dei rappresentanti. E queste due amputazioni già bastano a configurare il capo dello Stato come un potere senza potere (che conti).

Aggiungi che il prossimo capo dello Stato sarà eletto, con ogni probabilità, a maggioranza semplice, e quindi che sarà scelto da Berlusconi. Anche la Costituzione del ’48 prevedeva che dopo il terzo scrutinio il Presidente della Repubblica venisse eletto a maggioranza semplice. Ma l’applicazione «moderata» del principio maggioritario ha sempre fatto cercare una più ampia maggioranza.

È chiaro che questa remora non esiste più. Il futuro capo dello Stato sarà un «signorsì». Il che capovolge il problema e rende stupido (al fine di frenare il premier) rafforzare il Capo dello Stato. Per esempio, se potrà nominare 4-5 giudici costituzionali aiuterà Berlusconi a catturare la Consulta. Sarebbe un altro contropotere che se ne va. E così via.

Alla fine restiamo con un «premier assoluto» caratterizzato da un potere soverchiante. Il Re Sole diceva «lo Stato sono io». Hitler diceva «la costituzione sono io». La differenza è che Berlusconi si sottomette a elezioni. Ma se le vincesse tutte?

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IL RIFORMISTA 27-1

BERLUSCONIANA

You don't know the history di Blefagor e del profumo Extreme

Cara Miriam, quando Petit Chou è tornato in Sardegna dalla Svizzera con il viso completamente rifatto, la reazione più divertente è stata quella di Barbara. Accortasi che l'occhio destro del padre aveva una strana e innaturale rigidità per effetto dell'intervento alle palpebre - o blefaroplastica come in molti hanno imparato a dire nelle ultime due settimane - mi si è avvicinata e sottovoce mi ha sussurrato all'orecchio: «E' arrivato Blefagor». Ho dovuto faticare per convincere Petit Chou che la mia esplosione di risa nulla aveva a che fare col suo viso nuovo. Suscettibile com'è, figurati. Alla fine si è preso tutti i complimenti che si aspettava di ricevere, anche quelli del personale di servizio che era stato convocato per l'occasione, e si è ritirato in camera da letto. L'ho raggiunto ma non l'ho trovato disteso sul letto come mi sarei aspettata; no, era in piedi, in bagno, davanti al mio specchio, quello con le lampadine tutte intorno, e a petto nudo non la finiva di rimirarsi. Quanto si piaceva. Così tanto che nei giorni successivi appena poteva tornava a specchiarsi. Un giorno l'ho sorpreso, sempre a petto nudo, che stava provando i miei profumi.

Susskind e gli umori. E mentre lo osservavo dalla camera da letto senza essere vista, mi è tornata alla mente una strana intervista che avevo letto di recente sul mio giornale. A un certo Berselli mi sembra, che parlava di un Petit Chou al cubo, «di un formidabile concentrato d'immagine raggrumato in un solo punto, come la lente quando brucia la carta». Con questa storia del lifting, insomma, Petit Chou avrebbe sublimato l'essenza della propria immagine pubblica creando un superconcentrato di se stesso, dal peso specifico immenso, di fronte al quale i normali temi che si dibattono in politica si sarebbero sciolti come neve al sole (o perlomeno questo mi sembra di aver capito). Mi sono trovata a pensare che c'è un prodotto che più di ogni altro esprime l'essenza di qualcosa, e questo prodotto è il profumo (di cui Petit Chou in quel momento stava facendo scempio aprendo e provando una boccetta dopo l'altra). Mi sono sentita come il profumiere del romanzo di Susskind e ho immaginato di raccogliere di nascosto gli umori di Petit Chou per ricavarne la più strabiliante delle essenze: Petit Chou Extreme? No, improponibile. Alla fine ho optato per «Silviò», con l'accento sulla «o», questo poteva essere il nome del profumo che più di ogni altro artificio avrebbe potuto garantirgli l'immortalità, altro che i fondali azzurri.

Allora crepa. Avrei potuto interrompere la sua estasi ipnotica davanti allo specchio e raccontargli la mia idea che, per quanto balzana, avrebbe acceso, sono sicura, la sua immaginazione. E sabato, alla convention per il decennale, insieme alla Carta dei Valori gli intervenuti si sarebbero visti offrire una boccetta di prezioso «Silviò» di cui avrebbero parlato i giornali di tutto il mondo, e che avrebbe mandato in deliquio i suoi fan più innamorati. E non solo loro. Perché, come ha scritto Susskind nel suo libro, «colui che domina gli odori, domina il cuore degli uomini». Questo avrei potuto raccontargli, dopodiché si sarebbero dovuti buttare tutti i manuali di politica e riscriverli di nuovo. Ma non l'ho fatto. Quando è sparito per un mese a chi credi che abbia rubato l'idea del fascino dell'invisibilità? Mi ha detto grazie? E allora crepa!

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CITAZIONI

da LIBERAZIONE 27-1

Un'ora e 40 minuti di "divinazione" per il premier

Un'ora e quaranta minuti di «divinazione», direbbe Antonio Padellaro, da vera apertura di campagna elettorale. In onda - quasi a "reti unificate" - su Rete4, La7 e Rainews24 il Cavaliere ha occupato di nuovo il tubo catodico nel decennale dei festeggiamenti del suo "partito-azienda". Ma - dicono in molti - ormai non sorprende più. Lo show è uno spettacolo "dejavu" di ridondante informazione che - fa notare qualche analista - non ha solo provocato un effetto assuefazione ma più propriamente di indifferenza. Data, soprattutto, l'opacità dei contenuti. Anche perché i discorsi sono una vera ripetizione di quella lontana "discesa in campo" targata 26 gennaio 1994. Non mancano, come allora, i violenti attacchi ai magistrati, all'opposizione e ai comunisti.

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Pierluigi Battista - editorialista de "La Stampa"

Il solito schema manicheo

Mi è sembrato, se così posso dire, «il ritorno del sempre eguale». Malgrado il lifting, la cosmesi, il ringiovanimento, il meccanismo è quello: la ripetizione di un modulo antico, il one man show che si identifica fino in fondo con il proprio "popolo" ed anzi, talora con lo Spirito Santo. Uno schema manicheo: di qua, l'Italia libera che produce la ricchezza, che lavora, di là l'Italia del male. Funzionerà, dal punto di vista elettorale? Forse. Annoterei che, forse, il ringiovanimento fisico, quello della faccia, è funzionale a questa totale reimmersione nelle acque del '94. Berlusconi - nel quale da sempre convivono il "moderato" ed il "rivoluzionario" - l'erede del vecchio sistema che raccolse l'elettorato dei partiti moderati e neocentristi, e il figlio della rottura antipolitica - non può che puntare oggi su una dignitosa performance alle europee. Per questo torna sul terreno che per lui è stato sempre garante di successo.

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Giorgio Bocca - commentatore de "L'Espresso"

Questo è un regime fascista

Berlusconi non fa altro che dire che la sua democrazia che io definisco autoritaria non è fascismo. Invece ha tutti i caratteri del fascismo. Le manifestazioni dei decennali sono state manifestazioni tipiche di regime. Erano in tanti, forti e padroni. Ma ormai il Cavaliere non ha più misteri per nessuno. Tutto quello che fa è prevedibile. Può darsi che dieci anni fa ci fosse la necessità - come sostiene qualcuno - di un partito come Forza Italia, "privo di ideologia". Ma forse è stato soprattutto un desiderio di anarchia e - aggiungo - di classismo. Intanto, l'economia ristagna e il tenore di vita di tutti sta peggiorando.

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Furio Colombo - direttore dell'"Unità"

Una messa in scena paleosovietica

L'intervento di Berlusconi mi ha fatto una particolare impressione per la qualità paleosovietica della messa in scena. Gli ingredienti sono: una folla comandata, che fa le ovazioni giuste nel momento giusto; un discorso di autoesaltazione di sè. Un po' fanatico nella denigrazione degli avversari, definiti comunque "comunisti" (che nel suo linguaggio vuol dire "assassini" di ieri e "nemici del popolo" di oggi); una conduzione solitaria e personale della politica sia di un vasto aggregato che non riesce ad essere un partito, sia - per nostra sfortuna - del Paese. Non a caso la Cnn ha trasmesso una parte dell'evento chiamandolo "spettacolo" e soffermandosi a lungo sul «ritocco facciale» di Berlusconi («visto che» - come ha detto il commentatore della rete tv americana «dal punto di vista politico non ha detto una sola cosa nuova»). La Tv Usa ha anche osservato che il discorso del Cavaliere è stato trasmesso, nella sua veste di inviato del destino per salvare l'talia, dalle televisioni di sua proprietà. Proprio un brutto periodo per questo paese, soggetto alla prepotenza di un uomo che per giunta crede che i suoi interessi personali siano l'interesse generale.

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Stefano Folli - direttore del "Corriere della Sera"

Ritorno alle origini

Berlusconi, mi pare, torna alle origini. Il suo discorso è quasi "senza tempo": potrebbe essere di dieci, di cinque o di un anno fa. Non avendo completato quel percorso istituzionale che sarebbe stato auspicabile, il premier torna a puntare tutto sull'immagine di sè, senza dare spazio neppure ai propri alleati. Da quel protagonista di campagne elettorali quale è sempre stato, ma senza registrare molto i grandi mutamenti che in questi dieci anni ci sono stati, in Italia, nel mondo e nella politica. Anche quelli indotti da lui stesso.

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Curzio Maltese - editorialista de "La Repubblica"

Solo il lifting è riuscito...

Il lifting è riuscito, il discorso no. Mi sembra che Berlusconi abbia riproposto le sue ossessioni di sempre, come se in questi dieci anni non fosse successo nulla e non fosse necessario dire qualcosa di diverso da allora. Secondo me, è la sua comunicazione ad essersi ammalata. Se ne sono accorti perfino i suoi: tutti, quando lui ha esaurito quell'incredibile elenco - falso - di successi del Governo, ed è passato alla politica estera, hanno tirato in fondo un respiro di sollievo..... Il fatto che un presidente del consiglio in carica, poi, abbia incentrato gran parte del suo discorso sull'attacco alla sinistra e all'opposizione, ci deve far pensare: sotto molti aspetti è un nonsenso. Ve lo immaginate Bush che dedica un suo speech quasi solo ad attaccare i candidati democratici? Mi pare, insomma, che nel premier si stia smarrendo il senso della realtà e, insieme, la capacità di dir qualcosa di nuovo. Noi, a lungo, l'abbiamo sottovalutato. Non vorrei che adesso lo sopravvalutassimo.

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Gian Antonio Stella - inviato del "Corriere della Sera"

La messa è finita

La messa è finita.

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EUROPA on the Web 27-1

Risposta ad un lettore di

Federico Orlando

Decennali a confronto

Perché non usare i discorsi del Duce?

Ho riprovato anch’io lo stesso incubo. E per accertarmi che non si trattava di ricordi sbagliati, ho trascorso buona parte della domenica a sentire i discorsi di Mussolini registrati nei Film Luce e raccolti anni fa dall’Espresso in due cassette. Lei mi giudicherà masochista. Meno, però, che seguire per due ore la performance del premier inviato dallo Spirito santo, come assicura l’ex prete tambroniano di Genova.

E così ho scoperto che nemmeno Mussolini, che fondava la sua forza politica nel rapporto dialogico capo-popolo, era arrivato, come invece Berlusconi all’Eur, a porre cinque domande in fila per averne cinque risposte: Era indispensabile la mia scesa in campo? Sììì. Avete fatto bene a seguirmi? Sììì. Questi anni di battaglie sono stati utili? Sììì. Sono state battaglie invano? Nooo. Vale la pena proseguire il cammino? Sììì.

Confesso che dell’altro Uomo della provvidenza io ricordavo soltanto l’imperiosa richiesta per la fondazione dell’Impero il 9 maggio 1936: Ne sarete Voi degni? E il boato di piazza Venezia: Sììì. Per trovare altre performances, sono andato indietro con la moviola, ai discorsi per il Decennale del regime fascista: 22 ottobre 1932 a piazza Venezia, 23 ottobre a Torino, piazza Castello, e il giorno dopo alla Fiat. Il 25 a piazza del Duomo a Milano, il 27 a Roma all’assemblea dei mutilati, il 30 a Forlì, il 31 a Monza, il 3 novembre ad Ancona.

Niente di paragonabile alle 5 domande dell’Eur, tutt’al più una domanda e una risposta, massimo due. A Forlì: Venendo tra voi, ho mantenuto la mia promessa: ne avevate dubitato? Nooo. Non credete che io mantenga sempre le mie promesse? Sììì. Bisogna arrivare al culmine del dramma, il 10 giugno 1940, per trovare una serie quasi berlusconiana di domande e risposte, anzi di ordini perentori e dichiarazioni di obbedienza: Popolo italiano, corri alle armi (Sììì) e dimostra il tuo coraggio (Sììì), la tua tenacia (Sììì), il tuo valore (Sììì). Così un popolo accecato da quattro Sììì infilò la testa nelle fauci del mostro, pagando con cinque anni di guerra, morti, fame, distruzioni.

Ma più che il primato berlusconiano delle cinque domande dell’Eur, ciò che mi ha gelato il sangue nel confronto è stata la sostanziale identità del pensare politico: la cultura del «fare», il disprezzo per la politica, l’esaltazione dell’inesistente (“Voi avete assistito oggi a una imponente dimostrazione della forza e della preparazione militare dell’Italia”). E poi la cultura del Nemico (ieri, demoplutogiudaicomassonico, oggi comunistamagistratooppositore). E la cultura del sabotaggio, per cui c’è sempre qualcuno (Prodi e l’euro, antifascsciti e fuoriusciti) che opera per ritardare i traguardi luminosi del governo. Esemplare il discorso di Littoria, con cui il duce chiuse le celebrazioni del decennale il 18 dicembre 1932 e consegnò le prime 450 case coloniche e il nucleo centrale della città, la Torre Littoria, la Casa del Fascio. Indicò le successive scadenze: altre 4500 case coloniche nell’agro di Littoria, poi la seconda città, Sabaudia, e ancora la terza, Pontinia. «Ma occorre che tutti ci lascino intenti al nostro lavoro». Come quando oggi ci si scaglia contro il “teatrino della politica”. Qui non si parla di alta politica e strategia, qui si lavora.

Non disturbate il manovratore. Dategli leve, marce, volante, premierato forte.

Se l’Ulivo avesse soldi da spendere per la campagna elettorale, potrebbe utilmente riprodurre le cassette coi discorsi del duce e regalarle in milioni di copie. Magari affidandone la distribuzione ad Alessandra, che ne sarebbe contenta.
COI PADRONI CHE CORRONO…

…chi vivrà, farà il confronto col necrologio del Merda…

ESPRESSO on-line 27-1

Amo il vento perché non si può comprare

Un anno fa, il 24 gennaio, la scomparsa di Giovanni Agnelli

Enzo Biagi

Dovevamo incontrarci ma alla nostra età forse bisogna prendere appuntamenti ravvicinando le date. Era un personaggio: 'È il primo industriale d'Europa' scriveva 'Newsweek' e attorno a lui fioriva l'aneddotica. Io gli debbo amicizia e gratitudine: al suo giornale, 'La Stampa', mi hanno dato un posto ogni volta che mi sono trovato in difficoltà. Lui diceva: "Esistono le fedeltà generazionali: io faccio un nome, lei risponde".

La leggenda lo circondava: hanno esaltato anche la sua virilità, insomma, piaceva (e gli piacevano) le donne. Gli disse il vecchio senatore Cini, quando passò i cinquanta: "Attraversi un momento curioso; se una ragazza ti dice di sì non ti sgomenta, se ti dice di no non ti addolora". Dopo la gioventù sregolata, anche perché la sua grande nemica era la noia, che poi affrontava con un attivismo e una frenesia quasi ossessiva, venne quella dell'impegno e del rigoroso senso del dovere. Diceva: "Mi piace il vento perché non si può comprare".

"Vivere, errare, cadere, trionfare, ricreare vita dalla vita", dice Joyce; ed era un programma che poteva andare bene anche per lui. "Ricordati che sei un Agnelli", gli diceva quando era ragazzo l'istitutore. 'Time' gli riconosceva "uno stile da principe fiorentino". Diceva Federico Fellini (con lui ed Enzo Ferrari, altro italiano da esportazione): "Mettetelo a cavallo: è un re"; 'Forbes' lo considerava "una figura romantica" e l'italiano più facoltoso, ma l'agiatezza non lo esaltava: "I ricchi non sanno quanto i poveri sono poveri; ma i poveri non sanno quanto i ricchi lavorano".

Per la gente, Gianni Agnelli era semplicemente 'l'Avvocato'; la formula delle segretarie e dei dirigenti della Fiat era stata trasmessa alla nazione, ed accolta con lo stesso rispetto. Chiesi a Federico Fellini: "Perché ha successo, per quali ragioni sta diventando una favola?". "Piace, come piace un attore, e perché la fortuna lo ha scelto. È un vittorioso".

L'opinione di Enzo Ferrari era anche più motivata: "Non lo trovi impreparato su nessun argomento, ama lo sport. Quando lo incontri, una domanda insegue l'altra, come una mitragliatrice. Ha tante curiosità. Ma se non sai non ti imbarazza. Si può parlare di tutto. Ma ha una memoria visiva spaventosa. È prigioniero della sua notorietà, è triste. Non può presentarsi per quello che è".

Diceva Marella, la moglie: "Ci fu un momento per John Kennedy, ora c'è per lui". Chiesi un parere a Eugenio Cefis, che molti consideravano il suo più forte rivale: "Il pubblico", spiegava con distacco, "ha sempre bisogno di un Bartali e di un Coppi. Indubbiamente ha un enorme peso specifico; di Agnelli ce n'è uno in Italia e penso che l'Italia faccia bene a tenerselo perché è una figura di prestigio anche oltre i confini, al di là della gentilezza dei suoi modi. Il suo ascendente, la sua cultura non hanno niente di superficiale".

E Leopoldo Pirelli confidava a un intervistatore: "Gianni Agnelli e io siamo amici. Credo di potergli dire fino in fondo che magari in quel momento sta sbagliando. Rappresentiamo due tipi completamente diversi. Gianni è più intelligente di me, capisce le cose molto prima di me, ha più intuito, più estro. Però gli accade di disinteressarsi anche più in fretta. È insofferente: ogni ripetizione, ogni lentezza lo disturbano. Io sono più ingegnere, cerco di avere pazienza e tenacia, sono più disposto ad ascoltare, a ritentare se la prima volta non è andata bene".

C'è sempre stata a Torino una famiglia che per gli italiani contava e aveva un peso nelle decisioni importanti: prima si chiamava Savoia, adesso si chiama Agnelli. L'Avvocato era il diretto responsabile della terza industria automobilistica del mondo, poteva telefonare a Kissinger o allo Scià, emergeva tra i dieci gentiluomini meglio vestiti del pianeta, incantava le signore e i banchieri. Il nonno, il vecchio senatore, lo aveva previsto. Diceva allo scatenato ragazzino: "Furbacin del diavl, un giorno li metterai tutti nel sacco". E, più o meno, è andata così.

Kruscev lo incontra a un ricevimento al quale prendono parte politici e industriali. Gli si avvicina: "È con lei che voglio parlare. Tra dieci anni queste comparse saranno sparite, e lei ci sarà ancora, perché è il vero potere col quale desidero negoziare".

Qualcuno ha scritto: "Dà del tu ai potenti del pianeta: tratta coi banchieri giapponesi, è ricevuto alla Casa Bianca e alla Corte di Madrid, cena con David Rockefeller, con Giscard d'Estaing, con Kissinger, con Ted Kennedy o con Edmond de Rothschild". Possiede giornali, autostrade, alberghi, località di soggiorno, una squadra di calcio, fabbrica locomotive, bulldozer, missili, reattori nucleari, sono sue la Fiat, la Lancia, l'Alfa Romeo, la Ferrari, l'Autobianchi, alcune case editrici, grandi magazzini; passa dall'acqua minerale alle costruzioni, alle banche: in sostanza produce un ventesimo della ricchezza del nostro paese.

C'era chi sosteneva che i signori del Piemonte erano troppo grandi e influenti; ma Agnelli rispondeva che di fronte a queste informazioni rimaneva allibito: "Ma che diavolo: semmai siamo troppo piccoli rispetto ai nostri concorrenti".

Riferendosi, suppongo, soprattutto agli allegri trascorsi giovanili, lo scrittore Paolo Volponi che, prima di diventare comunista, fu tra i suoi ascoltati consiglieri, ne tratteggia un ritrattino assai ironico: "L'avvocato vuole solo buone maniere, buone notizie e divertirsi; ascolta, capisce, rimuove, sorride e parte dopo dieci minuti per qualsiasi altro posto del mondo".

Gli sembra "un personaggio da rotocalco" forse perché il suo modo di vestire (l'orologio sul polso della camicia, o la cravatta fuori dal pullover) diventa moda; o perché da giovane faceva spensierata compagnia con Errol Flynn e con Porfirio Rubirosa, con l'Aga Khan e con Ranieri di Monaco; approfittava, come gli aveva detto il professor Valletta, "del tempo per divertirsi e per fare utili conoscenze".

Certo, non sprecò le occasioni, ma quando, dopo la quarantina, prese le redini in mano, seppe scegliere le alleanze e i dirigenti giusti, e condusse le sue aziende nella più conveniente direzione.

C'erano i bilanci in rosso, nelle officine si organizzavano commerci incredibili e cortei minacciosi, sulle teste dei capi la contestazione rovesciava barattoli di vernice, sparavano alle gambe dei superiori e anche più in alto, non si presentavano ai cancelli, poi un giorno quarantamila umiliati si ribellarono al menefreghismo e alla violenza e sfilarono per le strade della città agitando cartelli sui quali era scritto: 'Vogliamo lavorare'.

Gianni Agnelli spiegava così certi aspetti della sua vita: "C'erano in giro due tipi di uomini: quelli che parlavano delle donne e quelli che con le donne ci parlavano. E intimamente. Io appartenevo a questo secondo gruppo. Vi erano attrici, signore, e mezze signore".

Nonostante una non nascosta tendenza al flirt disinvolto, è il solo della casata che non ha mai divorziato. Disse a un amico: "Si può far tutto, ma la famiglia non si può lasciare".

Nel marzo del 1959, sull''Unità' esce un articolo sprezzante ma non profetico: lo presentano come "l'italiano più ricco" e aggiungono che, probabilmente, è anche uno dei "più inutili", narrano le sue non lodevoli imprese, tra le quali "il vezzo di trasformare in non olezzanti laghetti le roulette", per poi concludere: "Tutto potrà accadere, tranne che uno degli Agnelli possa tornare a dirigere effettivamente una sola delle industrie create dal terribile nonno".

Molte esperienze lo hanno segnato. Suo padre è morto quando aveva 14 anni, la madre dieci anni dopo. La figura dominante nella sua maturazione è il nonno che ha per quel nipote irrequieto manifesta predilezione, ed è un affetto pienamente ricambiato. Anche lui, come il fondatore della Fiat, è stato ufficiale di cavalleria ed è convinto "che la migliore educazione possibile è quella che dà la scuola militare".

Si dimostra un buon soldato; quando c'è la guerra potrebbe facilmente imboscarsi, ma vuole seguire la sorte dei suoi coetanei. Va a combattere in Russia, e c'è un breve e sbiadito filmato che lo mostra mentre ispeziona una officina che la sua azienda ha organizzato al fronte, per riparare i veicoli; divide il rancio con gli operai, e dà l'impressione di ritrovarsi con gente di casa.

Diceva Clara, la sorella: "Il coraggio fisico è una sua qualità. Quando da giovane subì un intervento dietro l'orecchio, molto doloroso, aveva la testa tutta fasciata, non si lamentò mai. Ferito due volte a una gamba e a un braccio nel deserto, un dito congelato in Russia, lo nascondeva, non voleva farlo vedere e che nessuno glielo chiedesse. Non parla mai della sua salute".

Non gli manca neppure la forza morale. Quando la Fiat è sconvolta dal disordine e decide il licenziamento di qualche decina di insorti, è solo. "Gli si sono avventati tutti contro, compresi molti del suo ambiente", ha scritto Giuseppe Turani: "Ma lui non ha fatto una piega, non si è spostato di un centimetro".

Dicevano che con i suoi era "di una fedeltà quasi mafiosa". E di una gentilezza rara; dovevo scrivere un articolo su Torino e mi fece da guida per una mezza giornata guidando lui l'auto. Sapeva tante cose.

MANIFESTO 25-1

Non è un buffone

Anche i comizi di Mussolini apparivano grotteschi e comici

VALENTINO PARLATO

La celebrazione santificante dei dieci anni di Forza Italia. Il primo pensiero che mi viene in mente è: accidenti, come siamo fatti noi italiani, che da dieci anni ci teniamo questo soggetto sullo stomaco? E' vero, è da dieci anni che lo subiamo, che fosse o non fosse al governo: per consolarlo della sconfitta del 1996 gli fu riservata una suite nel Grand Hotel della Bicamerale. La celebrazione di ieri, aperta dalla lettura di un predicozzo di don Gianni Baget Bozzo (l'officio di un prete era d'obbligo) è stata indubbiamente grottesca. Un qualsiasi marziano o anche straniero che fosse venuto ad assistere sarebbe rimasto strabiliato e si sarebbe fatto grandi risate. Ma c'è veramente da ridere e pensare che un buffone come il Cavaliere sia ormai arrivato al suo tramonto?

Non credo proprio che sia così. Noi italiani che dal vero o dai film abbiamo visto e ascoltato i discorsi di Benito Mussolini a piazza Venezia dovremmo guardarci da questi illusori ottimismi. Anche i comizi di Mussolini apparivano grotteschi e comici alle persone con un minimo di buon senso e anche agli antifascisti, che pensavano che un comico così non potesse durare. E invece per liberarsene ci volle una guerra mondiale.

Fortunatamente Palazzo dei Congressi non è piazza Venezia e Berlusconi non ha l'intelligenza di Mussolini (ma non è così stupido), per liberarcene non sarà necessaria una guerra apposita anche se viviamo nella stagione delle guerre preventive, sulle quali il Cavaliere campa.

Il dato di fatto (altra analogia) è che il cavaliere (come il duce) ha più da temere dai suoi che non dagli avversari. Quindi il problema è sul che fare delle opposizioni, le quali - a differenza del cavaliere e delle sue sceneggiate - si preoccupano più del ceto politico che non del popolo e sono convinte che solo andando al centro e facendo tutti i compromessi per raccattare una lista un po' più larga potranno tornare al governo. Battere Berlusconi, insomma, ma il berlusconismo che rischia di diventare la cultura forte anche nel popolo viene in secondo ordine. Quando il presidente dei Ds propone l'astensione sul mantenere o non mantenere le nostre truppe in Iraq, rimaniamo nel gioco vincente del Cavaliere, che potrà continuare con le comparsate popolari trasmesse su tutti i canali televisivi.

Berlusconi non si batte con le astuzie, pensando di essere più furbi di lui: la contrapposizione deve essere netta e sulle questioni decisive per la vita della gente e soprattutto di chi in vario modo (questo modo si è molto allargato) è lavoratore dipendente. Berlusconi ha scoperto che l'anticomunismo gli rende, rispondiamogli, viene da dire, con qualcosa di comunista o, più pragmaticamente, di forte e definito. La trappola nella quale sono cadute le opposizioni è la rinunzia a tutte le rivendicazioni di riforma sociale, è l'aver accettato la capitolazione (Ostellino sul Corsera di ieri ne fa il massimo merito del Cavaliere) dello spirito riformista di parte cattolica e di parte socialista.

Sono passati dieci anni: vi sembran pochi?

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NO COMMENT!

REPUBBLICA 26-1

CARTA CANTA

di Marco Travaglio

Sembra ieri

"I parlamentari debbono accettare la mano aperta del pool. Nemmeno questo Parlamento ha mostrato di avere l'autorità di regolare con legge i reati di concussione, di corruzione, di violazione del finanziamento pubblico... Borrelli, Di Pietro, gli altri giudici hanno inteso che solo loro potevano spegnere il mito del capro espiatorio e garantire la laicità della giustizia occidentale, che ha coscienza del proprio limite... Antonio Di Pietro ha impressionato per la sua dignità, il suo riserbo, la sua schietta popolanità. E' una persona in cui gli italiani credono, ma in lui come pubblico ministero, come uomo del dovere quotidiano, di cui il Paese vive. Per rimanere nello stile che egli ha proposto, il governo deve evitare la figura dell'eccesso e l'opposizione il sentimento della rivincita. Lo chiede il bene comune, in lingua cattolica, o l'etica pubblica, in linguaggio laico.

(don Gianni Baget Bozzo, Panorama, 16 settembre 1994).

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BAGET BOZZO: "Silvio gerarca assoluto condannato a restare dov'è"

di ANTONELLO CAPORALE

ROMA - "E' questa carica sovrumana che delinea il tratto spirituale del personaggio".

E' stato possente il riferimento allo Spirito Santo.

"L'energia liberata per sfidare l'impossibile".

Il segnale divino.

"La grande intuizione religiosa".

Don Baget Bozzo, la vecchia pantegana craxiana...

"Giuliano Ferrara lo dice di me".

... che ammutolisce il palazzo dei congressi.

"Il tripudio vero lo conobbi però al congresso socialista, quando ufficializzai la mia candidatura al Parlamento".

Comunque sabato venivano le lacrime.

"Sono rimasto sorpreso dall'affetto e dal pensiero di Silvio".

Molti altri avrebbero esultato ad avere un millesimo dell'attenzione a lei dedicata. Che invidia!

"Forse Adornato, o Cicchitto, o Bondi. A parte che quest'ultimo qualcosina ha avuto, la scelta di Berlusconi cade su un prete di 78 anni, al di fuori da ogni carica pubblica, al di sopra di ogni conflitto interno, ogni competizione possibile. Come vede...".

Si capisce tutto.

"Sono la prova della grande saggezza del nostro Comandante".

Il Conducator.

"L'assoluto gerarca".

L'Italia lo conserverà almeno fino a quando l'incombente pericolo comunista non sarà del tutto cessato.

"E non cesserà presto".

Don Baget, non cesserà mai mai?

"Come ho spiegato il comunismo è fallito nella sua missione principale, ma resta inguarito nel desiderio di rivendicare perennemente la sua identità rivoluzionaria".

Comunisti si nasce e si muore, nemmeno il Dottore ci può.

"Oramai è chiaro che essi nemmeno proveranno a divenire forza di governo. La loro unica ambizione sarà dimorare permanentemente all'opposizione in modo, questo l'ho già scritto naturalmente, che la loro abilità rivoluzionaria sia garantita e in qualche modo esaltata dal ruolo".

Detto in parole povere, Berlusconi sarà costretto a governare.

"Detto in parole così povere".

A prescindere dai risultati.

"Noti che anche la Margherita, sebbene si dimeni, è costretta a navigare nel mondo comunista".

Anche ammesso che il governo fallisca.

"La loro ambizione è di conservare a sè il ruolo di oppositori, tramandando così almeno il mito".

Lunardi non fa trafori, Tremonti non abbassa le tasse e Bossi sbaglia le riforme.

"Rimarrà".

Anche perché c'è quel di più di sovrannaturale.

"All'Eur ho visto un grande movimento che coniuga formule religiose e politiche".

E pratica una autentica devozione.

"Berlusconi è il cuore e le gambe, la testa e la pancia. Il partito vive nella sua immagine".

Sebbene essa sia stata un po' riveduta.

"Si ripone in sintonia, affronta il nuovo inizio".

Se l'uomo è cadente.

"L'immagine è cadente".

Affronta col bisturi le rughe.

"Basta andare all'edicola e vedere quanti sono oramai i giornali che destinano alla cura del corpo la maggior parte del loro spazio".

A Craxi però mai sarebbe venuto in mente. E lei mai avrebbe accostato Craxi e lo Spirito Santo.

"Tutt'altra personalità, tutt'altra struttura e anche tutt'altra missione".

Di religioso, niente.

"In Craxi ho visto la Croce del Signore".

Quindi ha visto qualcosa!

"Vittima di una persecuzione senza ragioni".

Però Berlusconi ha sfidato l'impossibile.

"Ecco la radice della sua dimensione religiosa".

E rimarrà per anni e anni.

"Lascerà quando avrà rassettato bene".

I giudici.

"I giudici, certo".

La Costituzione.

"Avrà fatto in modo che il suo successore possa governare anche senza pari carisma".

Anni e anni.

"Tutta questa legislatura".

Solo?

"E i primi due anni dell'altra".

Tutto finito nel 2008?

"Buonasera".

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STAMPA 26-1

Lifting al passato

Berlusconi e la Storia

di Giovanni De Luna

«SÌÌÌ!», «Noo!»: quelle grida racchiudevano lo spazio in cui i seimila militanti di Forza Italia potevano, per un attimo, rivestire i panni dei protagonisti; un protagonismo che non era dei singoli individui ma della massa assiepata nel Palacongressi, attivato dalle domande del leader («Avete fatto bene a seguire la visionaria follia di chi vi parla?», «Sono state battaglie invano?»), costretto a manifestarsi in ambiti rigidamente predefiniti. Per chi ha studiato la storia del nostro paese, un piccolo choc emotivo c'è stato: quel modo di dialogare con la massa, quel concedere l'illusione di condividere lo spazio pubblico del capo entrando in comunione con lui evocano altri scenari. Al momento in cui dal palco rimbombavano le domande di Berlusconi e dalla platea ruggivano i «sì» e i «no», le telecamere inquadravano (intenzionalmente?) solo la prima fila occupata dai ministri e dai vertici di Forza Italia. Nessuno di essi rispondeva «sì» e «no», tutti ridevano; si può credere che quel riso servisse a mascherare l'imbarazzo o proprio a disinnescare la carica drammaticamente evocativa di quell'intermezzo oratorio.

E' stata una nuova discesa in campo quella di Berlusconi. Molto diversa dalla prima. Dopo dieci anni il leader non è appagato dai suoi straordinari successi, pacificato dalla vittoria; i toni morbidi da «discorsi del caminetto» alla Roosevelt sono stati accantonati, in un discorso che potrebbe riassumersi nello slogan «il passato non deve passare». Questa è una delle più spiccate anomalie di Berlusconi: nel bagaglio culturale suo e di Forza Italia c'è un rapporto «leggero» con la memoria e con la storia; la sua irresistibile ascesa politica si è nutrita dei succhi di un robusto revisionismo storiografico che ha selezionato come bersaglio polemico proprio le memorie «pesanti» della Resistenza e dell'antifascismo. La nuova Italia sognata da Berlusconi doveva liberarsi dalla tara genetica della guerra civile, affrancarsi dalle lacerazioni e dai conflitti dei nostri «luoghi di memoria», per presentarsi ilare e serena all'appuntamento con la Seconda Repubblica.

E invece... Berlusconi ha ripresentato un'immagine plumbea del passato, di quello lontano come di quello recente. E' come se Berlusconi volesse fermare il tempo: fermando quello degli avversari arresta anche il corso del proprio, aggrappandosi a un'eterna giovinezza. Non era questo che auspicavano gli intellettuali che nel revisionismo hanno identificato il presupposto della pacificazione e della normalizzazione del sistema politico italiano. Ora, forse, è il momento in cui dovrebbero chiedere a Berlusconi di riconciliarsi con la storia di questo paese, ricordargli piccoli passaggi del tipo: i comunisti hanno sottoscritto il patto che sorregge la nostra Costituzione democratica; i comunisti durante gli anni del terrorismo sono stati un baluardo (ottuso e disciplinato) a difesa della istituzioni democratiche, ecc. Se storia pacificata ci deve essere, che lo sia in tutte le direzioni.

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CORSERA 26-1

I PROGRAMMI INESISTENTI

Berlusconi ha fallito e rilancia

di MICHELE SALVATI

In un Paese anche solo moderatamente civile, rivolgendosi a cittadini che si presumono anche solo moderatamente ragionevoli, in una campagna elettorale che si svolgerà dopo tre anni di governo, qualcosa di serio su come si è governato e si intende governare si dovrebbe pur dire. E la convention di sabato scorso sarebbe stata una buona occasione per dirlo. Una occasione persa. Nella primavera del 2001, Berlusconi aveva lanciato un messaggio efficace: un messaggio liberal-liberista, rivoluzionario in un Paese di corporazioni. Que reste-t-il de ce message? , verrebbe da dire parafrasando la famosa canzone d’Oltralpe. Poco, qualche dichiarazione ingiallita come la carta dei giornali che la riporta, e le scuse spesso non tengono. È vero, la crisi dei mercati borsistici ha ostacolato il programma di privatizzazioni. Ma che impedimenti c’erano a spingere l’acceleratore sui programmi di liberalizzazione? A realizzare quella riforma liberale degli ordini professionali e dei servizi pubblici locali che il centrosinistra aveva tentato di fare senza riuscirci? A spingere per una vera autonomia locale nella disciplina del pubblico impiego, profittando della riforma del Titolo V che il centrosinistra aveva fatto passare nello scorcio di legislatura? A operare per una riforma del processo civile e penale e dell’organizzazione giudiziaria che riducesse drasticamente la durata dei processi, la vera grande ingiustizia della nostra giustizia? Le domande potrebbero aumentare e sono retoriche, perché i nodi corporativi che legano l’Italia li conosciamo tutti: ma Berlusconi, con la sua spada liberal-liberista e con le sue capacità manageriali, sembrava sceso in campo proprio per tagliarli.

In questo compito Berlusconi ha fallito, almeno sinora, e rilancia su un piano in cui è difficile sconfiggerlo: la personalizzazione dello scontro, la demagogia populista, la logica dell’«o con me, o contro di me». Per il centrosinistra è una trappola micidiale.

MEDITAZIONE

MANIFESTO 25-1

Valori blu

ALESSANDRO ROBECCHI

Siccome la satira del premio nobel italiano per la letteratura andava in onda senza audio (siamo il paese delle libertà, la libertà di fare a meno delle orecchie), ho dedicato la serata a un altro testo satirico, pomposamente intitolato Carta dei valori. Si tratta di un agile libretto azzurro che dovrebbe contenere la filosofia politico-sociale-umana di Forza Italia, distribuito in migliaia di copie in occasione del decimo geniatliaco del duce. Dico «dovrebbe», perché si conosce l'avidità degli attuali reggenti: partito per illustrare la filosofia loro, il testo si allarga, esonda e tracima. Ridisegna l'Italia, l'Europa, il mondo, l'universo, la storia, le categorie politiche e morali (in qualche caso pure la sintassi non ne esce indenne). Insomma, in quarantasette paginette si spreme un concentrato di filosofie in una fialetta di pensierini: dai dinosauri a oggi il mondo era una discreta merda, ma poi, per fortuna, è arrivata Forza Italia e tutto è cambiato. Interessante prospettiva, un po' come mettere tutto Kant e tutto Hegel in un sms e spedirlo a tutti. Autori del nuovo sistema filosofico: Adornato, Biondi, Bondi, Cicchitto, Melograni. Mathieu e Baget-Bozzo, che ha portato il barbera. Rileggete bene l'elenco e fate il gioco del «chi manca». E il petomane? E il giocoliere monco? Anche Timothy Leary, negli anni Sessanta, faceva esperimenti con le droghe chimiche, ma almeno li faceva da solo.

Il testo, comunque, non è male. Considerato che dovrebbe porre le basi della convivenza civile e del progresso del paese nei prossimi dieci anni, è bello sapere che si veleggia in uno spazio indefinito e mobile, una specie di quarta dimensione olistica che va da Lao-Tse a Malagodi. Saremo liberal-popolari, ma anche liberal-socialisti, un po' zen e un po' laici, ma anche cattolici e naturalmente liberal-liberali, e però anche liberal-solidali eccetera, eccetera. Entusiasmante il passaggio in cui gli autori affrontano in nove righe (pag. 29) gli ultimi tre secoli di storia: la Rivoluzione Francese, la Dea Ragione, il Novecento, finché (finalmente!) arriva Forza Italia e tutti sono più felici. Illuminante invece il capitolo dedicato all'ecologismo che non dev'essere più «verde», bensì «blu», essendo «ecologismo-liberale», e dunque positivo e col sorriso sulle labbra. Insomma: molti giovani si ostinano a predicare un «fondamentalismo ecologista» che mette al centro di tutto la natura. Si chiedono angosciati gli autori: se in mezzo a tutto c'è la natura, io dove passo con la Mercedes? E dunque teorizzano una «società ecologica» che permetta «una nuova rivoluzione industriale», anziché un ritorno alla candela e alla pastorizia (roba da ecologisti illiberali). Stesso discorso per la globalizzazione: perché demonizzare una cosa che, alla fin fine, ci fa fare tanti soldi? Trasformati in blu i verdi, in azzurro i rossi, sconfitti tutti gli estremismi, ammaestrate le opposizioni e placata l'arroganza sindacale, la lezione giunge al suo fine: nella carta dei valori c'è esattamente tutto quanto sia vagamente compatibile e non rompa i coglioni a Silvio. Gli autori, dopo il caffè e l'amaro, si fermano a contemplare il loro lavoro, a rileggere la loro Opera che ridisegna il mondo. E sospirano nell'ultima pagina: «Questi sono i nostri valori comuni (...) valori che pensiamo possano essere condivisi da tutti gli uomini della Terra». Quando si dice la modestia. In più, non mancano tonanti ammonimenti: «Non è purtroppo affatto detto che, per trasmetterli ai nostri figli, non si sia anche noi costretti a combattere ancora». Perbacco, l'idea di Adornato e Baget-Bozzo che lottano strenuamente contro le forze del male che tentano di impedire la diffusione del libretto azzurro di Silvio è agghiacciante, e apre nuovi scenari.

Dunque non tutti i verdi saranno diventati blu? Non tutti i rossi azzurri? Di certo c'è questo: l'intreccio mesmerico che parte da Tocqueville e arriva a Lao Tse per interposto Cicchitto sarà la nostra filosofia prossima ventura. Obbligatoria o soltanto caldamente consigliata, questo si vedrà.

REPUBBLICA on-line 25-1

CARTA CANTA

di Marco Travaglio

Dell'Utri dixit

"Silvio Berlusconi è entrato in politica per difendere le sue aziende."

(Marcello Dell'Utri, 28 dicembre 1994).

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Il replay del Cavaliere

di CURZIO MALTESE

IL LIFTING gli è riuscito, il discorso no. Al decennale della scesa in campo, Silvio Berlusconi ha presentato il suo personale concetto di rimpasto: collo spianato, zigomi slavi, profilo appuntito. Ma la faccia nuova e costosa, bella o brutta, giusta o sbagliata, è rimasta l'unica novità. E non basta. Se non avesse fatto il lifting, non avremmo saputo cosa dire di un Berlusconi che ha riproposto nel dettaglio maniacale le identiche ossessioni di dieci anni prima, dai comunisti ai magistrati, quasi la storia di un decennio italiano si potesse spianare come una ruga con un sapiente colpo di bisturi. Un Moretti di destra ieri lo avrebbe implorato: "Silvio dì qualcosa di nuovo!".

I seimila berluscones col botto confluiti con le migliori intenzioni all'Eur sono rimasti in speranzosa attesa, per oltre due ore, che il capo trovasse il guizzo geniale d'una volta, la trovata dirompente, come una nuova scesa in campo, un rinnovato contratto con gli italiani. Niente. E allora tutti, come noi, hanno finito per concentrarsi fino all'ipnosi su quella faccia nuova, a discuterne la fattura, la riuscita, il confronto fra prima e dopo la cura. Senza volere, Berlusconi col suo discorso scontato s'è messo nella condizioni in cui ha ridotto l'altra sera Dario Fo: era come se tutti avessero spento l'audio.

Che cosa vuoi dire di uno che per la milionesima volta attacca la magistratura "politicizzata" e il defunto comunismo? L'odio per i magistrati milanesi ha superato l'iperbole e ora il pool di Milano è diventato peggio del fascismo, che non era poi così cattivo (ipse dixit), quindi Borrelli peggio di Mussolini buonanima e Berlusconi più eroico di Matteotti.

Che vogliamo aggiungere all'intrepida battaglia contro il comunismo mondiale, oggi impersonato anche nel direttore dell'Economist? C'è qualcosa di freudiano nelle frasi che usa: "Il peggior modo d'essere comunisti è senza il comunismo. È il metodo di rinnegare pilatescamente il proprio stesso passato comunista ma di mantenere i metodi di lotta politica: di ribaltare la realtà, di volere l'eliminazione degli avversari, di mantenere l'obiettivo dell'egemonia del proprio partito qualunque sia il suo nuovo nome". Viene il dubbio che inconsciamente stia parlando dei suoi più stretti consiglieri, Adornato, Bondi, Ferrara. Basta ruotare lo sguardo intorno, alla messinscena da socialismo reale, sia pure in versione extralusso, con tanto di altare da comizio, lo sfrenato culto della personalità, le gigantografie e la sfilata agghiacciante di "giovani" che leggevano i pensierini di Adornato e mandavano baci al leader.

Il punto è che il tempo passa, dieci anni son tanti, le promesse e gli slogan invecchiano e Berlusconi ripete parole chiave ormai senza alcuna magia, "il sogno", "il miracolo". La replica della scesa in campo è troppo perfetta, non farebbe ascolti neppure in televisione. Figurarsi nella realtà di un paese impoverito e sfiduciato. Quando Berlusconi prova a fare l'elogio del governo ed elenca come fossero imprese epiche la piccola lista della spesa di Tremonti e associati, sulla sala della celebrazione l'entusiasmo si smorza. Tanto che quando cambia argomento ("E adesso passiamo alla politica estera...") esplode un applauso liberatorio.

Alla fine tre quarti del discorso che doveva celebrare l'era berlusconiana sono dedicati a insultare la sinistra e i governi dell'Ulivo. Non male per uno che sente la missione di "porre fine a una guerra civile strisciante" e sostituire l'amore all'odio. L'opinione pubblica sarà ormai mitridizzata contro l'ossimoro permanente e questo modo di far politica "contro". E però se Bush avesse dedicato l'ultimo discorso sullo stato dell'Unione ai democratici e agli errori di Clinton, qualcuno si farebbe serie domande sulla sua salute mentale.

Si parla tanto, anzi si spettegola, sulla salute di Berlusconi. In compenso nessuno vede la malattia politica che avanza, l'improvvisa incapacità di comunicare del Grande Comunicatore. Dal '94 in poi ha azzeccato ogni mossa, pochi lo capivano e tutti si stupivano dei sondaggi in crescita. Oggi sbaglia quasi sempre, tutti lo elogiano e i sondaggi franano. Ma non occorre essere esperti di marketing per capire che è un errore colossale usare dal governo gli stessi argomenti efficaci quando si era opposizione. È il limite del moderno populismo ed è stata la rovina di Haider e degli eredi di Fortuyn.

L'immagine è molto nella società dello spettacolo ma non è tutto. Senza contare che l'immagine a volte comunica ben oltre le intenzioni. L'espressione stralunata del nuovo Berlusconi, di una malinconia senza tempo, a guardarla da vicino diventa il simbolo plastico di un progressivo distacco dalla realtà.

Nell'impossibile miracolo di riprodurre in laboratorio la magia del 1994, perfino con il proprio corpo, Silvio Berlusconi ieri ci ha fatto percepire come mai prima il peso di questi dieci anni di occasioni e speranze perdute.

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CORSERA 25-1

Il restauro dei politici

Berlusconi e il restauro chirurgico a cui ricorrono le signore

di ENZO BIAGI

Nei tempi che furono circolava una storiella. Uno telefonava all’onorevole Farinacci, detto anche «il ras di Cremona», e quando non c’era, la segreteria rispondeva: «È andato dal barbiere a farsi fare la testa». Bellissimo. Silvio Berlusconi, afflitto dagli evidenti segni del tempo, ha fatto ricorso al lifting, quella specie di restauro chirurgico a cui, di solito, ricorrono le signore. Certo, pure in politica l’aspetto conta, anche se non immagino Giolitti che si facesse dare, prima di comparire in pubblico una passatina di cipria. I tempi cambiano, c’è la tv e imperversano i fotografi.

A proposito: ecco un ritrattino che ho ripescato in un’intervista a Indro Montanelli: «Berlusconi è il più grande piazzista che ci sia non in Italia, ma nel mondo. Certamente è un uomo con risorse inimmaginabili, ma ha della verità un concetto del tutto personale, per cui è vero quello che dice lui... Auguro la vittoria di Berlusconi, perché Berlusconi è una di quelle malattie che si curano con il vaccino. Per guarire di Berlusconi ci vuole una bella iniezione di vaccino di Berlusconi. Bisogna vederlo al potere e io credo che il ribaltone fu la più grossa sciocchezza che abbia fatto l’Italia».

Da un’inchiesta di opinione risulterebbe che negli ultimi tempi il gradimento del presidente del Consiglio è sceso di molti punti. Insomma, piace di meno. Disoccupazione costante, tasse immutate, e tra le promesse non mantenute il minimo di un milione ai pensionati.

Blair, Chirac e Schroeder si fanno fotografare allegramente con lui, ma quando debbono parlare di cose serie (vedi: guerra) non lo invitano. Forse aveva ragione quel cinico che diceva che non si sa chi vince, ma chi perde è alleato con l’Italia.

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WWW.INMOVIMENTO.IT 25-1

Dieci anni di Forza Italia

SCOOP! In Italia ci sono i comunisti!

di Enrico Gariboldi

Ho commesso molti peccati nel corso della mia vita. Mi aspetta quindi un lungo periodo di Purgatorio. Forse sarà l’Inferno il luogo delle mie meditazioni eterne…

Comunque sia, sono riuscito a meritarmi molte benemerenze agli occhi del Signore, perché ho scontato, con una vera, dura penitenza, una parte dei miei peccati: ho visto TUTTA la trasmissione in diretta dal Palazzo dei Congressi di Roma per il Decennale di Forza Italia, e l’ho voluta vedere, per il massimo della mortificazione di me povero peccatore, su RETE QUATTRO. E’ vero che sono forte di stomaco, è vero che la vita mi ha insegnato a sopportare il dolore non solo fisico, è vero che insomma al centro della celebrazione c’era Lui, che è anche il presidente del Milan, del quale Milan io sono tifoso, e allora qualche benemerenzina gliela concedo, ma insomma la punizione è stata durissima, quasi insostenibile.

Ha cominciato sua eminenza don Bondi, che non so come possa essere stato comunista con quella faccia e quei modi da curato di campagna, ormai indirizzato solo al recupero di polli e buon vino da mettere in tavola, che ha percorso il fulgido decennio berlusconiano con voce rotta dall’emozione (mi aspettavo che si mettesse a piangere da un momento all’altro) magnificando tutto del suo padrone, anche i rari momenti di sonno e quelli dove, spero da solo, in una qualche lussuosa toilette Lui dedica qualche minuto del suo prezioso tempo per un’operazione che compiono tutti i mortali, pesci e miliardari compresi. Insomma una pena, sia per il tono della voce, senza variazioni di note, sia per la visione continua del Padrone che la telecamera servizievole inquadrava seduto in prima fila, con le due mani sotto le ascelle, con il sorriso beato di chi forse pensava “beh, mi costano soldi però sono dei bravi ragazzi”. Al fianco di Berlusconi, sempre in prima fila ovviamente, i due fidi più... fidati, Martino e Frattini, con quel suo bel viso un po’ plastificato percorso da una specie di sorriso soddisfatto che sembrava una smorfia… Almeno duecento anni di Purgatorio sono stati certamente cancellati dalla mia posizione sul Grande Libro di San Pietro.

Poi è salita sul palco lei, la Prestigiacomo, che anche se di destra potrebbe entrare a far parte di quel numero di donne per le quali si può infrangere il comandamento divino. Con i capelli biondi svolazzanti ha cercato di scuotere una platea un po’ assopita dalla camomilla bondiana, ha sorriso, ha agitato mani e pugni, ha alzato il tono della voce. Insomma, se l’è cavata, eppoi a una bella donna si perdona tutto. E finalmente sul palco sono saliti “i bambini”, cioè quelli che avrebbero dovuto essere tali e che invece erano ragazze e giovani uomini. Hanno letto la Carta dei Valori, i punti cardine del pensiero berlusconiano, una cosa da romanzo d’appendice tipo quando l’Eroe esce sul balcone e davanti alla folla inneggiante, proclama e benedice senza che nessuno ascolti quel che dice.

E finalmente, in attesa che Lui salisse sul palco, la telecamera se ne è andata all’esterno a intervistare le persone convenute, o semplicemente ha trasmesso le interviste fatte in precedenza, e anche qui una messe di intelligenze esposte, di concetti di alta sapienza e cultura. Esempio:

1) Anche per fare un vestito ci vuole tempo, allora lasciate il tempo a Berlusconi.

2) C’ha troppi nemici che non lo hanno lasciato lavorare, por’omo.

3) Se non c’era Berlusconi l’Italia era in mano ai comunisti. Basta questo…

Tutte belle affermazioni del tipo paghi due prendi tre, da supermercato cioè..

Poi finalmente è salito lui. Ovazione, Formigoni che applaude, Albertini che applaude, Zeffirelli che applaude, tutti che applaudono e gridano. Una è riuscita perfino a urlare “Grazie presidente!” Mah!

Dopo aver ottenuto il silenzio con ampi cenni delle mani, finalmente il verbo si è materializzato e Lui ha letto un fondo di don (siamo sicuri?) Badget Bozzo dove l’esaltazione dell’Unto del Signore trasudava da ogni lettera. Il mio stomaco, pur forte, dava ampi segni di scompenso nauseativo…

Alla fine del testo, grande abbraccio sul palco tra Badget Bozzo (che denuncia una sempre più evidente mancanza di testosterone) e Berlusconi, tutto preso ad abbracciare quella specie di mummia che nemmeno riusciva a muovere le gambe (forse era emozionato, porello…)

Ed ecco il tanto atteso discorso di Berlusconi. Molto nuovo, bisogna dirlo, sia negli argomenti che nei toni. Infatti si è scagliato, credo sia la prima volta, contro i magistrati. Poi contro i comunisti, cosa mai fatta prima, che hanno fatto un lifting mal riuscito.

Io ascoltavo e guardavo le facce in platea, assorte, beate o perfino commosse e mi chiedevo: ma che sia stupido io? Ma siamo forse in un sogno? Ma questo è quel Berlusconi che in tre annidi governo ne ha combinate di tutti i colori, senza fare un bel cavolo per l’Italia? E’ questo il buffone(puffone) che ci ha costretto, noi fondatori dell’Europa, in un ruolo da comprimari, tipo Portogallo?

Ma se è lui, l’uomo delle leggi vergogna, delle battute da bar, del mese di vacanza mentre in Irak si muore e la gente è li che lo guarda come fosse il Profeta, allora io forse sono deficiente?

Erano le 12.40, lo stomaco mi faceva male e avevo conati di vomito: ho interrotto la mia durissima auto-punizione e sono andato in bagno a piangere. Povera Italia…

MEDITAZIONE

STAMPA 25-1

La decolonizzazione mancata

di Barbara Spinelli

Forse il modo più proficuo di giudicare i dieci anni di Berlusconi politico è guardare alla società italiana così come è fatta, e non come questo o quel partito vorrebbe che fosse o s’immagina che sia. Gli italiani che nel ‘94 votarono Berlusconi aspettavano il suo arrivo da molto tempo, e la gran parte di essi voleva e non voleva un radicale cambiamento del modo di fare politica, voleva e non voleva un rapporto più razionale tra società e mercato, voleva e non voleva una maggiore concordanza tra etica e politica, tra interesse privato e pubblico, tra magistratura e corruzione. Quel che apprezzavano in Berlusconi non era una speciale arte di governo ma la sua assoluta estraneità alla politica in sé. Berlusconi non era affatto un corpo estraneo al Paese, e ancor oggi non lo è. Era ed è l’espressione potentissima di qualcosa che in Italia esisteva da tempo: qualcosa che non nutre speciali speranze nella politica, che crede assai poco nel cosiddetto interesse generale, ma che tuttavia ha aspirazioni profondamente contraddittorie. Non dimentichiamo che la stessa quantità di italiani e anzi una porzione più grande ha un’alta opinione di Ciampi, che impersona in massimo grado lo spirito inflessibile della cosa pubblica e la passione non demagogica della politica. L’italiano medio ha dunque un Io radicalmente diviso: c’è un italiano che si riconosce in Ciampi e lo stesso italiano può riconoscersi in Berlusconi. L’uno e l’altro sono prodotti tipici d'un Paese che ancora non ha scelto quale rapporto avere con la politica, lo Stato, il mercato, i diritti sociali, la giustizia.

L’italiano che dieci anni fa diede forma ai propri fantasmi incarnandosi nella figura di Berlusconi non era la parte peggiore del Paese, per il semplice fatto che la parte migliore non esisteva e che i vecchi politici avevano fatto bancarotta, sia quelli che avevano governato sia quelli d’opposizione. E tuttavia il Paese che lo elesse era afflitto da malattie antiche, che Berlusconi seppe capitalizzare a proprio favore con impareggiabile fiuto, e di cui egli stesso era l'archetipo. Al posto di malattia si può parlare di tratti caratteriali, di squilibri divenuti ormai congeniti, di malesseri che mai avevano trovato il politico capace di comprenderli, e risanarli. Sono tratti di carattere e costume che colonizzavano l'animo degli italiani, e che attendevano il grande decolonizzatore con un misto di speranza nel bisturi e di timore dello stesso bisturi. Berlusconi sembrò dare questa speranza ma calmava anche il timore, visto che egli stesso era espressione di quei vizi nazionali.

La prima malattia italiana riguardava il rapporto tra etica e politica. Era ed è un rapporto distorto, che sempre ha vocazione a oscillare fra due estremi: da una parte la tendenza a condonare cinicamente le immoralità pubbliche o private, dall'altra l’adorazione estatica verso chi mostra di essere un onest'uomo. L’atteggiamento etico non sembrava e non sembra qualcosa di normale: tra i due estremi patologici - la cinica normalità del male; l'estasi irrealistica del bene - l'italiano medio dondola senza trovare punti d'equilibrio.

Il secondo difetto riguardava il rapporto tra società e mercato. Un rapporto che dieci anni fa non era più quello postbellico, e che potremmo sintetizzare così: l'Italia divenuta opulenta voleva far propria la cultura delle imprese e del mercato, ma non sopportava che il capitalismo avesse regole, leggi, severità fiscale. Voleva, più che il mercato libero, una specie di giungla dell’illegalità. Al tempo stesso, chi difendeva i diritti sociali pensava di non dover fare i conti con i bisogni pur sempre reali del mercato, e aveva sacralizzato i diritti fino a trasformarli in feticci intoccabili.

La terza malattia riguarda il rapporto tra interesse privato e pubblico: interessi che tendevano a confondersi, nell’immaginario dei cittadini. Troppe corruzioni erano avvenute nella prima repubblica, troppo irresponsabile era stata l’opposizione fino alla caduta del muro di Berlino, perché il concetto d’interesse generale non ne venisse affetto.

La quarta malattia è nel rapporto degli italiani con la giustizia. L’operazione Mani Pulite piacque all'Italia che dondolava tra realismo del male ed estasi del bene, ma non piacque più quando parte della magistratura cominciò a dire che «la giustizia si fa con le istruttorie» e non con i processi e i verdetti finali. Fu il punto in cui Berlusconi poté presentarsi come vittima della magistratura.

Tutto sta a vedere se questi difetti di costume sono diminuiti, grazie al decennio di Forza Italia, o se si sono acutizzati. Se Berlusconi è stato il decolonizzatore che alcuni immaginavano fosse, o se questo compito l’ha fallito. Può darsi che in futuro egli vinca ancora una volta ma per il momento sembra aver fallito, anche se l’Italia continua ad albergare due anime opposte. Se crediamo che abbia fallito è perché Berlusconi non possedeva, in realtà, una vera tempra di decolonizzatore, di emancipatore.

Il vero decolonizzatore-emancipatore mostra di capire i vizi della patria, per poi con abile giravolta disfarsene e sostituirli con alcune virtù. È quello che fece De Gaulle con l’Algeria: «Vi ho capiti», disse ai francesi che non volevano abbandonare le colonie, per poi invece dare l’indipendenza all'Algeria. Berlusconi ha fatto inizialmente lo stesso - anche lui ha detto ai vizi italiani: «Vi ho capiti, sono uno come voi» - con la sola variante che lì si è fermato. Capire il vizio non era un mezzo per fare qualcos’altro. Era un fine autoassolutorio e assolutorio.

Berlusconi ha capito per esempio che un vizio cruciale era il rapporto con l’impresa, con il libero mercato, con il profitto, con il lavoro indipendente. Ha capito che l'Italia d'oggi non sapeva più che farsene della cultura anticapitalista dei democratici cristiani e del comunismo. Ma il Cavaliere non sgretolò l'anticapitalismo in una sorta di benefica guerra liberatoria. L'Italia imprenditoriale che egli ha per un decennio incarnato era l'Italia delle concessioni governative e degli avventurieri come Calisto Tanzi, della Parmalat e della Cirio. La sua stessa ricchezza personale aveva origini dubbie, l'evasione fiscale era sotto la sua guida condonata, la corruzione dei giudici era nel linguaggio dei suoi uomini trivializzata. Questo non ha sgretolato il fronte anticapitalista, ma semmai l'ha rinsaldato. Se gli italiani continuano a essere così difficilmente riformabili, se il sindacato resta conservatore, se lo stesso centro-destra non riesce a fare riforme forti, è perché la guerra liberatoria non era tale, e non ha sgretolato alcunché.

L'Italia soffriva insomma di mali di cui forse voleva liberarsi, ma finì con scegliere e volere un uomo che di questi mali era il prototipo. Se Berlusconi dovesse ora perdere il potere, lascerebbe in eredità una società che starebbe peggio, non meglio. Non sarebbe stata liberata, decolonizzata dei suoi atteggiamenti incivili o irresponsabili. Sarebbe ancora più irriformabile che in passato. Le sue malattie sarebbero dilatate, e ancor più lontana sarebbe la guarigione.

Il problema per chi voglia risanare l'Italia - non importa se da destra o da sinistra - è di non affacciarsi al potere privo di idee e progetti chiari, perché proprio sul vuoto e sull'oscuro prosperano i fautori dell'anti-politica (…)

La sinistra ha una sola speranza di liberarsi di Berlusconi: mettere se stessa al posto del decolonizzatore, non capitalizzare più i difetti italiani, e risanare le malattie con il coraggio che Berlusconi non ha saputo, non ha potuto, e non ha probabilmente voluto darsi.

MANIFESTO 24-1

EDITORIALE

A sua immagine

IDA DOMINIJANNI

Nel film di Bellocchio sul sequestro Moro Roberto Herlitzka presta al presidente della Dc una faccia più segnata e imbolsita di quanto non risulti dalle sue foto di prigioniero. E' una mossa politica del regista, che di Moro vuole restituire la figura del padre, l'ultimo padre, della prima Repubblica; e a un padre si addicono i segni del tempo, la capacità di comunicare a pelle la trasmissione della storia e il passaggio del testimone. Mossa azzeccata, perché la prima Repubblica finì con Moro e non con Tangentopoli, e la seconda è senza padri e infatti non nasce. Silvio Berlusconi, l'uomo che ne incarna il nome senza la cosa, è senza rughe e senza tempo. Non è un padre, è una maschera maschile della femminilità come se la immaginano gli uomini. Più Evita che Peron, ci perdoni Evita e anche Madonna, non ha genealogia e non ha nulla da trasmettere, solo se stesso da offrire al consumo, icona onnipotente di un presente reiterato come quello delle soap delle sue tv. Si presentò all'elettorato dieci anni fa vendendo il sogno del nuovo miracolo italiano a un paese affamato di nuovi e inconsistenti inizi, e quasi nessuno, nel campo avverso, lo prese sul serio. Errore imperdonabile di una sinistra che ancora rincorreva (e ancora rincorre) la modernità, senza accorgersi che l'Italia si era già infilata garrula e insipiente nella postmodernità, dove non c'è tragedia amletica fra l'essere e l'apparire perché l'essere è l'apparire, e non c'è realtà contrapposta all'immaginario perché l'immaginario fa realtà. Berlusconi invece se n'era accorto, traslocò sulla scena politica quello che aveva già sperimentato nelle sue tv, ci aggiunse una coalizione in grado di rastrellare tutto il sottofondo delle destre del paese, e vinse nell'elettorato perché aveva già sfondato nell'immaginario del ventre molle dell'Italia ricca e povera.

Oggi la soap si ripete e l'attore principale deve apparire, anzi essere, lo stesso di allora, stesso peso e stessa faccia, onde smentire chiunque pensi che il potere, la sua dissestata coalizione o qualche innominato male l'abbia logorato. Non è un gioco ma un gioco al rialzo. La politica moderna col corpo ha da sempre un problema aperto, lo rimuove e non sa dove metterlo, sequestra il corpo del sovrano e lo divide in due, uno secolare che muore, l'altro sacro che gli sopravvive e ne conserva l'aura. Il nostro premier postmoderno ha risolto il problema, è lui a sequestrarsi il corpo ed è lui a risbatterlo sulla scena rifatto, secolare e immortale insieme, arma decisiva della battaglia finale. Ancora una volta interpreta il sogno dei più: fermare il tempo e dire «sono sempre lo stesso».

Ma anche il remake ha un limite. Perché dieci anni sono passati e non c'è chirurgo plastico che possa levigarne i segni sul corpo sociale e politico. Perché l'uomo nuovo di allora è l'uomo rifatto di oggi, che deve giocare il tutto per tutto contro gli altri e contro i suoi, facendo della propria persona la posta in gioco della partita per il potere assoluto. Partita di massimo rischio, per lui e per tutti. Ci si può ripetere infatti anche nell'altro campo. Prendere sottogamba l'immagine, e convincersi che la realtà le lavori contro. Che l'evidenza di tutti i misfatti che Berlusconi ha combinato, sulla Costituzione e sull'Europa, sulla giustizia e sulla guerra, sulla scuola e sul mercato del lavoro, e di tutti quelli che ha promesso e non ha combinato, sia più forte della sua icona rilucidata. Ma non c'è affatto da esserne certi in un paese che ha fatto del logo il suo feticcio e del look la sua religione. Meglio dare un'altra chance all'immaginario, che non sopporta a lungo la tirannia della ripetizione. Pure il più fido telespettatore di Beautiful, a un certo punto, cambia canale; purché sappia offrirgli un sogno diverso e più trascinante, che non si chiami solo e aridamente lista unica.

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REPUBBLICA on-line 24-1

CARTA CANTA

di Marco Travaglio

Dieci anni per il nostro bene

"La verità è che, se Berlusconi non fosse entrato in politica, se non avesse fondato Forza Italia, noi oggi saremmo sotto un ponte o in galera con l'accusa di mafia. Col cavolo che portavamo a casa il proscioglimento nel lodo Mondadori"

(Fedele Confalonieri, la Repubblica, 25 giugno 2000)

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Berlusconi riscende in campo

"Contro comunisti e giudici"

ROMA - Discorso da battaglia elettorale, quello che Silvio Berlusconi fa all'Eur, per il decimo compleanno di Forza Italia. Praticamente una ripetizione di quello della celebre 'discesa in campo' del 26 gennaio del '94, ugualmente violento nei toni verso ''i comunisti'' e i loro alleati, la loro concezione dello Stato e della democrazia, quella parte della magistratura ''usata dal centrosinistra per combattere gli avversari politici''.

Chi sono i "nemici"? I soliti. La sinistra fatta di "comunisti" e i magistrati. "In troppi, a sinistra, hanno l'idea che, per alcuni popoli, sia meglio un regime autoritario. Me lo sono sentito dire io. Per loro, democrazia e libertà non devono essere diffusi" dice il premier.

Giustizia. Per l'attacco a Mani Pulite e alla "giustizia iniqua" Berlusconi sceglie Baget Bozzo e cita interamente un suo articolo. "Il fascismo mi parve meno odioso di questa burocrazia togata" scrive l'ex europarlamentare socialista che definisce l'opera di Mani Pulite come qualcosa da sottolineare con il "negro lapillo" in quanto esempio di "giustizia iniqua". Fischi della platea per Di Pietro, Borrelli, Colombo e Boccassini. "Stiamo trasformando la giustizia da strumento di lotta di una parte a strumento di garanzia e di libertà di tutti", scandisce il premier tra gli applausi.

Guerra civile. Un paese "avvelenato e insanguinato da una guerra civile permanente e cinquantennale". Silvio Berlusconi descrive così l'Italia prima della sua dicscesa in campo nel 1994. E spiega: "Mi riferisco non solo al bagno di sangue consumatosi dopo la fine della seconda guerra mondiale, ma anche alla seminazione dell'odio ideologico e agli eventi successivi". In particolare, "un flash sul terribile periodo tra il 1960 e il 1980, quando in Italia ci furono più di 12000 attentati e atti di violenza politica, con più di 300 morti e più di 400 feriti". Praticamente "un atto di violenza ogni giorno, come nessuna democrazia occidentale ha conosciuto, continuato ben oltre il 1980 e che è costato al paese in termini di vite umane ma anche in termini econonomici e di credibilità internazionale".

I comunisti. "Eccessiva presenza dello Stato, un peso improprio dei sindacati, un eccessivo assistenzialismo, infiltrazioni di uomini comunisti in tutti gli organi dello Stato a partire dalla magistratura e infine anche la tentazione dell'Italia di giocare su vari tavoli di politica estera, minacciando così anche l'Alleanza atlantica". Questi sono per Silvio Berlusconi solo alcuni degli effetti della presenza in Italia del più grande partito comunista d'Europa. E non si tratta solo di storia passata. I comunisti ci sono ancora. Quelli "palesi" come Rifondazione e quelli "che si sono fatti il lifting ma non gli è riuscito". Con loro, urla il premier, "mai nessun compromesso".

Euro. La retromarcia del premier è completa. Dopo le critiche alla moneta unica e l'intervento di Carlo Azeglio Ciampi, il premier è costretto a tirare il freno: "Cercare di capire l'impressionante effetto dell'euro sul carovita non significa combattere l'euro, non significa disconoscere i vantaggi che ci sono, significa cercare di capire per frenare i prezzi e, soprattutto, non significa essere euro-scettici".

Tensioni nel centrodestra. "I nostri elettori non ci perdonerebbero se non riuscissimo ad andare d'accordo e a tenere unita la squadra di governo". Berlusconi invita gli alleati a evitare "polemiche inutili". "I nostri elettori non ci perdonerebbero se abbandonassimo il lavoro e l'impegno comune".

Nessun rimpianto. Finale in crescendo, con una sorta di karaoke con la platea. ''Era indispensabile la discesa in campo? Avete fatto bene a seguire la mia visionaria follia? E' valsa la pena impegnarsi in questi dieci anni? Credete che questi dieci anni non siano trascorsi invano? Vale la pena di proseguire? Lo rifareste?" chiede il Cavaliere e a ogni domanda la platea risponde ''sii''. "Anche io rifarei tutto quello che ho fatto, nonostante le sofferenze sono convinto che non ci sia nulla di più bello che battersi per il proprio paese e per la libertà. E sono fiero di farlo con voi" con queste parole Berlusconi chiude il suo intervento. 83 applausi in 102 minuti.

Il bagno di folla. Silvio Berlusconi, al termine del suo discorso, è sceso dal palco per stringere la mano ai presenti che lo hanno tirato a sé. Quindi ha accettato di scendere in platea, ma è stato letteralmente travolto dalla folla. Dopo un breve tragitto, protetto dalla guardie del corpo, è quindi risalito sul palco per salutare. E dalla platea c'è stato anche chi ha gridato "l'ho toccato, l'ho toccato!".

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L’UNITA’ on-line 24-1

Invece di andare a Nassiriya

L’Operato del Signore si manifesta alle folle adoranti

di Antonio Padellaro

Oggi, a Roma, non si celebra, come annunciato, il decennale della fondazione del partito azienda ma si officia la divinizzazione di un potente miliardario. L’altro giorno, su queste colonne, avevamo scherzato sui prodigi del premier scomparso e sul rito della sbendatura post lifting. Quando, però, si apprende cosa succederà, dalle undici in poi, nel Palazzo dei Congressi all’Eur, passa la voglia di ridere. Cori polifonici che intonano gli inni (di Berlusconi). Il Credo Laico (in Berlusconi) declamato dalla meglio gioventù del partito. La Carta dei Valori (di Berlusconi) distribuita ai 1500 fedeli, scelti tra i più devoti. La liturgia è quella delle funzioni in cattedrale: pueri cantores e sbuffi d’incenso, nell’attesa che l’Operato del Signore si manifesti alle folle adoranti. Tuttavia, c’è del metodo in questa farsa. Sarà propaganda pura per le televisioni di tutto il mondo. Sarà il piatto avvelenato servito ai riottosi alleati. Esponenti della «vecchia politica» che il presidente-padrone sostiene, non a torto, di avere miracolato, ma che adesso considera alla stregua di nociva zavorra (la storia che nella Cdl un partito del 3 per cento non può contare come il 60 per cento di Forza Italia). Sarà, soprattutto, l’ascensione del premier verso il record di preferenze alle prossime Europee; perfino oltre i tre milioni di voti ottenuti cinque anni fa. Il plebiscito con cui egli intende surclassare qualsiasi potenziale concorrente (Fini). O qualsiasi attuale avversario (Prodi) o futuro rivale (Ciampi). Entrambi, non a caso, pesantemente attaccati sulle presunte colpe dell’euro nel crescente costo della vita.

In un classico sulle tecniche di dominio («Le 48 leggi del Potere»), Robert Greene e Joost Elffers illustrano i fondamenti di un sistema fideistico applicato alla politica.

Primo, promettere qualcosa di grande e di innovativo ma con parole vaghe e concetti di assoluta semplicità. Secondo, preferire il visivo e il sensoriale al razionale; circondarsi di lusso, abbagliare i seguaci con mirabolanti splendori, riempire i loro occhi di spettacolo. Terzo, ispirarsi alle religioni ufficiali per strutturare il gruppo; creare riti per i seguaci e organizzarli gerarchicamente. Quarto, mascherare le fonti di reddito e convincere gli adepti che dall’aver fede nel leader non può venire loro che bene. Quinto, porre le basi della dinamica «noi-contro-tutti»; costruire la nozione di un nemico infido che trama per la rovina del gruppo: un esercito di non-credenti disposto a fare qualsisai cosa per fermare le forze del bene. Spiegano gli autori: qualsiasi individuo esterno al gruppo che tenti di rivelare la natura ciarlatanesca del sistema fideistico potrà da quel momento in poi, essere identificato come appartenente a questa forza nemica. Non siamo sicuri che Berlusconi abbia letto Greene ed Elffers. Sappiamo, però, che oggi, all’Eur, tutto ciò sarà lì, tragicamente visibile.

Ha scritto Pierluigi Battista («La Stampa», 19 gennaio) che dal giorno della famosa discesa in campo Berlusconi «sembra avere invaso ogni angolo dell’immaginazione politica, del discorso pubblico, delle passioni diffuse». È certamente così anche se chi dovrebbe rappresentare l’opinione pubblica a questa invasività troppo spesso non sa dare che risposte indulgenti. Prendiamo il cosidetto mistero del lifting. Per quasi un mese del presidente del Consiglio, segnalato in quel di Porto Rotondo, non si ha notizia alcuna. La cosa diventa più strana e imbarazzante quando tutti, dicasi tutti i premier della coalizione pro Usa trovano il tempo e il cuore per fare visita, in Iraq, ai soldati dei loro contingenti. Berlusconi no. Per gravi ragioni di sicurezza, spiegano trepidanti le fonti ufficiali. Qualcuno (questo giornale) chiede se, per caso, una così prolungata assenza sia dovuta a cause di forza maggiore. La cortese risposta è: siete uccelli del malaugurio, il presidente sta come un fiore. Si apprende poi che il fiore si è sottoposto a un intervento blefaroplastico. I giornali (quasi tutti i giornali) prendono la cosa benone. La stampa internazionale («Financial Times», «El Pais», «Indipendent») si mostra sbalordita ma qui da noi nesssuno (quasi nessuno) batte ciglio. Anzi, si chiedono lumi ai più autorevoli bisturi che spiegano come il presidente avesse «un marcato rilassamento della pelle del collo»; ma che ora, fortunatamente, «il collo è fresco e la linea della mandibola ben definita» («Corriere della sera»). C’è chi apprezza «la ricerca dello stupor mundi facendo teatro del proprio corpo». E chi si congratula per «l’esordio leggero e la cantatina non impegnativa» dell’altra sera a via dei Coronari («La Repubblica»). Un giornalismo blefaroplastico, liftato, che sa stare al mondo, che non ha certo bisogno delle sgridate preventive dei guardiani della liposuzione: «Migliorarsi non è in sé censurabile: e il farlo con gli strumenti della tecnica, pure a dispetto dei moralisti polverosi, che in Italia abbondano, è solo un omaggio alla modernità» («Panorama»). Purtroppo è vero. Siamo dei moralisti polverosi. E non saremo mai moderni. E neppure off shore. Per questo oggi festeggiamo, in meritata solitudine, i peggiori dieci anni della nostra vita.

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EUROPA on the Web 24-1

Il decennio che va male per tutti…

…e ci ricorda un altro Decennale

di FEDERICO ORLANDO

Qualcuno ha detto o scritto che per il decennale di Forza Italia Berlusconi presenta ai fans la sua nuova faccia non potendo presentare la faccia nuova dell’Italia. Quella che aveva promesso.

Le donne e gli uomini della generazione precedente alla mia, che ne parlarono molto a noi bambini, ricordavano anche un altro decennale, quello festeggiato da Mussolini nel 1932, il decennale della rivoluzione fascista.

Nel decennio erano state soppresse tutte le libertà italiane, sciolti i partiti e i sindacati, anticipato nelle elezioni il modello bulgaro, uccisi Matteotti e altri leader della sinistra dei popolari e dei liberali, istituita la Milizia, proibito lo sciopero, promulgata la Carta del lavoro, istituito il Tribunale speciale, inflitti migliaia di anni di carcere, firmati gli accordi del Laterano con la Chiesa, fondato l’Imi per sovvenire le industrie in difficoltà. Il decennale si chiude il 3 novembre 1932 con l’inaugurazione del Foro Mussolini a Roma e, un mese dopo, di Littoria, capitale della nuova provincia pontina redenta dalle paludi.

Nel bene e nel male, gli uomini e le donne del Novecento ne hanno avute di pagine da sfogliare per informarsi dei dieci anni di vita di un regime, di un sistema, di un partito. Ma oggi, l’elettore che per tre volte in dieci anni ha votato Berlusconi e per due l’ha mandato al governo, cos’altro ha davanti a sé, oltre la faccia surrealista del premier? Formulata da noi su questo giornale d’opposizione, la domanda, “naturalmente”, è faziosa. Ma, formulata sul giornale storico della borghesia produttiva da intellettuali non schierati a favore dell’opposizione, metti Panebianco o Galli della Loggia, e da una équipe direzionale-redazionale che si porta nel dna l’equilibrio fra propensioni e interessi, fra governati e governanti, fra impresa e politica, fra maggioranza e minoranza, fra istituzioni e società, quella domanda è ugualmente “faziosa”? Oppure è il segnale che il nucleo forte attorno a cui si agglutina il blocco sociale che volta a volta decide la vittoria del centrodestra o del centrosinistra, si è stancato di un decennio di vuoto? Vuoto nelle fasi di governo come nella fase di opposizione? Tra la prima fase di governo nel 1994 e la seconda del 2001-2003, nulla è cambiato.

Come la prima si caratterizzò per il tentativo, stroncato da Scalfaro, di nominare ministro della Giustizia l’avvocato d’affari del premier, e di far passare leggi ad personam a loro volta stoppate come “decreto salvaladri”; questa seconda e ben più lunga esperienza di governo si caratterizza, parole di Galli della Loggia, per le «personali esigenze di carattere economico e giudiziario» del premier; ed ora anche per la velleità – parole di Giovanni Sartori sul Corriere della sera dell’altro ieri – di «premierato assoluto», «dittatura del premier sulla dittatura della sua maggioranza».

Insomma, sul più autorevole e giustamente cauteloso giornale italiano torna, alla fine del decennio di Forza Italia, la parola “dittatura”, come nel decennale della rivoluzione fascista: ma senza Foro Mussolini e senza Littoria. E s’intravede una satrapia personale, realizzata per condiscendenza della maggioranza, che tende a istituzionalizzarsi in satrapia politica, riscrivendo insieme alla morale pubblica e al senso comune anche la Costituzione, a uso e consumo del futuro satrapo. Il quale lamenta di non poter governare lo Stato con la disinvoltura con cui si governa l’azienda.

Se per farlo occorra, oltre alla cultura di Tanzi, anche l’opera del chirurgo plastico, non ci interessa. Appartiene al mondo della soap, che, trasferita in politica, può diventare dramma. Ci interessa invece che tutto ciò non accada. E perciò non nascondiamo che aver visto grandi organi di stampa mettere “prora al vento”, che in marina significa attacco, ci dà coraggio e speranza. Al di là di ogni consueta o facile ironia sul vento e su chi ne annusa per tempo la direzione che cambia.

Cambia davvero? Noi crediamo di sì, perché dovunque si guardi è un panorama di rovine, con qualche muro ancora in piedi: come il lavoro, dove la disoccupazione resta sotto le due cifre, grazie ai risultati dei governi di centrosinistra. Guardiamo i punti cardinali di questo orizzonte.

Nella società, la “rivolta”, partita dai lavoratori minacciati nei loro diritti per sciocche questioni di principio sull’articolo 18, è arrivata fino ai bambini per il tempo pieno a scuola, e fino ai rettori d’università per qualche risorsa alla ricerca e alle strutture.

Nell’economia, la mancanza di trasparenza e di regole dal governo si riversa nell’industria (sia tradizionale come la Cirio o la Parmalat, sia di new economy come la Finmatica), nella banca (Capitalia e non solo), nella fi- nanza: un rampantismo incoraggiato dal ribaltamento berlusconiano di Mani Pulite sta venendo alla luce, con una nuova e più devastante Tangentopoli, e senza bisogno di un Francesco Saverio Borrelli.

Nell’alleanza di governo, il presidente della Camera Casini dice: qui nella coalizione abbiamo solo Berlusconi, però non può bastare. Il vice presidente del Consiglio Fini e il capo dell’Udc Follini mandano al diavolo non solo le “riforme” sfasciatutto di Bossi ma anche le pezze calde del capo del governo, che offre a ministri e alleati “ninnoletti campanelli zufoletti” come nell’antica canzoncina d’evasione negli anni di guerra.

Nelle istituzioni, la magistratura in toga nera (lutto) per l’anno giudiziario; il Quirinale offeso dal Parlamento (meglio sarebbe dire: dagli Stati Generali del sovrano) e duro nella replica, si chiami “Gasparri” o euro; la Corte costituzionale ridotta a oggetto di contestazione da papaveri e papere in livrea, ma decisa anch’essa a non lasciar passare gli sbreghi alla Costituzione, almeno i più grossi.

Nel programma per i prossimi mesi, una pretesa di riforma elettorale alla vigilia del voto amministrativo ed europeo; la castrazione della Corte costituzionale con l’inflazione dei suoi giudici, dopo aver tentato la stessa operazione con procedimento inverso (riduzione dei componenti) sul Consiglio superiore della magistratura; il Senato delle regioni con legislatori- governanti, cioè senatori a Roma e governatori in regione. E qui basta, per mancanza di spazio.

Può darsi che, di fronte a tante rovine, la classe imprenditoriale del paese abbandoni per un attimo la fi- losofia a cui si piegò, nella vigilia della prima scesa in campo di Berlusconi, anche Gianni Agnelli: «Lasciamolo provare, se va bene va bene per tutti noi, se va male va male solo per lui». Adesso gli imprenditori sanno che è vero perfettamente il contrario: se va bene va bene solo per lui, se va male va male per tutti. E in questo rovesciamento sta la logica del decennio.

Inutile ricordare se altri avevano previsto questo esito già all’inizio del decennio. Meglio ricordare che due anni dopo quell’infausta previsione, nel 1996, quella stessa borghesia di cui oggi il Corriere della sera esprime le angosce, accettò un’esperienza di governo di centrosinistra mediata da Prodi: cioè il patto tra quel ch’era legittimo salvare dell’esperienza di governo e d’opposizione della prima repubblica e quel ch’era legittimo per l’imprenditoria del Nord aspettarsi, per riprendere le leve della locomotiva.

Quell’accordo portò il treno Italia ad agganciarsi al treno Europa, la disoccupazione sotto il 10 per cento, il debito pubblico ad essere incatenato, lo stile di vita dei singoli a includere anche la grande avventura intellettuale dell’unità monetaria e costituzionale dell’Europa. Oggi potrebbe alimentare nuove speranze. Anzi nuove urgenze, ora che Berlusconi, stoppando perfino Tremonti che propone un po’ di rigore a favore dei cittadini, mostra quanto sia vecchio il suo vero volto. Quello sul quale non opera la chirurgia plastica.

MEDITAZIONE

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Il sogno degli italiani: poter sognare ancora

Gridiamo tutti la verità sul Buffone

di Antonio "Wallace" Valassina

Ieri ero alla Posta. Fila delle raccomandate, tutti giovani o quasi, in silenzio.

Dall'altra parte dello stanzone, fila delle casse, tutti anziani o quasi, impegnatissimi in una discussione che coinvolgeva ciascuno.

Argomento: le pensioni (rabbia totale verso Tremonti e chi non li difende dal vampiro), i prezzi (le donne furibonde a pagare le merci con le poche lire dei loro stipendi o rimesse INPS contro i prezzi in euro) e, guarda caso, ma ultimo, l'informazione (tutti uomini e donne indignati "che nun te fanno più parlà perchè quello nun vole").

Io sento fortissimamente i problemi della giustizia e dell'informazione come tutti qui e come tanti altri amici e compagni impegnati in altri siti nella Rete. Credo anche, però, che la gente sia angosciata, se non profondamente disperata, soprattutto perchè non ce la fa più a vivere, in alcuni casi a sopravvivere.

Alla Caritas di Roma si stanno moltiplicando i casi di salariati (spesso uomini separati) che non possono pagarsi pranzo e cena, i versamenti alla moglie e figli, la casa dove questi risiedono e una casa per sè. Mangiano alle mense nate per i poveri del terzo mondo, dormono in macchina...

Ma in particolare questa gente ha rabbia perché sente di aver perso la speranza, non per sé, ma per i propri figli ("come faranno 'sti fioli?"...si chiedevano ogni tre secondi nella discussione postale). Questa perdita secca di futuro non la accettano proprio.

Dunque evidentemente le priorità per la gente comune (come alcuni scrivono e come se anche noi non fossimo tutti comuni...), sono altre...

Noi che cosa possiamo fare? Poco.

E' vero. Non possiamo riscrivere la finanziaria o prendere d'assalto il Palazzo in questo Inverno di civiltà.

Abbiamo scelto da sempre la pace e la non violenza.

Noi cosa possiamo fare allora? Molto...

Se tutti ogni giorno contribuiamo a far conoscere e diffondere la verità sul regime del Buffone che finalmente ha indossato la maschera che gli compete, di plastica come il tacchino portato da Bush ai ragazzi americani che saltano per aria ogni giorno per consentirgli di vincere elezioni e secondo mandato...

Se ogni giorno quella maschera col ghigno rifatta la strappiamo al Buffone con la denuncia e la testimonianza..

Se ogni giorno cerchiamo nuovi contatti, nuove alleanze, nuova organizzazione anche minimale per far sapere a tutta questa gente che non è sola, che siamo in tanti e che questo regime può essere rovesciato con le armi della democrazia... allora abbiamo già fatto tanto.

Non tutto, ma tanto sì, perché avremo restituito loro quella speranza che gli spenti e non credibili leader dell'Ulivo non riescono più a evocare...

Ma nel contempo dobbiamo vigilare perché il peggio deve ancora arrivare in USA come in Italia.

Si annuncia una politica di repressione terribile in USA per il secondo atto del Texano.

E nel Belpaese il progetto di Riforma della Forza-Lega-Italiana è un cupo presagio per la Repubblica nata dalla Resistenza.

Io speriamo che me la cavo... potremmo dire.

Non basta. Non può bastare!

A Roma è sceso in piazza un pezzo della Società civile, la Scuola. Una manifestazione straordinaria di donne insegnanti e donne madri, figli e studenti, padri e professori...

I partiti per l'ennesima volta si sono aggregati al seguito.

Dunque una ennesima prova di autonomia politica e di capacità di iniziativa civile.

Intanto l'Europa per sei mesi sarà almeno sotto il cielo d'Irlanda, responsabile della Presidenza dopo il disastro berlusconiano.

Una volta ho scritto, parafrasando Yeats, dolcissimo poeta irlandese, "Caro Ulivo abbiamo sparso i nostri sogni ai tuoi piedi... lieve procedi... perché è sui nostri sogni che tu cammini"...

Oggi vedendo lo sfascio totale e la malafede (ennesimo esempio: la Margherita e Rutelli inaugurano una nuova politica restrittiva sulle pensioni

tradendo gli accordi di gruppo sia nella forma che nel merito...) non mi sento più di ripeterlo. Non ho più fiducia in loro. Con passo pesante, volgare e arrogante i leaders dell'Ulivo, del Triciclo in primis, hanno calpestato tutto quanto era stato loro affidato.

Solo dai mille segnali della società civile, baluginanti come lucciole nella notte che ci avvolge, vedo un barlume di resistenza e di capacità morale, intellettuale e, per quanto in nuce, organizzativa in grado di permetterci di sperare ancora.

Oggi scriverei pertanto...

Cara Italia e cari cittadini italiani, nati cresciuti in quella Repubblica per cui in tanti si sacrificarono e morirono durante la Resistenza, a voi affidiamo le nostre speranze..

Ai tuoi piedi cara Società Civile abbiamo sparso i nostri sogni...Ti prego, procedi lieve... perché è sui nostri sogni che tu cammini.