REPUBBLICA on-line 23-11
IL giudice a libro paga
Berlusconi e Previti pagavano Squillante per comprare sentenze
di GIUSEPPE D'AVANZO
INFOMERCIAL. I cruciferi del premier cantano l'alleluja: "E' un'assoluzione piena per Silvio Berlusconi". Lo dice Gaetano Pecorella, avvocato del presidente. Con altri ingredienti, cucinano la stessa minestra Sandro Bondi, Claudio Scajola, Renato Schifani, Ignazio La Russa, Francesco Nitto Palma e "flabellieri e turiferari". "Assoluzione piena" lo si può definire un "infomercial". L'infomercial fonde due necessità: comunica un'idea e vende un prodotto. Letta la sentenza a Milano, gli infomercials della rumorosa claque diffondono quest'idea: il tribunale ha liberato Silvio Berlusconi dall'accusa di aver corrotto i giudici di Roma. Il "prodotto" che si vuole vendere è il solito: Berlusconi è la preda innocente di un'aggressione giudiziaria a fini politici. Se si vuole comprendere un'acca, conviene allontanarsi dal frastuono e chiedersi se "l'idea" abbia qualche fondamento e se "il prodotto" sia autentico o farlocco.
I verdetti dicono che la corruzione non c'è stata sull'affare Sme, sul caso Imi-Sir-Mondadori sì.
L'affresco che si ricava dai due processi: Berlusconi e Previti pagavano Squillante per comprare sentenze. Detto in altro modo, è vero che Berlusconi esce da questa vicenda senza responsabilità? E' vero che il patron di Fininvest è stato "assolto"? E' vero che non c'è, e mai c'è stata, la sua mano nei baratti delle sentenze organizzati dal suo socio Cesare Previti? Sentenze alla mano, si scopre qualche lettura avventurosa e un azzardo farfallino che animerà, c'è da giurarci, l'abituale repertorio delle verità rovesciate.
Domande. Il processo non è altro che una domanda: chi ha fatto che cosa? L'accusa formula la sua ipotesi. Le difese la contrastano con controdeduzioni. Il dibattimento pesa gli argomenti degli antagonisti e convalida, con la sentenza, una ricostruzione dei fatti attribuendone le responsabilità. Questo è il processo, e per apprezzarne gli esiti bisogna fissare subito il "che cosa" doveva essere accertato in quest'affare e i possibili responsabili dell'accaduto (il "chi" ). Nel processo, chiamato Sme, le ipotesi dell'accusa, e quindi le domande a cui i giudici devono rispondere, sono due. Silvio Berlusconi e Cesare Previti (lasciamo da parte i comprimari), hanno organizzato "un disegno criminoso per conto di Fininvest spa e sue società controllate, partecipate e collegate... affinché il giudice Renato Squillante compisse una serie di atti contrari ai suoi doveri di ufficio e in particolare ponesse le pubbliche funzioni al servizio dei loro interessi; violasse il segreto d'ufficio; intervenisse su altri appartenenti agli uffici giudiziari al fine di indurli a compiere atti contrari ai doveri del loro ufficio"? Detto in altro modo, Renato Squillante era "stabilmente retribuito" per manipolare le sentenze a vantaggio della Fininvest magari intervendo anche su altri giudici? Silvio Berlusconi, in concorso con Pietro Barilla, ha "remunerato Filippo Verde perché ponesse la sua funzione giudiziaria al servizio dei loro interessi nell'ambito della controversia intervenuta tra Iri e Buitoni in ordine alla cessione della pacchetto azionario Sme"? Detto in altro modo, Berlusconi, Previti e Barilla, con le indicazioni complici di Renato Squillante, hanno consegnato a Filippo Verde (estensore della sentenza del tribunale di Roma) 200 milioni per addomesticare l'esito della controversia?
Risposte. La macchina procedurale convalida una sola ipotesi tra quelle formulate nel dibattimento. Vediamo, allora, qual è la ricostruzione dei fatti ritenuta più attendibile e documentata dai giudici di Milano.
Sì, il dibattimento ha dimostrato che Renato Squillante era "stabilmente retribuito" da Silvio Berlusconi e Cesare Previti per favorire gli interessi di Fininvest spa e società sue controllate, partecipate e collegate. Sì, Squillante ha messo a disposizione degli interessi dei suoi corruttori le sue funzioni pubbliche barattando per denaro i doveri di probità, imparzialità e indipendenza. Sì, a Squillante sono stati promesse e poi versate da Berlusconi e Previti ingenti somme di denaro. Certamente, prova della corruzione è il passaggio di 434.407,87 dollari dal conto Ferrido (Berlusconi/Fininvest), attraverso il conto di Cesare Previti (Mercier), al conto di Renato Squillante (Rowena). Non è dimostrato che Pietro Barilla abbia pagato con 100 milioni l'attività di Renato Squillante per truccare l'esito dell'affare Sme per la più elementare delle ragioni... L'affare Sme non è stato truccato. Non c'è stata corruzione né corrotti né corruttori, quindi. "Il fatto - semplicemente - non sussiste". Filippo Verde, che il 19 luglio 1986 annullò definitivamente l'accordo Iri-Buitoni perché privo dell'approvazione del ministro delle Partecipazioni Statali Clelio Darida, non fu corrotto. Quindi, Berlusconi e Previti non fecero alcun pressione, attraverso Renato Squillante, per pilotare la sentenza del tribunale di Roma contro gli interessi di Carlo De Benedetti (editore di questo giornale e, in quegli anni, patron della Buitoni). No, i duecento milioni che Filippo Verde ha depositato in contanti sul conto corrente 5335 della Banca di Roma non provenivano, come sostiene dall'accusa, da un versamento di Pietro Barilla transitato attraverso un conto di Attilio Pacifico.
Accusatori. I pubblici ministeri Ilda Boccassini e Gherardo Colombo hanno molto puntato sul "caso Sme". Era l'affare che, a loro avviso, documentava in maniera evidente la costante e prezzolata subalternità di Renato Squillante alle convenienze di Berlusconi e Previti e agli interessi della Fininvest. L'accusa immaginava di poter dare forza documentale e definitiva evidenza all'ipotesi formulata. Era questa: almeno dal 1986, Berlusconi si è avvantaggiato, negli uffici giudiziari di Roma, della benevolenza di un network di giudici corrotti messo insieme da Cesare Previti. Network attivo quando c'erano in gioco gli interessi diretti della Fininvest, come nel caso Lodo Mondadori. Rete capace di barattare gli esiti processuali anche quando non erano in ballo gli interessi della Fininvest, come nel caso Imi/Sir, o quando questi interessi erano soltanto mediati. Come nell'affare Sme, dove Berlusconi non aveva alcun interesse diretto, ma solo l'utilità politica di dare un mano al presidente del Consiglio Bettino Craxi che poi avrebbe regolarizzato le sue imprese con una legge ad hoc. Forse i pubblici ministeri sono stati travolti da bulimia istruttoria. O forse hanno sopravvalutato il quadro indiziario raccolto. E' un fatto che i giudici di Milano non hanno visto negli argomenti proposti dall'accusa nemmeno l'esistenza della corruzione perché "il fatto non sussiste", non si è mai verificato. E' una sconfitta che suona più bruciante per l'accusa in quanto sull'affare Sme ha giocato le sue carte Silvio Berlusconi nelle sue dichiarazioni in aula, alla vigilia dell'approvazione della legge che lo ha trascinato in un limbo giudiziario (processo sospeso finché siede a Palazzo Chigi se la Corte costituzionale il 9 dicembre riterrà costituzionale l'immunità che si è autoattribuito). E' la bocciatura di una "circostanza" che non oscura i fatti accertati perché, è vero, non è stata barattata la sentenza Sme, ma Berlusconi, Previti e la Fininvest hanno avuto a disposizione "stabilmente" il corrotto Renato Squillante, di qui la condanna del giudice.
Soci. Berlusconi finge di non vedere che l'esito del processo di Milano lo interpella e lo coinvolge. Posa a spettatore lontano dello spectaculum iustitiae che ha come protagonista il suo socio. Spende parole per consegnare una "sincera solidarietà a Cesare Previti". Accorto, evita di sfiorare (è una sua mossa costante) il cuore della questione. Conviene riassumerla, invece.
I due processi milanesi (Lodo Mondadori/Imi-Sir; Sme) dovevano accertare se Berlusconi e Previti hanno avuto a libro paga dei giudici di Roma. Berlusconi è stato sottratto dalla Cassazione al primo processo (Lodo Mondadori/Imi-Sir). E' incensurato, ha ora rilevanti incarichi istituzionali, quando era imprenditore ha affrontato le opacità della giustizia della Capitale. Vi si è calato obtorto collo per proteggere i suoi affari, dicono i giudici. Chi non l'avrebbe fatto? Gli vanno concesse le attenuanti generiche, conclude la Corte di Cassazione. Con le attenuanti generiche, il premier si salva per prescrizione. Evita il primo processo dove il suo interesse diretto alla manipolazione delle sentenze è esplicito (Lodo Mondadori).
Berlusconi deve ora affrontare le due domande del secondo dibattimento (il processo Sme). Mette in moto ogni difesa per annientarlo. In Parlamento cambia le formule dei reati (via il falso in bilancio). Modifica le procedure (nuovo iter delle rogatorie). Non è sufficiente. Il processo va avanti. Così, una nuova legge riscrive le regole del "legittimo sospetto". Il premier ne vuole ricavare ogni beneficio. Non ci riesce. La Cassazione boccia ogni sospetto sull'imparzialità dei giudici di Milano. Allora, si decide a tagliare il nodo con un colpo di spada. Si fa approvare per via ordinaria (è costituzionale?) una legge che lo "immunizza" da ogni giudizio fino a quando è presidente del Consiglio. Si salva dalla sentenza, ma non dai fatti in cui resta impigliato il suo socio. In aula, si parla di Previti e lo si sa "longa manus" del premier. I processi vanno avanti e si concludono. Previti è condannato per due volte.
Nel primo processo a undici anni: ha truccato con Squillante le sentenze Mondadori e Imi-Sir. Nel secondo, gli infliggono il massimo della pena, cinque anni (la corruzione in atti giudiziari è stata approvata soltanto nel febbraio del 1992 e i fatti risalgono al marzo 1991, quindi corruzione semplice). Bisogna ora tirare qualche conclusione ricordando che queste sentenze sono soltanto di primo grado e non intaccano la presunzione di innocenza degli imputati.
Ecco l'affresco (provvisorio) che si ricava da questi due processi: Berlusconi e Previti retribuivano stabilmente Renato Squillante per comprare, con il suo intervento, le sue relazioni, le sue amicizie e pressioni e scambi, le sentenze del tribunale di Roma. No, non hanno comprato la sentenza Sme, quella sentenza è pulita, non c'è stata corruzione. Hanno comprato la sentenza per l'Imi-Sir e l'esito dell'affare Mondadori che ha consegnato al presidente del Consiglio il maggiore gruppo editoriale del Paese. Non appare poco perché, in attesa degli appelli, è legittimo sostenere, dopo due sentenze, che Berlusconi ha comprato i giudici di Roma grazie agli uffici storti di Cesare Previti. E non è proprio una buona notizia. Nonostante l'assordante claque e il menzognero infomercial.
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CITAZIONE
Va da sé che se Silvio Berlusconi non si fosse sfilato dal processo grazie al Lodo Schifani, avrebbe condiviso le sorti di Previti e company, dato che le loro posizioni sono indissolubilmente legate. Ma adesso, se anche fosse ritenuta incostituzionale la legge che gli ha regalato l’impunità, non potrebbe più essere giudicato da questo collegio, il suo processo (che si prescrive nel 2006) dovrebbe ripartire da zero davanti ad altri giudici e dunque è certo che non arriverà mai a una sentenza definitiva.
(Susanna Ripamonti – l’Unità on-line 23-11)
domenica, novembre 23, 2003
MEDITAZIONE
STAMPA 23-11
L'uso del dolore
di Barbara Spinelli
IL dolore degli italiani per i caduti di Nassiriya. Il dolore dei turchi per i due attentati a Istanbul. Il dolore dei musulmani e degli ebrei e dei cristiani, contro cui si scaglia di questi tempi un Islam politicizzato, radicale, fanaticamente pronto non già al suicidio dei propri affiliati, ma all’intreccio nefando fra suicidio e assassinio di tutti coloro che s’aggirano nei luoghi degli attentati, poco importa se uomini armati o civili inermi o persone oranti in una sinagoga. Si può capire il desiderio dei responsabili politici di immedesimarsi in questo dolore, di parlare al posto delle vittime, di rincuorare gli animi spaventati con frasi battagliere, che promettono la fine delle minacce e dei lutti. La pietas, dice il dizionario Battaglia, è precisamente questo: è rispetto devoto, cura sollecita e reverente per cose e persone, e questa cura è dovuta ai caduti degli attentati, siano essi perpetrati da Al Qaeda o da seguaci di Saddam Hussein.
Ma pietas non è solo un sentimento, specifica il dizionario: è l'osservanza dei doveri verso i genitori, la patria, e Dio. Per i politici, in particolare, è il dovere di rispettare le contraddizioni di un dolore, di ascoltare il messaggio complesso che si racchiude nelle lacrime, di decidere il da farsi tenendo conto di circostanze che possono migliorare o mutare le presenti strategie. Gli italiani e i turchi, gli ebrei e i musulmani e i cristiani piangono i loro morti, danno loro il nome di eroi, ma vogliono anche sapere se i politici fanno la loro parte: se hanno valutato i pro e i contro di questa guerra multiforme lanciata al terrorismo dopo l'11 settembre. Se sono capaci di fare bilanci rigorosi, e di correggersi là dove hanno eventualmente sbagliato. Se sono disposti a trarre lezioni dalla storia che stanno facendo. Il dolore è come una gemma splendente ma segreta, che non può esser esibita su giacche e vestiti quasi fosse un ornamento. Il politico che se ne veste e non risponde al suo appello finisce con l’usare il dolore e assieme ad esso la paura, senza far nascere da esso parole veritiere e azioni coerenti.
Naturalmente la lotta al terrorismo dovrà continuare, e farsi semmai ancor più ferma, minuziosa, assillante. Con avversari di questo tipo - veri e propri demoni, che combinano empiamente fede e bombe - non è possibile l’appeasement, la pacifica e servile composizione del conflitto. Ma sta rivelandosi inane anche la risposta adottata dal governo Usa e dai suoi alleati dopo l’11 settembre: la guerra guerreggiata contro gli Stati sospetti di appoggiare il terrorismo. Guerra condotta con armi sofisticate ma inadatte alla guerriglia, con militari addestrati a bombardare e non a sgominare combattenti irregolari, o a infiltrare cellule di resistenza e di terrorismo sempre più diffuse nel mondo e inafferrabili. La strategia puramente militare non sembra dar frutti, e anzi accresce i pericoli di una recrudescenza dei pericoli, degli attentati, delle disfatte. Si fonda su una menzogna letale, inoltre: trattando il terrorista alla stregua di uno Stato belligerante, e dichiarando contro di esso una serie di guerre a oltranza, da condursi "fino alla scomparsa della minaccia", crea l’illusione di una battaglia inter-statale che può esser vinta militarmente. Una battaglia al termine della quale si spera di ottenere chissà quale capitolazione, quale trattato di pace. Dal terrorismo non ci si può aspettare nulla di tutto ciò: né la capitolazione, né il trattato di pace, né il riconoscimento della propria sconfitta per il semplice fatto che questo o quello Stato-canaglia sarà stato abbattuto.
Non conoscendo confini, il terrorismo non può che guadagnare da guerre che restano ancorate ai rapporti tra Stati, a territori circoscritti, a sovranità nazionali che vengono gelosamente custodite negli Stati Uniti, e aggressivamente negate al nemico che Washington vuole abbattere. È quello che sta succedendo in Iraq, e da questo punto di vista non hanno molto senso le dispute italiane sulla natura del pericolo: se sia un pericolo terrorista, oppure partigiano. La scelta di far fronte al terrorismo globale con una guerra guerreggiata ha permesso al terrorista di tramutarsi in guerrigliero, in partigiano, o comunque di vedere se stesso come guerrigliero e partigiano. Gli ha regalato un sostegno popolare che non aveva. Ha permesso a Al Qaeda di penetrare in Iraq, dove prima non esisteva, e di organizzarsi meglio e diffondersi regionalmente in gran parte del Sud-Est asiatico e dell’Africa orientale. Il capo dei servizi segreti tedeschi, August Hanning, ha detto giovedì scorso in una conferenza di specialisti che Al Qaeda si è "rigenerata" a seguito della guerra in Iraq, dopo esser stata solo momentaneamente indebolita in Afghanistan, e che "gli occidentali sono sull’orlo di perdere la battaglia per la conquista dei cuori e delle menti nelle popolazioni musulmane". Conclusione: "i successi che si possono ottenere sul fronte militare non condurranno alla soluzione dei problemi".
Rispondere al terrorismo con altri mezzi non significa scegliere le vie alternative della pacificazione, e tantomeno della sottomissione. Non significa minimizzare le colpe di chi uccide persone inermi trasformandosi in bomba umana, o di chi assalta consolati, sinagoghe, caserme di carabinieri incaricate dal proprio governo, più o meno in buona fede, di assolvere compiti non bellici ma umanitari. E davvero non c’è pietas in quei sondaggi che nei siti internet chiedono agli italiani di scegliere fra tre sole forme di lotta al terrorismo: la risposta delle armi, o della diplomazia, o degli aiuti economici; come se non esistesse, per combattere il terrorista e prosciugare l’acqua in cui nuota, una risposta egualmente ferrea, ma non militare.
Il finanziere George Soros, che avversa la guerra in Iraq e si sta impegnando in una vasta operazione per contrastare la vittoria di Bush alle prossime elezioni, non banalizza i demoni che minacciano, non giustifica in alcun modo l'attentato alle Torri del 2001 (George Soros, La bolla della supremazia americana, "The Atlantic Monthly", dicembre 2003). L'11 settembre va chiamato, egli dice, con il solo nome che merita: crimine contro l'umanità. Dargli il nome di atto di guerra significa già mettersi sul piano del terrorista, e rendere più agevole il suo operare attribuendogli lo statuto di belligerante. Significa ingaggiare una guerra infinita e seriale: senza limiti di tempo, di spazio. Un crimine, invece, lo si fronteggia in altri modi: con armi poliziesche, con l’uso accurato e capillare dei servizi segreti di investigazione, con l'infiltrazione delle cellule terroriste. Lo si fronteggia anche con la prevenzione, ed è a questo punto che interviene l’opportunità di conquistare i cuori e le menti delle popolazioni musulmane, con politiche commerciali più generose e con aiuti allo sviluppo. Aver trasformato il terrorista in combattente partigiano è uno dei più grandi errori delle potenze implicate nelle guerre in Afghanistan e Iraq. In ambedue i paesi la strategia fa oggi acqua. In Afghanistan, i talebani e Al Qaeda hanno ripreso il controllo di zone decisive, nel sud del paese e ai confini con il Pakistan; solo a Kabul il governo Karzai esercita il monopolio della violenza. Nelle Filippine le forze terroriste di Abu Sayyaf e i 15.000 combattenti del Moro Islamic Liberation Front hanno mantenuto intatte le proprie forze. In Iraq sta creandosi quella stessa situazione che secondo la dottrina Bush è terreno fertile per il terrorismo: Saddam è stato fortunatamente abbattuto, ma lo Stato iracheno è ridotto in cenere. È un "failed state", come dicono in America gli esperti di te
STAMPA 23-11
L'uso del dolore
di Barbara Spinelli
IL dolore degli italiani per i caduti di Nassiriya. Il dolore dei turchi per i due attentati a Istanbul. Il dolore dei musulmani e degli ebrei e dei cristiani, contro cui si scaglia di questi tempi un Islam politicizzato, radicale, fanaticamente pronto non già al suicidio dei propri affiliati, ma all’intreccio nefando fra suicidio e assassinio di tutti coloro che s’aggirano nei luoghi degli attentati, poco importa se uomini armati o civili inermi o persone oranti in una sinagoga. Si può capire il desiderio dei responsabili politici di immedesimarsi in questo dolore, di parlare al posto delle vittime, di rincuorare gli animi spaventati con frasi battagliere, che promettono la fine delle minacce e dei lutti. La pietas, dice il dizionario Battaglia, è precisamente questo: è rispetto devoto, cura sollecita e reverente per cose e persone, e questa cura è dovuta ai caduti degli attentati, siano essi perpetrati da Al Qaeda o da seguaci di Saddam Hussein.
Ma pietas non è solo un sentimento, specifica il dizionario: è l'osservanza dei doveri verso i genitori, la patria, e Dio. Per i politici, in particolare, è il dovere di rispettare le contraddizioni di un dolore, di ascoltare il messaggio complesso che si racchiude nelle lacrime, di decidere il da farsi tenendo conto di circostanze che possono migliorare o mutare le presenti strategie. Gli italiani e i turchi, gli ebrei e i musulmani e i cristiani piangono i loro morti, danno loro il nome di eroi, ma vogliono anche sapere se i politici fanno la loro parte: se hanno valutato i pro e i contro di questa guerra multiforme lanciata al terrorismo dopo l'11 settembre. Se sono capaci di fare bilanci rigorosi, e di correggersi là dove hanno eventualmente sbagliato. Se sono disposti a trarre lezioni dalla storia che stanno facendo. Il dolore è come una gemma splendente ma segreta, che non può esser esibita su giacche e vestiti quasi fosse un ornamento. Il politico che se ne veste e non risponde al suo appello finisce con l’usare il dolore e assieme ad esso la paura, senza far nascere da esso parole veritiere e azioni coerenti.
Naturalmente la lotta al terrorismo dovrà continuare, e farsi semmai ancor più ferma, minuziosa, assillante. Con avversari di questo tipo - veri e propri demoni, che combinano empiamente fede e bombe - non è possibile l’appeasement, la pacifica e servile composizione del conflitto. Ma sta rivelandosi inane anche la risposta adottata dal governo Usa e dai suoi alleati dopo l’11 settembre: la guerra guerreggiata contro gli Stati sospetti di appoggiare il terrorismo. Guerra condotta con armi sofisticate ma inadatte alla guerriglia, con militari addestrati a bombardare e non a sgominare combattenti irregolari, o a infiltrare cellule di resistenza e di terrorismo sempre più diffuse nel mondo e inafferrabili. La strategia puramente militare non sembra dar frutti, e anzi accresce i pericoli di una recrudescenza dei pericoli, degli attentati, delle disfatte. Si fonda su una menzogna letale, inoltre: trattando il terrorista alla stregua di uno Stato belligerante, e dichiarando contro di esso una serie di guerre a oltranza, da condursi "fino alla scomparsa della minaccia", crea l’illusione di una battaglia inter-statale che può esser vinta militarmente. Una battaglia al termine della quale si spera di ottenere chissà quale capitolazione, quale trattato di pace. Dal terrorismo non ci si può aspettare nulla di tutto ciò: né la capitolazione, né il trattato di pace, né il riconoscimento della propria sconfitta per il semplice fatto che questo o quello Stato-canaglia sarà stato abbattuto.
Non conoscendo confini, il terrorismo non può che guadagnare da guerre che restano ancorate ai rapporti tra Stati, a territori circoscritti, a sovranità nazionali che vengono gelosamente custodite negli Stati Uniti, e aggressivamente negate al nemico che Washington vuole abbattere. È quello che sta succedendo in Iraq, e da questo punto di vista non hanno molto senso le dispute italiane sulla natura del pericolo: se sia un pericolo terrorista, oppure partigiano. La scelta di far fronte al terrorismo globale con una guerra guerreggiata ha permesso al terrorista di tramutarsi in guerrigliero, in partigiano, o comunque di vedere se stesso come guerrigliero e partigiano. Gli ha regalato un sostegno popolare che non aveva. Ha permesso a Al Qaeda di penetrare in Iraq, dove prima non esisteva, e di organizzarsi meglio e diffondersi regionalmente in gran parte del Sud-Est asiatico e dell’Africa orientale. Il capo dei servizi segreti tedeschi, August Hanning, ha detto giovedì scorso in una conferenza di specialisti che Al Qaeda si è "rigenerata" a seguito della guerra in Iraq, dopo esser stata solo momentaneamente indebolita in Afghanistan, e che "gli occidentali sono sull’orlo di perdere la battaglia per la conquista dei cuori e delle menti nelle popolazioni musulmane". Conclusione: "i successi che si possono ottenere sul fronte militare non condurranno alla soluzione dei problemi".
Rispondere al terrorismo con altri mezzi non significa scegliere le vie alternative della pacificazione, e tantomeno della sottomissione. Non significa minimizzare le colpe di chi uccide persone inermi trasformandosi in bomba umana, o di chi assalta consolati, sinagoghe, caserme di carabinieri incaricate dal proprio governo, più o meno in buona fede, di assolvere compiti non bellici ma umanitari. E davvero non c’è pietas in quei sondaggi che nei siti internet chiedono agli italiani di scegliere fra tre sole forme di lotta al terrorismo: la risposta delle armi, o della diplomazia, o degli aiuti economici; come se non esistesse, per combattere il terrorista e prosciugare l’acqua in cui nuota, una risposta egualmente ferrea, ma non militare.
Il finanziere George Soros, che avversa la guerra in Iraq e si sta impegnando in una vasta operazione per contrastare la vittoria di Bush alle prossime elezioni, non banalizza i demoni che minacciano, non giustifica in alcun modo l'attentato alle Torri del 2001 (George Soros, La bolla della supremazia americana, "The Atlantic Monthly", dicembre 2003). L'11 settembre va chiamato, egli dice, con il solo nome che merita: crimine contro l'umanità. Dargli il nome di atto di guerra significa già mettersi sul piano del terrorista, e rendere più agevole il suo operare attribuendogli lo statuto di belligerante. Significa ingaggiare una guerra infinita e seriale: senza limiti di tempo, di spazio. Un crimine, invece, lo si fronteggia in altri modi: con armi poliziesche, con l’uso accurato e capillare dei servizi segreti di investigazione, con l'infiltrazione delle cellule terroriste. Lo si fronteggia anche con la prevenzione, ed è a questo punto che interviene l’opportunità di conquistare i cuori e le menti delle popolazioni musulmane, con politiche commerciali più generose e con aiuti allo sviluppo. Aver trasformato il terrorista in combattente partigiano è uno dei più grandi errori delle potenze implicate nelle guerre in Afghanistan e Iraq. In ambedue i paesi la strategia fa oggi acqua. In Afghanistan, i talebani e Al Qaeda hanno ripreso il controllo di zone decisive, nel sud del paese e ai confini con il Pakistan; solo a Kabul il governo Karzai esercita il monopolio della violenza. Nelle Filippine le forze terroriste di Abu Sayyaf e i 15.000 combattenti del Moro Islamic Liberation Front hanno mantenuto intatte le proprie forze. In Iraq sta creandosi quella stessa situazione che secondo la dottrina Bush è terreno fertile per il terrorismo: Saddam è stato fortunatamente abbattuto, ma lo Stato iracheno è ridotto in cenere. È un "failed state", come dicono in America gli esperti di te
MANIFESTO 22-11
«Sulla Cecenia non cambio idea»
Berlusconi insulta l'europarlamento e scrive a Sofri che lo contesta: «Questione di diplomazia»
«In termini politici resto della mia opinione» sulla Cecenia. Silvio Berlusconi, ineffabile presidente di turno dell'Unione europea, non solo sbeffeggia la deplorazione del parlamento europeo per le sua visione leggendaria del genocidio russo in Cecenia, ma argomenta il suo ruolo di legale personale di Putin anche in un carteggio (sul Foglio di oggi) con Adriano Sofri. Il cavaliere liquida sprezzante il voto di Strasburgo: «E' fondato sul nulla». Parole alquanto indigeste per l'euroassemblea, il cui presidente, Pat Cox, lascia trapelare la sua irritazione attraverso il portavoce David Harley: «Cox - riferisce diplomatico ma inequivoco - troverebbe difficile credere che il presidente Berlusconi abbia voluto rilasciare dichiarazioni in alcun modo irrispettose del parlamento europeo».
Ma non contento il cavaliere si cimenta anc
«Sulla Cecenia non cambio idea»
Berlusconi insulta l'europarlamento e scrive a Sofri che lo contesta: «Questione di diplomazia»
«In termini politici resto della mia opinione» sulla Cecenia. Silvio Berlusconi, ineffabile presidente di turno dell'Unione europea, non solo sbeffeggia la deplorazione del parlamento europeo per le sua visione leggendaria del genocidio russo in Cecenia, ma argomenta il suo ruolo di legale personale di Putin anche in un carteggio (sul Foglio di oggi) con Adriano Sofri. Il cavaliere liquida sprezzante il voto di Strasburgo: «E' fondato sul nulla». Parole alquanto indigeste per l'euroassemblea, il cui presidente, Pat Cox, lascia trapelare la sua irritazione attraverso il portavoce David Harley: «Cox - riferisce diplomatico ma inequivoco - troverebbe difficile credere che il presidente Berlusconi abbia voluto rilasciare dichiarazioni in alcun modo irrispettose del parlamento europeo».
Ma non contento il cavaliere si cimenta anc
MEDITAZIONE
ESPRESSO on-line 22-11
È stato un errore andare nel pantano
La guerra sembra appena cominciata e la resistenza irachena può contare su una grande quantità di armi, uomini e territori amici dove trovare rifugio
Giorgio Bocca
Al Pentagono non sono più tanto sicuri di vincere la seconda guerra irachena, quella della occupazione. E si capisce: la resistenza che stanno incontrando è senza paragoni più forte di quelle che ai nazisti toccò nei paesi europei. A cominciare dalle armi.
Il signore della guerra americana Donald H. Rumsfeld calcola che l'arsenale di Saddam Hussein fosse di 600 mila tonnellate di armi. Non si sa quante ne siano state raccolte dagli americani durante la guerra lampo, ma almeno la metà sono rimaste a disposizione dei ribelli. Armi di alta potenzialità che le resistenze europee non hanno mai avuto: missili terra-aria capaci di abbattere elicotteri e aerei, razzi anticarro, mitragliere pesanti, cariche esplosive telecomandate e soprattutto munizioni abbondantissime.
Chi ha conosciuto la nostra resistenza sa che il problema delle munizioni non fu mai risolto: dai tre ai quattro caricatori per i mitra, una cinquantina di proiettili per i fucili, una ventina per i mortai. Nei rastrellamenti dell'estate 1944 dovemmo spostare da valle a valle i nuovi arrivati dalla pianura che non potevamo armare. Ricordo l'avvilimento di quei giovani che dovevano in lunga fila abbandonare la battaglia a cui erano volontariamente accorsi.
Molte armi nell'Iraq occupato, molti uomini e una resistenza programmata da anni, non inventata come in Europa giorno dopo giorno. Quando Saddam Hussein alla vigilia della guerra avvertiva gli americani che sarebbero finiti in un pantano, noi pensavamo si trattasse di vuote, generiche minacce e invece il rais annunciava la sua guerra terrorista, quella che conosceva benissimo perché con essa era salito al potere.
E infatti la resistenza in corso non è qualcosa di improvvisato, ma un uso ragionato di bande, di comandi, di rifugi in una guerra che usa la tattica del mordi e fuggi con un controllo capillare del territorio, un uso sicuro delle vie di fuga, un appoggio totale delle popolazioni.
La resistenza irachena è più forte di quelle europee per la grandissima capacità di reclutamento. Non solo può contare sulle reclute irachene che si contano a centinaia di migliaia in un paese dove sono stati disintegrati esercito e polizia, ma dove giungono combattenti da ogni paese islamico attraverso frontiere incontrollabili. E non combattenti qualsiasi, ma i kamikaze, le bombe umane che nella guerra mondiale si trovavano solo nel Giappone.
Le resistenze europee erano separate l'una dalle altre dai presidi tedeschi; da noi persino la collaborazione con i francesi attraverso le Alpi fu discontinua e indebolita da vendette o timori nazionalistici. Le Ffi (Forces françaises de l'interieure), di matrice gaullista, guardavano con sospetto le nostre formazioni quando cercavano riparo oltre confine.
La resistenza irachena può contare su zone di rifugio immense raggiungibili per terra o per mare, fino ai territori tribali del Pakistan, fino alle montagne dell'Iran o attraversando i confini della Siria e della Giordania praticamente incustoditi. Partigiani come l'italiano o lo jugoslavo dovevano resistere o morire sulle loro montagne, non avevano vie di scampo, quello islamico può arrivare all'Estremo Oriente attraverso una catena continua di paesi amici.
I tedeschi in Europa non avevano deserti o zone irraggiungibili a loro disposizione, dovunque c'erano abitanti, strade, telefoni; nell'Iraq le terre di nessuno, che nessun esercito straniero può presidiare, si estendono per centinaia di chilometri.
Nell'Europa del 1945 il desiderio comune degli occupanti come degli occupati era che finisse il grande massacro, che si potesse tornare a vivere in pace. Nell'Iraq e nei paesi dell'Islam, la guerra sembra appena incominciata. Ci sono vecchi della montagna che predicano la guerra sacra, la conquista del mondo. Che errore essere andati nel pantano.
ESPRESSO on-line 22-11
È stato un errore andare nel pantano
La guerra sembra appena cominciata e la resistenza irachena può contare su una grande quantità di armi, uomini e territori amici dove trovare rifugio
Giorgio Bocca
Al Pentagono non sono più tanto sicuri di vincere la seconda guerra irachena, quella della occupazione. E si capisce: la resistenza che stanno incontrando è senza paragoni più forte di quelle che ai nazisti toccò nei paesi europei. A cominciare dalle armi.
Il signore della guerra americana Donald H. Rumsfeld calcola che l'arsenale di Saddam Hussein fosse di 600 mila tonnellate di armi. Non si sa quante ne siano state raccolte dagli americani durante la guerra lampo, ma almeno la metà sono rimaste a disposizione dei ribelli. Armi di alta potenzialità che le resistenze europee non hanno mai avuto: missili terra-aria capaci di abbattere elicotteri e aerei, razzi anticarro, mitragliere pesanti, cariche esplosive telecomandate e soprattutto munizioni abbondantissime.
Chi ha conosciuto la nostra resistenza sa che il problema delle munizioni non fu mai risolto: dai tre ai quattro caricatori per i mitra, una cinquantina di proiettili per i fucili, una ventina per i mortai. Nei rastrellamenti dell'estate 1944 dovemmo spostare da valle a valle i nuovi arrivati dalla pianura che non potevamo armare. Ricordo l'avvilimento di quei giovani che dovevano in lunga fila abbandonare la battaglia a cui erano volontariamente accorsi.
Molte armi nell'Iraq occupato, molti uomini e una resistenza programmata da anni, non inventata come in Europa giorno dopo giorno. Quando Saddam Hussein alla vigilia della guerra avvertiva gli americani che sarebbero finiti in un pantano, noi pensavamo si trattasse di vuote, generiche minacce e invece il rais annunciava la sua guerra terrorista, quella che conosceva benissimo perché con essa era salito al potere.
E infatti la resistenza in corso non è qualcosa di improvvisato, ma un uso ragionato di bande, di comandi, di rifugi in una guerra che usa la tattica del mordi e fuggi con un controllo capillare del territorio, un uso sicuro delle vie di fuga, un appoggio totale delle popolazioni.
La resistenza irachena è più forte di quelle europee per la grandissima capacità di reclutamento. Non solo può contare sulle reclute irachene che si contano a centinaia di migliaia in un paese dove sono stati disintegrati esercito e polizia, ma dove giungono combattenti da ogni paese islamico attraverso frontiere incontrollabili. E non combattenti qualsiasi, ma i kamikaze, le bombe umane che nella guerra mondiale si trovavano solo nel Giappone.
Le resistenze europee erano separate l'una dalle altre dai presidi tedeschi; da noi persino la collaborazione con i francesi attraverso le Alpi fu discontinua e indebolita da vendette o timori nazionalistici. Le Ffi (Forces françaises de l'interieure), di matrice gaullista, guardavano con sospetto le nostre formazioni quando cercavano riparo oltre confine.
La resistenza irachena può contare su zone di rifugio immense raggiungibili per terra o per mare, fino ai territori tribali del Pakistan, fino alle montagne dell'Iran o attraversando i confini della Siria e della Giordania praticamente incustoditi. Partigiani come l'italiano o lo jugoslavo dovevano resistere o morire sulle loro montagne, non avevano vie di scampo, quello islamico può arrivare all'Estremo Oriente attraverso una catena continua di paesi amici.
I tedeschi in Europa non avevano deserti o zone irraggiungibili a loro disposizione, dovunque c'erano abitanti, strade, telefoni; nell'Iraq le terre di nessuno, che nessun esercito straniero può presidiare, si estendono per centinaia di chilometri.
Nell'Europa del 1945 il desiderio comune degli occupanti come degli occupati era che finisse il grande massacro, che si potesse tornare a vivere in pace. Nell'Iraq e nei paesi dell'Islam, la guerra sembra appena incominciata. Ci sono vecchi della montagna che predicano la guerra sacra, la conquista del mondo. Che errore essere andati nel pantano.
CORSERA 21-11
Cecenia -- Strasburgo censura Berlusconi
Eurogruppi d’accordo, anche il Ppe vota sì
Ivo Caizzi
STRASBURGO - L'Europarlamento ha «deplorato» il capo del governo Silvio Berlusconi perché al vertice Ue-Russia, nel suo ruolo di presidente di turno del Consiglio dell'Unione Europea, aveva appoggiato la politica in Cecenia del presidente russo Vladimir Putin. Una risoluzione degli eurodeputati su quel summit, che contiene la censura di questa posizione (in netto contrasto con le preoccupazioni dell'Ue sulle violazioni dei diritti umani subite dal popolo ceceno), è stata votata a Strasburgo «per alzata di mano», visto il larghissimo consenso dei cinque principali gruppi politici. Il Partito popolare europeo, a cui aderisce Forza Italia, ha condiviso la necessità di «deplorare» le dichiarazioni rassicuranti di Berlusconi sulla Cecenia e sulla democrazia in Russia. E si è unito al «sì» di socialisti, liberali, verdi e comunisti.
Nella conferenza stampa del vertice Ue-Russia, tenutosi nella Villa Madama di Roma il 6 novembre scorso, il premier italiano - seduto vicino a Putin, al presidente della Commissione Romano Prodi e al rappresentante dei governi Ue Javier Solana - si era dichiarato «avvocato» del suo «amico Vladimir». Aveva poi accusato la stampa internazionale di distorcere la realtà quando criticava la Russia per le gravi violazioni dei diritti umani in Cecenia e quando sollevava dubbi sul procedimento giudiziario «Yukos». Ieri notte, da Varsavia, Berlusconi ha commentato che «l’Europarlamento ha semplicemente frainteso la realtà. Non sono amareggiato - ha aggiunto - perché la risoluzione è assolutamente fondata sul nulla».
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Il Cav. ha ragione – cioè, quel “nulla” l’abbiamo sentito tutti in diretta TV – ma siccome l’ha detto lui, “nulla” è…
Luciano Seno
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EUROPA on the Web 21-11
Un altro record di Berlusconi
E' il primo presidente di turno dell’Ue a incassare la censura di Strasburgo
Un altro record battuto: da ieri Silvio Berlusconi è il primo presidente di turno del Consiglio europeo ad incassare una censura da parte dell’assemblea di Strasburgo. Record certificato dalla presidenza dell’europarlamento, che ha così voluto fare piazza pulita di certi pretestuosi tentativi di sminuire la portata della deplorazione inflitta al presidente del consiglio italiano. La risoluzione votata dall’aula a stragrande maggioranza - anche dai parlamentari del Ppe (tranne quelli di Forza Italia) - «deplora le dichiarazioni fatte dal presidente in carica del Consiglio Ue alla fine del vertice Ue- Russia nelle quali ha espresso il proprio sostegno alla posizione del governo russo per quanto concerne la situazione dei diritti dell’uomo in Cecenia e della democrazia nella Federazione russa». Non solo: in un altro paragrafo l’assemblea critica «l’inadeguato trattamento dei temi della Cecenia e di Kyoto nella dichiarazione congiunta del vertice».
Una sonora bocciatura per Berlusconi, sottolineata dal coordinatore della Margherita: «Il parlamento europeo che censura il presidente di turno - dice Franceschini - è un atto politico enorme che espone tutto il nostro paese e su cui non può scendere un colpevole silenzio».
Un altolà che cerca di sventare una manovra che i mezzi di comunicazione in mano agli uomini del premier hanno in realtà già iniziato. Anche quelli del servizio pubblico, impegnati a mettere la sordina, a sdrammatizzare, a nascondere. Come spesso, sempre più spesso accade nel nostro paese. Censura? Regime? Non è il caso di disquisire sulle parole.
Ma il problema esiste. Ed anche di questa anomalia del nostro paese si occuperà Strasburgo. Ieri, infatti, la conferenza dei capigruppo al parlamento europeo ha dato il via libera alla stesura di una relazione sullo stato del pluralismo dei media e sulla libertà di espressione e di informazione nell’Ue, e in particolare in Italia.
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LIBERAZIONE 21-11
Corsivo di I pag.
Il presidente-allenatore
Al Cavaliere manca solo l’ippica…
DON PANCRAZIO
Come se non bastassero i suoi straordinari successi di imprenditore e di statista, per non parlare delle sue performance di giardiniere e di chansonnier, il Cavaliere vanta una gran competenza calcistica. Credete forse che le imprese del Milan in questi anni siano stati frutto, oltre che dei campioni comprati a suon di miliardi, dei tecnici Liedholm, Sacchi, Zaccheroni e Ancelotti? No, ad essi vanno attribuite ovviamente solo le sconfitte. Il resto - vittorie, scudetti e coppe - porta la firma inconfondibile del tecnico Berlusconi. Prendete la vittoria del Milan nell'ultima finale di Champions League con la Juventus: Bruno Vespa, nel suo ultimo libro ha pubblicato anche i disegnini tattici, con la posizione di ogni giocatore in ogni specifica azione, vergati dal Cavaliere a beneficio di Ancelotti. «A sentire il Cavaliere», precisa Vespa, «anche tutte le sostituzioni di quella partita sono state concordate». Ora invece Ancelotti sbugiarda pubblicamente il Cavaliere e Vespa, rivendicando la paternità di quella grafia, di quei disegnini e di quella tattica. Il solito comunista.
Cecenia -- Strasburgo censura Berlusconi
Eurogruppi d’accordo, anche il Ppe vota sì
Ivo Caizzi
STRASBURGO - L'Europarlamento ha «deplorato» il capo del governo Silvio Berlusconi perché al vertice Ue-Russia, nel suo ruolo di presidente di turno del Consiglio dell'Unione Europea, aveva appoggiato la politica in Cecenia del presidente russo Vladimir Putin. Una risoluzione degli eurodeputati su quel summit, che contiene la censura di questa posizione (in netto contrasto con le preoccupazioni dell'Ue sulle violazioni dei diritti umani subite dal popolo ceceno), è stata votata a Strasburgo «per alzata di mano», visto il larghissimo consenso dei cinque principali gruppi politici. Il Partito popolare europeo, a cui aderisce Forza Italia, ha condiviso la necessità di «deplorare» le dichiarazioni rassicuranti di Berlusconi sulla Cecenia e sulla democrazia in Russia. E si è unito al «sì» di socialisti, liberali, verdi e comunisti.
Nella conferenza stampa del vertice Ue-Russia, tenutosi nella Villa Madama di Roma il 6 novembre scorso, il premier italiano - seduto vicino a Putin, al presidente della Commissione Romano Prodi e al rappresentante dei governi Ue Javier Solana - si era dichiarato «avvocato» del suo «amico Vladimir». Aveva poi accusato la stampa internazionale di distorcere la realtà quando criticava la Russia per le gravi violazioni dei diritti umani in Cecenia e quando sollevava dubbi sul procedimento giudiziario «Yukos». Ieri notte, da Varsavia, Berlusconi ha commentato che «l’Europarlamento ha semplicemente frainteso la realtà. Non sono amareggiato - ha aggiunto - perché la risoluzione è assolutamente fondata sul nulla».
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Il Cav. ha ragione – cioè, quel “nulla” l’abbiamo sentito tutti in diretta TV – ma siccome l’ha detto lui, “nulla” è…
Luciano Seno
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EUROPA on the Web 21-11
Un altro record di Berlusconi
E' il primo presidente di turno dell’Ue a incassare la censura di Strasburgo
Un altro record battuto: da ieri Silvio Berlusconi è il primo presidente di turno del Consiglio europeo ad incassare una censura da parte dell’assemblea di Strasburgo. Record certificato dalla presidenza dell’europarlamento, che ha così voluto fare piazza pulita di certi pretestuosi tentativi di sminuire la portata della deplorazione inflitta al presidente del consiglio italiano. La risoluzione votata dall’aula a stragrande maggioranza - anche dai parlamentari del Ppe (tranne quelli di Forza Italia) - «deplora le dichiarazioni fatte dal presidente in carica del Consiglio Ue alla fine del vertice Ue- Russia nelle quali ha espresso il proprio sostegno alla posizione del governo russo per quanto concerne la situazione dei diritti dell’uomo in Cecenia e della democrazia nella Federazione russa». Non solo: in un altro paragrafo l’assemblea critica «l’inadeguato trattamento dei temi della Cecenia e di Kyoto nella dichiarazione congiunta del vertice».
Una sonora bocciatura per Berlusconi, sottolineata dal coordinatore della Margherita: «Il parlamento europeo che censura il presidente di turno - dice Franceschini - è un atto politico enorme che espone tutto il nostro paese e su cui non può scendere un colpevole silenzio».
Un altolà che cerca di sventare una manovra che i mezzi di comunicazione in mano agli uomini del premier hanno in realtà già iniziato. Anche quelli del servizio pubblico, impegnati a mettere la sordina, a sdrammatizzare, a nascondere. Come spesso, sempre più spesso accade nel nostro paese. Censura? Regime? Non è il caso di disquisire sulle parole.
Ma il problema esiste. Ed anche di questa anomalia del nostro paese si occuperà Strasburgo. Ieri, infatti, la conferenza dei capigruppo al parlamento europeo ha dato il via libera alla stesura di una relazione sullo stato del pluralismo dei media e sulla libertà di espressione e di informazione nell’Ue, e in particolare in Italia.
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LIBERAZIONE 21-11
Corsivo di I pag.
Il presidente-allenatore
Al Cavaliere manca solo l’ippica…
DON PANCRAZIO
Come se non bastassero i suoi straordinari successi di imprenditore e di statista, per non parlare delle sue performance di giardiniere e di chansonnier, il Cavaliere vanta una gran competenza calcistica. Credete forse che le imprese del Milan in questi anni siano stati frutto, oltre che dei campioni comprati a suon di miliardi, dei tecnici Liedholm, Sacchi, Zaccheroni e Ancelotti? No, ad essi vanno attribuite ovviamente solo le sconfitte. Il resto - vittorie, scudetti e coppe - porta la firma inconfondibile del tecnico Berlusconi. Prendete la vittoria del Milan nell'ultima finale di Champions League con la Juventus: Bruno Vespa, nel suo ultimo libro ha pubblicato anche i disegnini tattici, con la posizione di ogni giocatore in ogni specifica azione, vergati dal Cavaliere a beneficio di Ancelotti. «A sentire il Cavaliere», precisa Vespa, «anche tutte le sostituzioni di quella partita sono state concordate». Ora invece Ancelotti sbugiarda pubblicamente il Cavaliere e Vespa, rivendicando la paternità di quella grafia, di quei disegnini e di quella tattica. Il solito comunista.
MEDITAZIONE
L’UNITA’ on-line 21-11
Nassiriya, una brutta storia italiana
di Corrado Stajano
Se almeno quel che è successo a Nassiriya, le atroci morti dei soldati italiani, servisse a far ragionare, ad analizzare i fatti con freddezza, a spogliarci di tutte le bugie, le millanterie, le manie di grandezza che in questi mesi hanno riempito la pentola della politica e di buona parte dell’informazione, potremmo dire di avere raggiunto un risultato, sia pure mesto e amaro.
Guai a chi, nel passato prossimo, quando ancora si cercavano le famose armi di distruzione di massa, mai trovate, non si adeguava, a chi manifestava dubbi. Non si è voluto capire che la pace è il bene più grande degli uomini, da difendere con tutti i possibili mezzi. Le maggioranze parlamentari diventano davvero tirannie quando non vogliono intendere umilmente qual è lo spirito di una comunità.
Che in Italia era contraria, come in Francia, come in Germania, all’avventura in Iraq. Ma parte che l’opinione pubblica non conti, che debbano prevalere sempre gli interessi più o meno inconfessabili, quelli dei venditori.
Un corpo di spedizione è stato mandato allo sbaraglio, privo di ogni tutela internazionale, l’Onu, la Nato, l’Unione europea. Ci si è affidati soltanto all’ombrello della grande madre americana, giocando, tra l’altro, maldestramente il ruolo dell’Italia, considerata assai poco nella strategia dei generali Usa. Neppure lo spirito di bandiera è stato tenuto alto dai governanti italiani felici soltanto di far parte dell’armata del più grande paese del mondo, incuranti della loro subalternità.
Sarebbero vivi quei 19 soldati e civili italiani se fosse stata rispettata la Costituzione che vieta all’articolo 11 la guerra «come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali», se si fosse subito inteso, senza sotterfugi, che il terrorismo non si combatte con gli eserciti, se il diritto internazionale non fosse stato violato, senza rispetto delle regole e delle convenzioni elementari. Quella dell’Iraq era una guerra, non una missione umanitaria. Gli interessi in gioco erano, e sono, come sempre, economici, il petrolio, la ricostruzione, i futuri appalti. Erano, e sono, anche strategici nel gioco della geopolitica americana.
Se si fosse almeno tentato di capire i significati della storia e della cultura dell’Iraq, essenziali per la formazione del mondo mediterraneo, delle civiltà greca e romana e poi di quella bizantina e medievale, ci si sarebbe avvicinati al costume e alla mentalità della società araba con una maggiore serietà e non con l’insipienza e la faciloneria usate. E si sarebbero evitati errori gravi. Il «dopo» andava preparato con un piano organico: era solo uno slogan l’espressione «portare la democrazia» in un paese diviso tra sciiti, sunniti, curdi dove i princìpi democratici non hanno fondamento.
Quella di Nassiriya è diventata purtroppo una storia italiana. La comunità nazionale ha reagito con grande umanità. Quegli uomini tornati dentro le bare sono figli di tutti. Le vite dei 19 soldati e civili rappresentano la piccola Italiano, con le sue speranze, i suoi desideri, i suoi bisogni. Non è un’Italia guerriera quella che esce dai racconti e dalle memorie familiari. Le parole dette dai soldati in Iraq e in Italia ai giornali, alle radio e alle tv sono assai più severe e apprezzabili delle parole dette da troppi politici impastati di retorica.
La retromarcia, certo, non poteva mancare, tra squilli di tromba e fanfare rimbombanti anche sui palcoscenici delle tv, tra discorsi enfatici e bandiere sventolanti. L’uso dello spettacolo è servito a far da velario, a ritardare i conti di cui quella stessa comunità dolente è creditrice nei confronti di governanti improvvisati e inadeguati: spesso qualcuno di loro ha mascherato a fatica la soddisfazione di poter usare quei morti nella futura spartizione del bottino.
Non occorre aver frequentato la scuola di guerra, i centri di studi strategici, i corsi delle scuole d’applicazione d’arma per non nutrir sospetti sulla conduzione di questo conflitto, modernissimo e insieme arcaico, che richiama le immagini delle cannoniere ottocentesche o novecentesche in viaggio per i paesi coloniali. Se non altro, allora, non si faceva spreco delle parole democrazia, giustizia, libertà dei popoli. Civilizzazione, tutt’al più.
La magistratura dovrà valutare quel che è accaduto. Davvero era sufficiente scrivere in arabo Italia sulla giubba per conquistare la simpatia degli iracheni? Vale ancora il luogo comune «italiani brava gente»? Popolazioni misere, con problemi di ogni genere, sanno davvero distinguere tra un americano, un inglese, un italiano armati e vestiti nello stesso modo che occupano la loro patria? E poi: è stato prudente allestire il quartier generale italiano in città, senza particolari protezioni? E ancora: perché non è stato tenuto conto delle informazioni del Sismi italiano e della Cia americana? E soprattutto: non erano messi in conto atti offensivi? Non importa che i kamikaze siano i resuscitati soldati dell’esercito di Saddam o gli uomini di Al Qaeda. Anche ufficiali americani parlano ora di guerra di liberazione.
I segni di un pericolo grave che pesa addosso al nostro contingente seguitano a inquietare nonostante i tentativi di smorzarli. Le parole più sensate sembrano quelle di Marco Calamai, il consigliere speciale dell’Amministrazione provvisoria della coalizione, che si è dimesso in dissenso dalla politica che viene fatta: «Solo un nuovo scenario internazionale gestito dall’Onu e con un ruolo particolare riservato all’Europa può tentare di migliorare la situazione che ritengo gravemente compromessa».
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CITAZIONE
Si dice, anche a sinistra, che abbandonare il campo in Iraq sarebbe una sorta di diserzione. Ma a volte è proprio alla figura ambivalente del disertore, invisa a ogni potere, che siamo debitori della salvezza e della libertà. E' infatti proprio questa figura, persino nelle sue espressioni più egoistiche, a segnalare il confine tra ciò che si può chiedere e ciò che chiedere non si può, a porre un limite indiscutibilmente umano all'ideologia, alla lealtà e perfino alla fede.
Marco Bascetta – manifesto 21-11
L’UNITA’ on-line 21-11
Nassiriya, una brutta storia italiana
di Corrado Stajano
Se almeno quel che è successo a Nassiriya, le atroci morti dei soldati italiani, servisse a far ragionare, ad analizzare i fatti con freddezza, a spogliarci di tutte le bugie, le millanterie, le manie di grandezza che in questi mesi hanno riempito la pentola della politica e di buona parte dell’informazione, potremmo dire di avere raggiunto un risultato, sia pure mesto e amaro.
Guai a chi, nel passato prossimo, quando ancora si cercavano le famose armi di distruzione di massa, mai trovate, non si adeguava, a chi manifestava dubbi. Non si è voluto capire che la pace è il bene più grande degli uomini, da difendere con tutti i possibili mezzi. Le maggioranze parlamentari diventano davvero tirannie quando non vogliono intendere umilmente qual è lo spirito di una comunità.
Che in Italia era contraria, come in Francia, come in Germania, all’avventura in Iraq. Ma parte che l’opinione pubblica non conti, che debbano prevalere sempre gli interessi più o meno inconfessabili, quelli dei venditori.
Un corpo di spedizione è stato mandato allo sbaraglio, privo di ogni tutela internazionale, l’Onu, la Nato, l’Unione europea. Ci si è affidati soltanto all’ombrello della grande madre americana, giocando, tra l’altro, maldestramente il ruolo dell’Italia, considerata assai poco nella strategia dei generali Usa. Neppure lo spirito di bandiera è stato tenuto alto dai governanti italiani felici soltanto di far parte dell’armata del più grande paese del mondo, incuranti della loro subalternità.
Sarebbero vivi quei 19 soldati e civili italiani se fosse stata rispettata la Costituzione che vieta all’articolo 11 la guerra «come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali», se si fosse subito inteso, senza sotterfugi, che il terrorismo non si combatte con gli eserciti, se il diritto internazionale non fosse stato violato, senza rispetto delle regole e delle convenzioni elementari. Quella dell’Iraq era una guerra, non una missione umanitaria. Gli interessi in gioco erano, e sono, come sempre, economici, il petrolio, la ricostruzione, i futuri appalti. Erano, e sono, anche strategici nel gioco della geopolitica americana.
Se si fosse almeno tentato di capire i significati della storia e della cultura dell’Iraq, essenziali per la formazione del mondo mediterraneo, delle civiltà greca e romana e poi di quella bizantina e medievale, ci si sarebbe avvicinati al costume e alla mentalità della società araba con una maggiore serietà e non con l’insipienza e la faciloneria usate. E si sarebbero evitati errori gravi. Il «dopo» andava preparato con un piano organico: era solo uno slogan l’espressione «portare la democrazia» in un paese diviso tra sciiti, sunniti, curdi dove i princìpi democratici non hanno fondamento.
Quella di Nassiriya è diventata purtroppo una storia italiana. La comunità nazionale ha reagito con grande umanità. Quegli uomini tornati dentro le bare sono figli di tutti. Le vite dei 19 soldati e civili rappresentano la piccola Italiano, con le sue speranze, i suoi desideri, i suoi bisogni. Non è un’Italia guerriera quella che esce dai racconti e dalle memorie familiari. Le parole dette dai soldati in Iraq e in Italia ai giornali, alle radio e alle tv sono assai più severe e apprezzabili delle parole dette da troppi politici impastati di retorica.
La retromarcia, certo, non poteva mancare, tra squilli di tromba e fanfare rimbombanti anche sui palcoscenici delle tv, tra discorsi enfatici e bandiere sventolanti. L’uso dello spettacolo è servito a far da velario, a ritardare i conti di cui quella stessa comunità dolente è creditrice nei confronti di governanti improvvisati e inadeguati: spesso qualcuno di loro ha mascherato a fatica la soddisfazione di poter usare quei morti nella futura spartizione del bottino.
Non occorre aver frequentato la scuola di guerra, i centri di studi strategici, i corsi delle scuole d’applicazione d’arma per non nutrir sospetti sulla conduzione di questo conflitto, modernissimo e insieme arcaico, che richiama le immagini delle cannoniere ottocentesche o novecentesche in viaggio per i paesi coloniali. Se non altro, allora, non si faceva spreco delle parole democrazia, giustizia, libertà dei popoli. Civilizzazione, tutt’al più.
La magistratura dovrà valutare quel che è accaduto. Davvero era sufficiente scrivere in arabo Italia sulla giubba per conquistare la simpatia degli iracheni? Vale ancora il luogo comune «italiani brava gente»? Popolazioni misere, con problemi di ogni genere, sanno davvero distinguere tra un americano, un inglese, un italiano armati e vestiti nello stesso modo che occupano la loro patria? E poi: è stato prudente allestire il quartier generale italiano in città, senza particolari protezioni? E ancora: perché non è stato tenuto conto delle informazioni del Sismi italiano e della Cia americana? E soprattutto: non erano messi in conto atti offensivi? Non importa che i kamikaze siano i resuscitati soldati dell’esercito di Saddam o gli uomini di Al Qaeda. Anche ufficiali americani parlano ora di guerra di liberazione.
I segni di un pericolo grave che pesa addosso al nostro contingente seguitano a inquietare nonostante i tentativi di smorzarli. Le parole più sensate sembrano quelle di Marco Calamai, il consigliere speciale dell’Amministrazione provvisoria della coalizione, che si è dimesso in dissenso dalla politica che viene fatta: «Solo un nuovo scenario internazionale gestito dall’Onu e con un ruolo particolare riservato all’Europa può tentare di migliorare la situazione che ritengo gravemente compromessa».
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CITAZIONE
Si dice, anche a sinistra, che abbandonare il campo in Iraq sarebbe una sorta di diserzione. Ma a volte è proprio alla figura ambivalente del disertore, invisa a ogni potere, che siamo debitori della salvezza e della libertà. E' infatti proprio questa figura, persino nelle sue espressioni più egoistiche, a segnalare il confine tra ciò che si può chiedere e ciò che chiedere non si può, a porre un limite indiscutibilmente umano all'ideologia, alla lealtà e perfino alla fede.
Marco Bascetta – manifesto 21-11
MANIFESTO 20-11
Il vero caso si chiama Berlusconi
IL lodo Gasparri che incrementerà il patrimonio del Capo
GIUSEPPE GIULIETTI
Sabina Guzzanti fa satira o informazione? Era lecito occuparsi di attualità in un programma di satira? Questa sembra essere la nuova frontiera della discussione sul «caso Guzzanti». Sarebbe una discussione persino appassionante, se vivessimo in quel paese normale che nessuno ha ancora avuto il piacere di scoprire. La stessa Sabina Guzzanti e tanti altri amerebbero dedicarsi ad altri temi e ben altri progetti televisivi e artistici. Questo, tuttavia, è il tempo nel quale ci è dato di vivere. La domanda, dunque, andrebbe posta in altro modo: in quale altra trasmissione, tranne forse una puntata di Ballarò ed alcuni speciali del Tg3, ci è stata data la possibilità di conoscere dati, cifre, tabelline sul lodo Berlusconi-Gasparri sulle televisioni? Perché le grandi piazze televisive hanno chiuso la saracinesca su questa che è davvero la legge «berlusconissima»? Ma tutta questa discussione non ha neppure sfiorato il vertice della Rai, che ha invece deciso che il programma di Sabina Guzzanti potrà andare sì in onda, ma sotto scorta: un comitato di legali vigilantes controllerà il prodotto e deciderà. Un precedente sconcertante. Nelle stesse ore il ministro Gasparri ha invece parlato, da solo e senza contraddittorio, dai microfoni di Radio Anch'io, per magnificare la legge fatta su misura per il capo supremo. Naturalmente non è accaduto nulla, nonostante le disposizioni della Commissione di vigilanza. I vigilantes guardano e guarderanno da una parte sola.
Nella Rai di oggi, nell'Italia della comunicazione, non c'è un caso Guzzanti, ma c'è un caso Berlusconi: un allarme censura, come è stato rilevato da tutti gli organismi internazionali che si occupano di libertà di informazione. Il vero scandalo è rappresentato dal lodo Gasparri: dalla legge che incrementerà il patrimonio del capo e colpirà alle spalle centinaia di aziende editoriali. Il vero scandalo è il mancato rientro in video dei Biagi, dei Santoro, dei Freccero, dei Luttazzi, e dei tanti altri colpiti dall'anatema bulgaro del cavaliere di Arcore. Il vero scandalo è rappresentato dalle mancate dirette in occasione delle grandi manifestazioni per la pace e per il diritto alla pensione. Beppe Grillo non ha fatto neppure in tempo a nominare il lodo Berlusconi-Gasparri dagli schermi di Mediaset che Fedele Gonfalonieri ha sentito il bisogno di fare una pubblica sfuriata. Il comizio di Berlusconi a reti unificate e di Tremonti a reti semi-unificate non ha prodotto neppure un cartellino giallo da parte del direttore generale. Quali provvedimenti sono stati assunti di fronte ad omissioni e ad aggressioni? Quando mai si è discusso delle faziosità e delle omissioni di Vespa o di Socci, per fare qualche esempio? Quali omissioni, silenzi, hanno mai conosciuto una sanzione morale, non dico un provvedimento disciplinare, perché la via disciplinare al giornalismo ci ripugna sempre e comunque.
La maggioranza politica del cda Rai e il direttore generale Cattaneo non hanno mai tentato di apparire come i garanti delle regole: hanno semplicemente protetto gli amici e punito i nemici. Di questo si tratta e non di altro.
Se e quando riusciremo ad uscire da questo incubo e da questo ribaltamento dei ruoli - il boia si finge vittima e la vittima viene invece processata per atti di violenza -, sarà finalmente possibile discutere in modo serio del rapporto fra satira e informazione, delle modalità espressive, della tv del futuro, di etica e di qualità. Anche se da chi vuole imporre codici e codicilli alla libertà di espressione, probabilmente non potremo mai finire di guardarci.
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LIBERAZIONE 20-11
Corsivo di I pag.
L’animo puro e nobile di Piersilvio…
DON PANCRAZIO
Si sa, bisogna avere l'animo puro e nobile per gridare al mondo la verità. E chi poteva accusare Sabina Guzzanti di aver mentito, nella prima e forse ultima puntata di RAIOT «sulle nostre origini, la nostra storia, le ragioni del nostro successo, infangando oltre 4 mila persone che oggi lavorano a Mediaset o ci hanno lavorato», se non l'innocente Piersilvio Berlusconi? L'hanno vista tutti la Guzzanti infangare, uno per uno, i quattromila dipendenti Mediaset. Come si permette? E cosa c'entra poi Mediaset con i favori di Craxi, con la P2 e con il contenuto della legge Gasparri? Ma quello che a Piersilvio, angioletto recentemente sceso dal cielo, soprattutto «infastidisce è vedere che tutto è sempre spostato sulla bagarre politica che non ha nulla a che vedere con la nostra realtà di lavoro». Non chiarisce, Piersilvio, se è infastidito dall'uso politico della Tv o dall'uso televisivo della politica, Ma bisogna capirlo: forse il candido virgulto, peraltro non aduso alle sottigliezze della frenetica vita moderna, ha preso dal padre, che notoriamente non riesce a distinguere l'uso della politica a fini giudiziari dall'uso della giustizia a fini politici.
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REPUBBLICA on-line 20-11
Cecenia – L’Europarlamento "deplora" Berlusconi
Richiamo votato da uno schieramento che comprende perfino il Ppe
STRASBURGO - In una risoluzione approvata oggi a Strasburgo l'Europarlamento ha "deplorato" le dichiarazioni fatte da Silvio Berlusconi al termine del vertice Ue-Russia di Roma. Nel documento, presentato da Ppe, Pse, Eldr, Verdi e Comunisti, l'assemblea Ue ha "deplorato le dichiarazioni fatte dal presidente in carica del consiglio Ue alla fine del vertice Ue-Russia, nelle quali ha espresso il proprio sostegno alla posizione del governo russo per quanto concerne la situazione dei diritti dell'uomo in Cecenia e della democrazia nella Federazione russa" (concetto contenuto nell'articolo 13). Nella risoluzione si specifica che tale conflitto "non può essere considerato unicamente come un elemento della lotta contro il terrorismo". Ieri il capogruppo di Forza Italia, Antonio Tajani aveva annunciato che la delegazione di Forza Italia avrebbe votato contro il paragrafo 13 e nel caso in cui fosse passato si sarebbe astenuta sul voto finale della risoluzione, come è avvenuto. Nel sottolineare che il richiamo è "sancito non dalla sinistra ma da uno schieramento molto vasto che comprende perfino il Ppe", il coordinatore dei ds Vannino Chiti usa l'ironia nel commentare il richiamo partito dal parlamento europeo all'indirizzo di silvio Berlusconi: "Non so se questo richiamo riuscirà a far riflettere il nostro premier ma almeno gli impedirà di ripetere di essere stato vittima di un complotto comunista".
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I PRECEDENTI
Il 6 novembre scorso a Roma, Berlusconi, durante la conferenza stampa finale del vertice a Villa Madama, aveva appoggiato la politica del presidente russo Vladimir Putin in Cecenia. Si era così espresso in netto contrasto con la posizione molto critica e preoccupata dell'Ue sulle violazioni dei diritti umani in questa regione, che vengono spesso attribuite dagli osservatori internazionali all'esercito russo (principalmente durante presunte operazioni di anti-terrorismo). Il capo del governo italiano aveva anche garantito sulla correttezza dell'azione giudiziaria della magistratura moscovita nel «caso Yukos», definendosi come «l'avvocato» del suo amico Putin. Il presidente della Commissione, Romano Prodi, e il rappresentante dei governi Ue per la politica estera e di sicurezza Javier Solana, presenti al vertice con la Russia, avevano preso poco dopo le distanze dalle dichiarazioni della presidenza dell'Ue.
La risoluzione dell'Europarlamento votata oggi a Strasburgo si compone di 24 punti. Al paragrafo 13 recita: «Il Parlamento europeo deplora le dichiarazioni fatte dal presidente in carica del Consiglio Ue alla fine del vertice Ue-Russia, dove ha espresso il suo appoggio per la posizione del governo russo per quanto concerne la situazione dei diritti umani in Cecenia e il livello della democrazia nella Federazione Russa». In altre parti invita i Paesi dell'Ue a non «chiudere gli occhi» sugli abusi contro il popolo ceceno collegabili alle truppe russe presenti nella regione. Testo accettato dai principali gruppi politici dell'Europarlamento - il Partito popolare europeo (Ppe), il Partito socialista europeo (Pse), i liberali, i Verdi e i Comunisti.
Nel dibattito in Aula ha criticato duramente le affermazioni di Berlusconi sulla Cecenia perfino l'eurodeputato tedesco Hans-Gert Pöttering, numero uno a Strasburgo del Ppe, il principale gruppo europeo a cui aderisce Forza Italia. «La Cecenia è una ferita che continua a sanguinare in Europa - ha detto Pöttering -. Dovrebbe ottenere l'autonomia». Il leader tedesco ha poi invitato Berlusconi a «cercare di non fare più una cosa del genere». Il presidente del gruppo dei liberali (Eldr), il britannico Graham Watson, ha definito l'appoggio del presidente di turno dell'Ue a Putin «uno show improvvisato» e sviluppato con «una retorica da avvocato da pochi soldi». L'eurodeputato dei ds Claudio Fava ha ricordato le «50 fosse comuni» e altre drammatiche stime sulle violazioni dei diritti umani in Cecenia
(Ivo Caizzi – Corsera 20-11)
Il vero caso si chiama Berlusconi
IL lodo Gasparri che incrementerà il patrimonio del Capo
GIUSEPPE GIULIETTI
Sabina Guzzanti fa satira o informazione? Era lecito occuparsi di attualità in un programma di satira? Questa sembra essere la nuova frontiera della discussione sul «caso Guzzanti». Sarebbe una discussione persino appassionante, se vivessimo in quel paese normale che nessuno ha ancora avuto il piacere di scoprire. La stessa Sabina Guzzanti e tanti altri amerebbero dedicarsi ad altri temi e ben altri progetti televisivi e artistici. Questo, tuttavia, è il tempo nel quale ci è dato di vivere. La domanda, dunque, andrebbe posta in altro modo: in quale altra trasmissione, tranne forse una puntata di Ballarò ed alcuni speciali del Tg3, ci è stata data la possibilità di conoscere dati, cifre, tabelline sul lodo Berlusconi-Gasparri sulle televisioni? Perché le grandi piazze televisive hanno chiuso la saracinesca su questa che è davvero la legge «berlusconissima»? Ma tutta questa discussione non ha neppure sfiorato il vertice della Rai, che ha invece deciso che il programma di Sabina Guzzanti potrà andare sì in onda, ma sotto scorta: un comitato di legali vigilantes controllerà il prodotto e deciderà. Un precedente sconcertante. Nelle stesse ore il ministro Gasparri ha invece parlato, da solo e senza contraddittorio, dai microfoni di Radio Anch'io, per magnificare la legge fatta su misura per il capo supremo. Naturalmente non è accaduto nulla, nonostante le disposizioni della Commissione di vigilanza. I vigilantes guardano e guarderanno da una parte sola.
Nella Rai di oggi, nell'Italia della comunicazione, non c'è un caso Guzzanti, ma c'è un caso Berlusconi: un allarme censura, come è stato rilevato da tutti gli organismi internazionali che si occupano di libertà di informazione. Il vero scandalo è rappresentato dal lodo Gasparri: dalla legge che incrementerà il patrimonio del capo e colpirà alle spalle centinaia di aziende editoriali. Il vero scandalo è il mancato rientro in video dei Biagi, dei Santoro, dei Freccero, dei Luttazzi, e dei tanti altri colpiti dall'anatema bulgaro del cavaliere di Arcore. Il vero scandalo è rappresentato dalle mancate dirette in occasione delle grandi manifestazioni per la pace e per il diritto alla pensione. Beppe Grillo non ha fatto neppure in tempo a nominare il lodo Berlusconi-Gasparri dagli schermi di Mediaset che Fedele Gonfalonieri ha sentito il bisogno di fare una pubblica sfuriata. Il comizio di Berlusconi a reti unificate e di Tremonti a reti semi-unificate non ha prodotto neppure un cartellino giallo da parte del direttore generale. Quali provvedimenti sono stati assunti di fronte ad omissioni e ad aggressioni? Quando mai si è discusso delle faziosità e delle omissioni di Vespa o di Socci, per fare qualche esempio? Quali omissioni, silenzi, hanno mai conosciuto una sanzione morale, non dico un provvedimento disciplinare, perché la via disciplinare al giornalismo ci ripugna sempre e comunque.
La maggioranza politica del cda Rai e il direttore generale Cattaneo non hanno mai tentato di apparire come i garanti delle regole: hanno semplicemente protetto gli amici e punito i nemici. Di questo si tratta e non di altro.
Se e quando riusciremo ad uscire da questo incubo e da questo ribaltamento dei ruoli - il boia si finge vittima e la vittima viene invece processata per atti di violenza -, sarà finalmente possibile discutere in modo serio del rapporto fra satira e informazione, delle modalità espressive, della tv del futuro, di etica e di qualità. Anche se da chi vuole imporre codici e codicilli alla libertà di espressione, probabilmente non potremo mai finire di guardarci.
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LIBERAZIONE 20-11
Corsivo di I pag.
L’animo puro e nobile di Piersilvio…
DON PANCRAZIO
Si sa, bisogna avere l'animo puro e nobile per gridare al mondo la verità. E chi poteva accusare Sabina Guzzanti di aver mentito, nella prima e forse ultima puntata di RAIOT «sulle nostre origini, la nostra storia, le ragioni del nostro successo, infangando oltre 4 mila persone che oggi lavorano a Mediaset o ci hanno lavorato», se non l'innocente Piersilvio Berlusconi? L'hanno vista tutti la Guzzanti infangare, uno per uno, i quattromila dipendenti Mediaset. Come si permette? E cosa c'entra poi Mediaset con i favori di Craxi, con la P2 e con il contenuto della legge Gasparri? Ma quello che a Piersilvio, angioletto recentemente sceso dal cielo, soprattutto «infastidisce è vedere che tutto è sempre spostato sulla bagarre politica che non ha nulla a che vedere con la nostra realtà di lavoro». Non chiarisce, Piersilvio, se è infastidito dall'uso politico della Tv o dall'uso televisivo della politica, Ma bisogna capirlo: forse il candido virgulto, peraltro non aduso alle sottigliezze della frenetica vita moderna, ha preso dal padre, che notoriamente non riesce a distinguere l'uso della politica a fini giudiziari dall'uso della giustizia a fini politici.
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REPUBBLICA on-line 20-11
Cecenia – L’Europarlamento "deplora" Berlusconi
Richiamo votato da uno schieramento che comprende perfino il Ppe
STRASBURGO - In una risoluzione approvata oggi a Strasburgo l'Europarlamento ha "deplorato" le dichiarazioni fatte da Silvio Berlusconi al termine del vertice Ue-Russia di Roma. Nel documento, presentato da Ppe, Pse, Eldr, Verdi e Comunisti, l'assemblea Ue ha "deplorato le dichiarazioni fatte dal presidente in carica del consiglio Ue alla fine del vertice Ue-Russia, nelle quali ha espresso il proprio sostegno alla posizione del governo russo per quanto concerne la situazione dei diritti dell'uomo in Cecenia e della democrazia nella Federazione russa" (concetto contenuto nell'articolo 13). Nella risoluzione si specifica che tale conflitto "non può essere considerato unicamente come un elemento della lotta contro il terrorismo". Ieri il capogruppo di Forza Italia, Antonio Tajani aveva annunciato che la delegazione di Forza Italia avrebbe votato contro il paragrafo 13 e nel caso in cui fosse passato si sarebbe astenuta sul voto finale della risoluzione, come è avvenuto. Nel sottolineare che il richiamo è "sancito non dalla sinistra ma da uno schieramento molto vasto che comprende perfino il Ppe", il coordinatore dei ds Vannino Chiti usa l'ironia nel commentare il richiamo partito dal parlamento europeo all'indirizzo di silvio Berlusconi: "Non so se questo richiamo riuscirà a far riflettere il nostro premier ma almeno gli impedirà di ripetere di essere stato vittima di un complotto comunista".
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I PRECEDENTI
Il 6 novembre scorso a Roma, Berlusconi, durante la conferenza stampa finale del vertice a Villa Madama, aveva appoggiato la politica del presidente russo Vladimir Putin in Cecenia. Si era così espresso in netto contrasto con la posizione molto critica e preoccupata dell'Ue sulle violazioni dei diritti umani in questa regione, che vengono spesso attribuite dagli osservatori internazionali all'esercito russo (principalmente durante presunte operazioni di anti-terrorismo). Il capo del governo italiano aveva anche garantito sulla correttezza dell'azione giudiziaria della magistratura moscovita nel «caso Yukos», definendosi come «l'avvocato» del suo amico Putin. Il presidente della Commissione, Romano Prodi, e il rappresentante dei governi Ue per la politica estera e di sicurezza Javier Solana, presenti al vertice con la Russia, avevano preso poco dopo le distanze dalle dichiarazioni della presidenza dell'Ue.
La risoluzione dell'Europarlamento votata oggi a Strasburgo si compone di 24 punti. Al paragrafo 13 recita: «Il Parlamento europeo deplora le dichiarazioni fatte dal presidente in carica del Consiglio Ue alla fine del vertice Ue-Russia, dove ha espresso il suo appoggio per la posizione del governo russo per quanto concerne la situazione dei diritti umani in Cecenia e il livello della democrazia nella Federazione Russa». In altre parti invita i Paesi dell'Ue a non «chiudere gli occhi» sugli abusi contro il popolo ceceno collegabili alle truppe russe presenti nella regione. Testo accettato dai principali gruppi politici dell'Europarlamento - il Partito popolare europeo (Ppe), il Partito socialista europeo (Pse), i liberali, i Verdi e i Comunisti.
Nel dibattito in Aula ha criticato duramente le affermazioni di Berlusconi sulla Cecenia perfino l'eurodeputato tedesco Hans-Gert Pöttering, numero uno a Strasburgo del Ppe, il principale gruppo europeo a cui aderisce Forza Italia. «La Cecenia è una ferita che continua a sanguinare in Europa - ha detto Pöttering -. Dovrebbe ottenere l'autonomia». Il leader tedesco ha poi invitato Berlusconi a «cercare di non fare più una cosa del genere». Il presidente del gruppo dei liberali (Eldr), il britannico Graham Watson, ha definito l'appoggio del presidente di turno dell'Ue a Putin «uno show improvvisato» e sviluppato con «una retorica da avvocato da pochi soldi». L'eurodeputato dei ds Claudio Fava ha ricordato le «50 fosse comuni» e altre drammatiche stime sulle violazioni dei diritti umani in Cecenia
(Ivo Caizzi – Corsera 20-11)
MEDITAZIONE
WWW.CENTOMOVIMENTI.IT 20-11
EDITORIALE
Crimini e misfatti: quando una strage serve a chi l’ha permessa
MASSIMO DEL PAPA
Che cosa è rimasto dopo i funerali di Stato che hanno calato il sipario sull’attentato più grave del dopoguerra italiano? Un’orgia di retorica, servita a eludere domande che andavano fatte. Perché sono cruciali. Sono rimaste anche generose falsità, equivoci costruiti ad arte, che sarebbe il caso di smontare.
Gli eroi, anzitutto. Quali eroi? Quelli mandati a morire senza una ragione, in difesa di una libertà che non ci apparteneva, che non a loro era stata chiesta, che quel popolo lontano non vuole almeno nella forma in cui l’occidente gliela vuole imporre: altrimenti non si spiegherebbero i sei mesi di guerriglia ininterrotta contro i salvatori.
Quali eroi? I 19 caduti italiani non sono andati a difendere la loro patria, sono stati trucidati nella patria altrui, non sono andati a fronteggiare un pe
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WWW.CENTOMOVIMENTI.IT 20-11
EDITORIALE
Crimini e misfatti: quando una strage serve a chi l’ha permessa
MASSIMO DEL PAPA
Che cosa è rimasto dopo i funerali di Stato che hanno calato il sipario sull’attentato più grave del dopoguerra italiano? Un’orgia di retorica, servita a eludere domande che andavano fatte. Perché sono cruciali. Sono rimaste anche generose falsità, equivoci costruiti ad arte, che sarebbe il caso di smontare.
Gli eroi, anzitutto. Quali eroi? Quelli mandati a morire senza una ragione, in difesa di una libertà che non ci apparteneva, che non a loro era stata chiesta, che quel popolo lontano non vuole almeno nella forma in cui l’occidente gliela vuole imporre: altrimenti non si spiegherebbero i sei mesi di guerriglia ininterrotta contro i salvatori.
Quali eroi? I 19 caduti italiani non sono andati a difendere la loro patria, sono stati trucidati nella patria altrui, non sono andati a fronteggiare un pe
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