CORSERA 28-7
Mediaset: sì di Londra a un’altra rogatoria chiesta dalla Procura
Si sta cercando di impedire alla Consulta di pronunciarsi sul lodo Schifani prima che il processo Sme sia azzerato
Paolo Biondani
MILANO - Mentre a Roma si discute se la Procura di Milano possa o meno fare indagini sul capo del governo e sulle sue televisioni, loro, i pm Alfredo Robledo e Fabio De Pasquale, sono già volati a Londra per chiudere la più importante delle rogatorie estere dell’inchiesta Mediaset. L’ipotesi dell’accusa è che l’azienda di Berlusconi possa aver truccato i bilanci (gonfiando di 200 milioni di euro il «magazzino» di film americani) negli anni decisivi della quotazione in Borsa. La «rogatoria» (dal latino rogare : chiedere) è la richiesta, rivolta a giudici stranieri, di indagare all’estero. Gli avvocati di Berlusconi ne contestano la possibilità, sostenendo che la nuova legge sull’immunità bloccherebbe, oltre ai processi, anche le inchieste sul premier. Il caso è esploso quando il ministro Castelli si è fatto restituire dall’ambasciata americana l’ultima rogatoria su Mediaset e l’ha rispedita alla Procura, che ha risposto denunciando al Csm l’«abnorme interferenza politica». Ora, a spiegare perché i due pm si sentano comunque «in dovere» di continuare l’indagine, è il procuratore aggiunto Armando Spataro: «Il dibattito a Roma appartiene al rito della politica, senz’altro rispettabile, ma è estraneo alle ragioni del diritto. Il governo non può imporre ai giudici come interpretare le leggi. Questa si chiama divisione dei poteri, è l’abc della Costituzione. Solo il Parlamento potrebbe semmai votare una nuova legge di interpretazione autentica, che però porrebbe grossi problemi di costituzionalità. Ma una semplice risoluzione politica non ha rilievo giuridico: Vietti ha pienamente ragione. Già il 5 dicembre 2001 il Senato approvò una mozione per bocciare l’interpretazione della legge sulle rogatorie data dai giudici milanesi, ma la Cassazione ha sempre dato ragione ai tribunali».
All’obiezione che la tesi di Castelli è esplicitata in atti firmati da magistrati assunti al ministero, Spataro risponde così: «Il Csm ha solennemente affermato che anche al ministero i magistrati conservano e devono tutelare la loro indipendenza. Sarebbe bene che tutti lo ricordassero».
Sempre sul tema caldo dei limiti dell’immunità per il premier, intanto, a Milano sta destando scalpore il ritardo di un mese di una notifica alla presidenza del Consiglio, che ha costretto il tribunale a ordinare una trasmissione di atti alla Corte costituzionale «per ora incompleta». L’avvocato Giuliano Pisapia, parte civile nel processo Sme, parla di «fatto di per sé strano, che diventa inquietante ricordando l’analogo "ritardo" di una notifica alla Consulta sul legittimo sospetto. Quando le coincidenze sono troppe e si accompagnano a un tentato stop alle rogatorie che riguarda sempre lo stesso imputato, diventa quantomeno legittimo il dubbio, gravissimo, che si stia cercando di impedire alla Corte costituzionale di pronunciarsi sul lodo Schifani prima che il processo Sme sia comunque azzerato».
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CENTOMOVIMENTI-NEWS 28-7
Il pioniere dell'acustica
Berlusconi ha messo Castelli alla Giustizia perché è nato a Lecco – magari Fede non voleva lasciare il TG-4…
di Massimiliano Boschi
Per chi non se ne fosse accorto Roberto Castelli è Ministro della Giustizia, anche se non se ne comprendono i motivi. A dire il vero anche lui fatica a capacitarsene e, ebbro di tanto potere, utilizza le sofferenze altrui per basse lotte di potere. Ma bisogna comprenderlo, quando la Patria chiama bisogna rispondere anche se non si sa quasi nulla né di amministrazione giudiziaria né di codici o testi di legge. Come recita il suo curriculum (www.giustizia.it): "Castelli, in Italia è pioniere nel campo dell'acustica, di cui è riconosciuto autorevole esponente". Mica poteva perdere tempo tra polverosi codici, lui. Pensate sia facile diventare "riconosciuto pioniere ed autorevole esponente dell’acustica"? Insomma, potrà non essere un ottimo ministro, ma come sente Castelli, non sente nessuno, Echelon al confronto è una pippa. Castelli, invece, sente cose che noi sentiremo, forse, ma non è detto, tra dieci o quindici anni. E non è tutto. Come specificato dallo stesso curriculum: "Castelli è docente al Politecnico di Milano del corso "Elementi di controllo del rumore negli edifici" in qualità di cultore della materia".
Qui, però, hanno probabilmente esagerato, fosse davvero il cultore di rumori negli edifici, avrebbe smesso di fare lo spiritoso e avrebbe incominciato a preoccuparsi di quegli strani scricchiolii che provengono dalla poltrona su cui sta seduto. Ma chissà, forse ci sbagliamo, il cultore degli edifici è lui e chiunque in Padania può raccontarvi di quando distinse il rumore di un’anta cigolante in una casa della Val Trompia quando ancora si trovava in Val Sabbia. Un vero e proprio portento. Uno così non volete farlo diventare ministro della Giustizia? Vabbè, magari ha sempre avuto l’hobby della giurisprudenza…
No, nemmeno quello, il suo curriculum non lascia spazio a speranze. "Il ministro solo a seguito della recente nomina a Ministro della Giustizia ha deciso di sospendere la propria attività professionale (di pioniere dell’acustica o di espertone in scricchiolii?). La grande passione per la montagna lo porta a praticare lo scialpinismo e l'escursionismo. Ama la vela, legge soprattutto testi di politica e di storia. Ha fondato ed è presidente onorario della Associazione liberi padani escursionisti (Alpe). È volontario del Corpo Nazionale di Soccorso Alpino e Speleologico". Niente da fare nemmeno con hobby e letture. Solo escursioni in montagna e letture storico politiche, fatte ovviamente tenendo sempre le orecchie dritte, perché un pioniere dell’acustica come lui non può mica distrarsi troppo. Se poi gli crolla una casa a fianco mentre è distratto magari gli tocca dimettersi da Ministro.
Scherzi a parte, leggendo il curriculum non siamo proprio riusciti a comprendere il motivo per cui Berlusconi lo abbia voluto ministro della Giustizia. Un unico indizio, di cui ci vergogniamo un po’, ci ha fatto pensare di aver risolto il mistero, il ministro Castelli è nato a Lecco. Magari Fede non voleva lasciare il TG4…
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ESPRESSO on-line 28-7
I cantori della democrazia autoritaria
Servono il padrone pure a costo di far passare per benefattori quei pochi che si spartiscono le ricchezze del mondo
Giorgio Bocca
La scuderia giornalistica al servizio del cavalier Berlusconi conosce gli interessi del padrone in politica estera: tenere i piedi in due staffe fra l´Europa e gli Stati Uniti con preferenza per l´amico Bush, quello che dice di aver fatto la guerra ai talebani e a Saddam per la democrazia. Donde la serie di editoriali e commenti in cui, ricorrendo a Machiavelli o a Tacito, si ricorda che l´uso della forza non sarà sempre commendevole, ma per dirla alla romanesca, ´quanno ce vo´, ce vo´´. Insomma, con tutte le chiacchiere dei pacifisti, la feroce dittatura di Saddam sarebbe ancora in piedi se la forza americana non avesse aperto un processo di liberazione che dal Medio Oriente può irradiarsi nel mondo.
Il servizio del padrone assicura stipendi, collaborazioni e la sua benevolenza, ma questa tesi della forza a fin di bene è una mistificazione a tutti i livelli del potere imperiale. Marx diceva che il mulino a vento stava al capitalismo agrario come quello a vapore al capitalismo industriale e sembra evidente che la rivoluzione informatica gonfia le vele del capitalismo globale.
E allora, per cominciare si dovrebbe spiegare che la democrazia esportabile, la democrazia autoritaria che oggi è in vigore anche per i cittadini americani e italiani, la democrazia che asseconda gli interessi dei Bush e dei Berlusconi è la democrazia senza controlli del potere economico, senza frontiere, con il legislativo agli ordini dell´esecutivo e una sostanziale impunità.
Ma anche ad ammettere che questa democrazia riformata, limitata, adattata alla egemonia del profitto sia l´unica praticabile nel contemporaneo, anche a sostenere che la forma democratica rappresenta comunque una difesa dei diritti umani e della libertà, chi può avere l´impudenza di sostenere che nella pratica essa stia in cima ai pensieri della potenza americana?
Da dove è partita la forza americana per restaurare la democrazia irachena? Dagli Stati arabi del Medio Oriente, regno saudita ed emirati, da decenni presidiati dalle basi militari statunitensi. In questi Stati la forza americana democratica non ha mosso un dito contro regimi non solo autoritari, ma medioevali, arcaici, dominati da aristocrazie reazionarie.
E nel resto del mondo come è andata? È andata che i presidenti americani cambiavano, ma il sostegno americano ai regimi antidemocratici restava, che le più feroci repressioni antidemocratiche nel Sudamerica come nell´Indonesia sono state condotte con l´avallo e la partecipazione degli Stati Uniti.
Che un impero si comporti da impero rientra nella logica del potere, che esso preferisca dei protettorati alle alleanze fra pari è fuori discussione, che le relazioni fra i popoli siano sempre andate in questi modi siamo perfettamente d´accordo, ma che per far piacere ai padroni si debba sostenere che questa è l´unica via alla democrazia sembra eccessivo.
La democrazia autoritaria è ancora democrazia? In parte sì, perché fa a meno dei lager e dei gulag, non impedisce le migrazioni interne ed esterne, concede libertà di opinione e di parola con la precauzione di riservare la proprietà dei mezzi di comunicazione ai suoi oligopoli.
Stiamo apprendendo dai giornali il programma di colonizzazione televisiva del gruppo Murdoch: sport, sesso e pubblicità a dosi crescenti, un berlusconismo moltiplicato e potenziato da un imprenditore che naturalmente è fra i più accesi sostenitori di George Bush e del suo gruppo di potere militar-economico.
Ma il padrone va servito anche a costo di rovesciare letteralmente lo stato delle cose, anche a costo di far passare quel 6 o 7 per cento che si spartisce le ricchezze del mondo per i suoi benefattori?
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Media berlusconiani: Ferrara peggio di Fede
I lettori de L'Espresso online considerano il fondatore del Foglio il "volto peggiore" del regime del Cavaliere. Solo terzo il direttore del Tg4.
Prima di tutto, meglio specificare: non si tratta di un sondaggio con valore statistico, non c'è alcun campione demoscopico con carattere scientifico. E' soltanto l'espressione di un orientamento, un voto on line indicato da chi ha voluto cliccare. Eppure un po' di significato ce l'ha, visto che in quattro giorni - dalle 9 di giovedì alle 9 di stamattina, lunedì) hanno manifestato la loro opinione oltre 1.400 persone, ciascuna delle quali può votare una sola volta, o quanto meno una sola volta dallo stesso computer. E il risultato non lascia dubbi: è il Foglio di Giuliano Ferrara il media berlusconiano meno amato dai lettori della versione on line de L'espresso. Il 37% dei quali considera il quotidiano dell'elefantino (così si firma "Giulianone") il volto peggiore dei media di regime, per "l'alibi intellettuale" che esso offre a Forza Italia, con le sue durissime campagne contro i magistrati di Milano, con le sue rievocazioni nostalgiche del craxismo, con la sua difesa a oltranza del governo, con la sua posizione a favore della guerra e con l'esaltazione delle leggi su misura che il Cavaliere si è fatto fare nei suoi due anni di governo. Anche la recente ammissione da parte di Ferrara, ex comunista ed ex socialista, di aver fatto in passato l'informatore della Cia ha probabilmente contribuito a questo risultato.
Alla testata di proprietà della moglie di Berlusconi segue, subito a ruota, quella di proprietà (almeno formale) del fratello Paolo, cioè il Giornale diretto da Maurizio Belpietro. Quello che un tempo era il quotidiano conservatore ma senza dubbio indipendente fondato da Indro Montanelli oggi viene considerato "tristemente servile" nei confronti del cavaliere dal 34% di coloro che hanno espresso il loro orientamento attraverso gli indirizzi di Voto.it e di Espressonline.it
Solo terzo, e abbastanza distaccato (18%) il Tg4 di Emilio Fede: evidentemente gli aspetti vagamente cabarettistici del telegiornale-show in onda alle 19 su Rete4 inducono più al buon umore e meno allo sdegno morale.
Infine, solo il 12% dei "votanti" considera espressione di regime il quotidiano Libero, diretto da Vittorio Feltri, nonostante i toni gridati e la linea ultra-reazionaria che lo caratterizzano. Probabilmente a questo risultato hanno contribuito sia la maggiore autonomia di giudizio di Feltri, che a volte esprime posisioni dissonanti da quellle ufficiali della Casa delle Libertà, sia la minore frequentazione del suo giornale (che non ha un sito in rete) da parte degli internauti.
martedì, luglio 29, 2003
MANIFESTO 27-7
I volti della guerra
ANTONIO TABUCCHI
Sulla stampa e in televisione si è aperta una discussione sullo scandalo che l'immagine può provocare, perché le fotografie dei cadaveri dei figli di Saddam Hussein trucidati dagli americani stanno turbando gli animi sensibili del nostro sensibile occidente. Anche certi parlamentari del governo italiano, così soddisfatti di vedere portare la democrazia in certi paesi a suon di bombe, pare sembrino un po' turbati. Insomma, così no, dicono i sensibili, macché barbarie. Come a dire: la barbarie si può fare, tanto è l'Iraq, ma farla vedere a noi è barbaro. Tanta sensibilità è commovente. Si tratta in fondo di cadaveri. E nelle guerre di cadaveri ce ne sono a iosa, perché le guerre prevedono cadaveri, altrimenti non sarebbero guerre. Capisco che ad alcune anime sensibili piacerebbe che i morti apparissero come si deve: composti, educati, puliti, come i cari estinti con l'aria presentabile ai quali i parenti vengono a esprimere il loro cordoglio. Il caro estinto. I morti trucidati invece sono di una maleducazione insopportabile. E capisco anche che le anime sensibili si scandalizzino. Eppure, c'è qualcosa di didattico in queste immagini che mi pare prezioso con i tempi che corrono. Perché esse parlano della guerra. Quella vera, che è sempre sporca. Non quella che i signorini sensibili come noi guardiamo la sera alla televisione. Che naturalmente fa schifo, come sappiamo. E che tuttavia nel suo schifo, quando gli americani lo vogliono, raggiunge un livello ributtante di alta funzione informativa. Mostra a tutti cos'è la guerra. Quella vera, non quella fatta con le bandierine durante i talk-show serali. Ma questi sono solo i figli di Saddam.
Io auspicherei una televisione didatticamente coerente. Perché ci sarebbero i cadaverini di tanti bambini in Iraq, per scandalizzare ancora di più le anime sensibili che si stanno scandalizzando. Ad alcuni manca un braccino, ad altri una gambina o tutte e due, hanno tanto sangue sulla testa, sono proprio un bello schifino. Ma la democrazia che si porta con la guerra ha un prezzo alto, e questo prezzo andrebbe mostrato come fa il telegiornale con gli indici della borsa. Obiettivamente. La funzione della televisione è questa, magari roba da cretini, come ho sentito dire, ma i cretini sono spesso utili. Come fu quel cretino di Goya, pittore peraltro progressista che però si mise a disegnare «I disastri della guerra» di Napoleone, che era un democratico che si prese l'iniziativa di portare la democrazia con il proprio esercito nella penisola iberica di allora, dominata da una famiglia tipo Saddam, che però era aristocratica, cattolicissima e godeva dell'appoggio del papato.
Concetti di questo genere li avevo già espressi in un articolo uscito su l'Unità quando tutto stava ancora per succedere. Era un articolo in cui cercavo di capire le ragioni di Gino Strada, che per libera scelta professionale cerca di riaggiustare gli arti spappolati dalle bombe. Ma chirurghi di guerra come Gino Strada, che descrivono le immagini che ora vediamo, danno fastidio alle anime belle. Per questo il mio articolo parve irriverente. Ad ogni modo si può leggere ora sull'argomento un libro appena uscito in Italia di Susan Sontag, Davanti al dolore degli altri (Mondadori). Di solito ai libri spettano le cosiddette recensioni. Mi spiace per i recensori, ma la migliore recensione a questo straordinario libro sono le foto dei cadaveri dei figli di Saddam mostrati urbi et orbi. Non saprei se sono le fotografie che recensiscono il libro di Susan Sontag o viceversa. Decidete voi, cambiando l'ordine dei fattori il prodotto non cambia.
I volti della guerra
ANTONIO TABUCCHI
Sulla stampa e in televisione si è aperta una discussione sullo scandalo che l'immagine può provocare, perché le fotografie dei cadaveri dei figli di Saddam Hussein trucidati dagli americani stanno turbando gli animi sensibili del nostro sensibile occidente. Anche certi parlamentari del governo italiano, così soddisfatti di vedere portare la democrazia in certi paesi a suon di bombe, pare sembrino un po' turbati. Insomma, così no, dicono i sensibili, macché barbarie. Come a dire: la barbarie si può fare, tanto è l'Iraq, ma farla vedere a noi è barbaro. Tanta sensibilità è commovente. Si tratta in fondo di cadaveri. E nelle guerre di cadaveri ce ne sono a iosa, perché le guerre prevedono cadaveri, altrimenti non sarebbero guerre. Capisco che ad alcune anime sensibili piacerebbe che i morti apparissero come si deve: composti, educati, puliti, come i cari estinti con l'aria presentabile ai quali i parenti vengono a esprimere il loro cordoglio. Il caro estinto. I morti trucidati invece sono di una maleducazione insopportabile. E capisco anche che le anime sensibili si scandalizzino. Eppure, c'è qualcosa di didattico in queste immagini che mi pare prezioso con i tempi che corrono. Perché esse parlano della guerra. Quella vera, che è sempre sporca. Non quella che i signorini sensibili come noi guardiamo la sera alla televisione. Che naturalmente fa schifo, come sappiamo. E che tuttavia nel suo schifo, quando gli americani lo vogliono, raggiunge un livello ributtante di alta funzione informativa. Mostra a tutti cos'è la guerra. Quella vera, non quella fatta con le bandierine durante i talk-show serali. Ma questi sono solo i figli di Saddam.
Io auspicherei una televisione didatticamente coerente. Perché ci sarebbero i cadaverini di tanti bambini in Iraq, per scandalizzare ancora di più le anime sensibili che si stanno scandalizzando. Ad alcuni manca un braccino, ad altri una gambina o tutte e due, hanno tanto sangue sulla testa, sono proprio un bello schifino. Ma la democrazia che si porta con la guerra ha un prezzo alto, e questo prezzo andrebbe mostrato come fa il telegiornale con gli indici della borsa. Obiettivamente. La funzione della televisione è questa, magari roba da cretini, come ho sentito dire, ma i cretini sono spesso utili. Come fu quel cretino di Goya, pittore peraltro progressista che però si mise a disegnare «I disastri della guerra» di Napoleone, che era un democratico che si prese l'iniziativa di portare la democrazia con il proprio esercito nella penisola iberica di allora, dominata da una famiglia tipo Saddam, che però era aristocratica, cattolicissima e godeva dell'appoggio del papato.
Concetti di questo genere li avevo già espressi in un articolo uscito su l'Unità quando tutto stava ancora per succedere. Era un articolo in cui cercavo di capire le ragioni di Gino Strada, che per libera scelta professionale cerca di riaggiustare gli arti spappolati dalle bombe. Ma chirurghi di guerra come Gino Strada, che descrivono le immagini che ora vediamo, danno fastidio alle anime belle. Per questo il mio articolo parve irriverente. Ad ogni modo si può leggere ora sull'argomento un libro appena uscito in Italia di Susan Sontag, Davanti al dolore degli altri (Mondadori). Di solito ai libri spettano le cosiddette recensioni. Mi spiace per i recensori, ma la migliore recensione a questo straordinario libro sono le foto dei cadaveri dei figli di Saddam mostrati urbi et orbi. Non saprei se sono le fotografie che recensiscono il libro di Susan Sontag o viceversa. Decidete voi, cambiando l'ordine dei fattori il prodotto non cambia.
L’UNITA’ on-line 27-7
BANNER
Il premier affronta i problemi del Paese. " "Io anche di notte lavoro. Questa ad esempio l’ho scritta stanotte". Tira fuori dalla tasca un foglio. È la sua nuova canzone creata insieme a Mario Apicella. Il titolo in napoletano è appunto "Chesta notte" ".
Silvio Berlusconi, intervista la Repubblica, 26 luglio 2003
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Le ultime avventure del governo Bossi-Berlusconi
Tratti caratteristici: abuso di potere, volgarità, protervia, incompetenza
di Furio Colombo
Come in una prova di laboratorio, il comportamento arbitrario e offensivo del ministro della Giustizia che con una mano nega la richiesta di grazia per Adriano Sofri e con l’altra blocca il percorso legittimo di una rogatoria internazionale, contiene tutti gli elementi che connotano questo governo: incompetenza, incostituzionalità, offesa alle istituzioni. In particolare una offesa ripetuta e clamorosamente pubblicizzata al Presidente della Repubblica.
Nel caso della grazia a Sofri viene negato un atto dovuto. Come hanno spiegato illustri giuristi, il Guardasigilli ha il dovere di istruire la pratica di grazia anche quando non intende aggiungere un suo parere favorevole. Gli resta la libertà di non controfirmare l’eventuale concessione di grazia, ma non la libertà di interrompere la procedura dovuta, anzi obbligatoria, del suo ufficio.
Nel caso del blocco della rogatoria internazionale c’è invece l’altro tratto caratteristico del governo Bossi-Berlusconi: l’abuso di potere. Nella breve e infelice storia di questo ministro della Giustizia occorre aggiungere un altro tratto infrequente persino tra i ministri del governo Berlusconi: una profonda incompetenza che è resa dannosa da una vanteria imbarazzante, dalla pretesa di essere tanto più bravo in quanto più incompetente.
Castelli è orgoglioso di non sapere, e compie ogni volta, con arroganza infantile, il gesto che i libri di scuola attribuiscono a Brenno: mette la spada sulla bilancia, e - tutto contento di non capire le implicazioni e, a volte, il senso di quello che fa - proclama: comunque comando io.
Gli piace offendere e lo fa subito, prontamente, dando il segnale che il suo è un mondo di poche stanze, occupate da pregiudizi, idee modeste mai rivisitate, malizie da studente invecchiato male (io almeno ho la laurea, lui no), nessuna curiosità, e anzi orgoglioso rigetto delle cose che non sa e che, perché non sa, disprezza. Castelli disprezza moltissimo. Le sue finestre sono chiuse e si capisce che, da una vita, non filtra aria nel suo piccolo mondo. Non è così piccolo perché leghista ma il contrario: aveva bisogno di un ambiente angusto, rancoroso, negativo, propenso all’offesa come forma di comunicazione, e l’ha trovato nella Lega Nord. Esemplare il suo modo di rispondere al sottosegretario del suo ministero. Vietti si è permesso di osservare che, certo, Castelli ha interferito per sbaglio con la rogatoria internazionale dei Pm di Milano (falso in bilancio) che riguarda Berlusconi e che sta provocando l’offesa, lo scandalo, la richiesta di dimissioni del ministro della Giustizia da parte del partito dei Democratici di sinistra e di tutto l’Ulivo.
Vietti è un giurista e ha invocato, per il suo capo, la ragionevole attenuante di non sapere. Ha detto: sarà stato mal guidato da qualche funzionario zelante. Vietti mostra di non conoscere il nervo scoperto di Castelli, che è, come si è detto, il vanto della incompetenza. "Penso sempre con la mia testa", ha detto al suo vice, a cui non può perdonare di essere avvocato e dunque di avere un minimo di orientamento sulla questione. È una frase che - detta da Castelli - sembra fatta per provocare un "purtroppo".
Ma il nostro Guardasigilli provvede subito ad aggiungere alla sua esibizione di contentezza per quel che non sa (in altri Paesi si chiama arroganza del potere) una offesa che sia in linea con il suo modo naturale di esprimersi. Dice di non temere le dimissioni del suo sottosegretario, in caso di disaccordo, e spiega: "non ho mai visto un democristiano dimettersi". Vietti appartiene all’Udc e il suo intero partito reagisce con forza. Intorno a questa vicenda si accumulano molte domande: perché il governo Bossi-Berlusconi ha scelto proprio adesso di aggravare le tensioni interne alla maggioranza? Perché questa campagna per imbarazzare e antagonizzare il presidente della Repubblica? Perché Berlusconi, dopo la collezione di brutte figure e di spettacoli umilianti nel viaggio del suo circo da Strasburgo al Texas, sceglie di mostrare con sempre maggiore evidenza che nella sua ormai lacerata maggioranza solo Bossi, che pure è a capo di un partito in rotta, conta e comanda? Se non è il voto - e non lo è, vedi il Friuli - che cosa dà a Bossi e Castelli un simile potere di vandalismo dentro la loro coalizione?
Occorre però ricordare l’intera vicenda nella quale si situa quest’ultimo episodio di volgarità, di protervia, di incompetenza, di abuso. Ciascuna delle due storie - blocco della grazia ad Adriano Sofri e blocco di una rogatoria internazionale - ha un suo antefatto che è necessario ricordare. In tutti e due i casi, il protagonista dell’antefatto è Berlusconi, che, poco dopo, viene regolarmente sbugiardato, in modo smaccato, e impunemente, da quelli della Lega. Dal team Bossi-Castelli.
Dunque Sofri. Un anno fa Berlusconi scrive al "Foglio" che non vede l’ora che quella grazia venga concessa. Indica la possibile motivazione su come istruire la richiesta di grazia. Soprattutto mostra una persuasione profonda. Tanto che quando qualcuno, conoscendo Berlusconi, dice a Sofri di non fidarsi, viene redarguito perché sembra impossibile dubitare di toni tanto convinti e sinceri. Ma, come accade spesso con Berlusconi, quello che dice non significa niente e non porta ad alcuna conseguenza. Infatti Castelli fa tranquillamente sapere al Presidente della Repubblica che di chiedere la grazia per Adriano Sofri non ci pensa proprio. Berlusconi non si muove, non ha niente da dire, non riunisce neppure il suo governo. Eppure Filippo Mancuso ha osservato, a Radio Radicale (23 luglio ore 23.50), che è il governo nel suo insieme da un lato, e il presidente della Repubblica dall’altro a formare un procedimento di grazia. E che, in simili condizioni (parere del Capo dello Stato, del capo del Governo e di gran parte del Parlamento), il Guardasigilli, non può rifiutarsi di istruire la pratica senza commettere omissione di atti di ufficio.
Poi c’è la storia dell’ultima legge vergogna, quella che conferisce a Berlusconi l’immunità a vita per qualunque reato, compresi quelli commessi prima della politica e da privato cittadino. Anche qui Berlusconi ci dà la sua parola: "Io non sono interessato, la legge non è per me, se mai ne beneficeranno altri. L’ha voluta il presidente della Repubblica e l’ha votata il Parlamento". Con questa frase Berlusconi, fin dal mese scorso (quando l’ha pronunciata) attribuisce valore incontrovertibile a un chiarimento che, a quanto si apprende dai legislatori della Casa delle Libertà - e secondo quanto confermano giuristi ed esperti di tutte le tendenze - il Capo dello Stato ha preteso che fosse espresso con chiarezza nella legge: l’immunità ferma i processi ma non impedisce e non ferma le indagini. Dunque sicuramente non le rogatorie internazionali (vuol dire chiedere chiarimenti e documenti alle autorità giudiziarie di altri Paesi). Anche questa volta, dunque, quando Castelli ha messo le mani nella giustizia, esercizio che non gli compete perché è interferenza in un potere autonomo, e ha fermato atti che lui doveva soltanto inoltrare senza alcuna valutazione, il ministro della Giustizia ha sbugiardato il suo primo ministro. Vero, il più delle volte Berlusconi si sbugiarda da solo. E se lui non ha riguardo per la sua parola, come potrebbero averla i suoi più scomposti alleati?
Ma adesso siamo a questo punto. In due mosse il ministro della Giustizia del più strano Paese del mondo ha negato (fino a renderlo ridicolo) ciò che aveva appena detto il suo presidente del Consiglio. Ha sbattuto la porta in faccia con malagrazia al Capo dello Stato. E, per buona misura, ha insultato il suo sottosegretario, reo di competenza giuridica, un fatto che al ministro deve sembrare sospetto, forse un tradimento. E ha insultato tutto il partito del suo sottosegretario, al punto da far dire al Presidente della Camera, che un partito non può smentire una legge.
A questo punto tutto l’Ulivo chiede le dimissioni del ministro o il procedimento parlamentare di "sfiducia personale", una forma di giudizio che certo calza perfettamente alla figura, alla vita e alle opere di Roberto Castelli. Noi all’Unità, non ci vanteremo di avere scritto subito "CASTELLI DEVE DIMETTERSI". Troppo grande e troppo ovvio era l’abuso di potere che ha commesso bloccando una rogatoria che riguarda Berlusconi. Fermare una indagine mettendo le mani su documenti giudiziari è un atto da golpe. Castelli potrà reclamare il titolo a cui tiene di più, l’incompetenza, ma la gravissima violazione rimane, e in tanti, anche dalla sua parte, glielo fanno pesare. Resta la domanda: come mai nel governo Bossi-Berlusconi tutto il potere sembra passato a Bossi, politicamente l’alleato più irrilevante e elettoralmente il più piccolo, caratterialmente il più pericoloso (anche dal punto di vista di chi se lo tiene vicino)? Fini sembra ridotto a uno di quegli inservienti che puliscono la pista del circo dopo il passaggio degli elefanti. Follini dovrà dare adesso la sua prova, e non potrà dire ancora, nonostante la sua innata ragionevolezza, "abbiamo chiarito tutto". Questa storia è irragionevole, oltre che illegale e immorale. E se si collega questa storia con le affermazioni fatte da Bossi, negli stessi giorni a Treviolo ("in settembre la Lega si scatenerà, con le baionette innestate") con le fotografie inviate da un circolo di destra all’Unità, in cui si vedono leghisti di Viadana (Mantova) in parata con striscioni che dicono: "Devoluzione - secessione", con la frase con cui un rilevante leader della Lega, Borghezio, maledice, via Ansa, il sindaco di Torino per avere parlato di voto agli immigrati, si ha il quadro di un violento sbando nel vuoto della politica italiana, nel mezzo di un rischioso e incontrollato disordine costituzionale. I cittadini ormai lo sanno: Berlusconi non sa governare. Finito un comizio ne comincia un altro, e basta. Ma è talmente incapace o è anche soggetto a un ricatto?
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STAMPA 27-7
All’attenzione dell On. Silvio Berlusconi, Presidente del Consiglio dei Ministri
"God save" anche noi
di Claudio Benessia
IL detenuto FF82 ha lasciato lunedì scorso il carcere di Hollesley Bay, nel Suffolk, diretto alla sua splendida mansion house di Grantchester, nel Cambridgeshire.
Lord Jeffrey Howard Archer of Weston-super-Mer è così tornato in libertà, "early parole" cioè sub condicione, dopo due anni e due giorni di reclusione. Il 19 luglio 2001 era stato condannato a quattro anni per "spergiuro" e per avere "deviato il corso della giustizia". Scrittore ricco e famoso, genere Ken Follett, un seggio alla Camera alta, Lord Archer nel 1987 aveva denunciato per diffamazione un tabloid, a dire del quale egli avrebbe avuto certe conversazioni con una signorina che riceveva in un elegante alberghetto, nei pressi di Victoria Station. Aveva vinto la causa, ma Scotland Yard ha scoperto, anni dopo, che Sua Signoria aveva gabbato la Corte.
Hollesley Bay non è Reading e Lord Archer non è Oscar Wilde. Niente poemi, ha tenuto un diario. "Il vitto - dice - è abominevole".
Al di là dei tratti alla P. G. Wodhouse, la vicenda dimostra una volta di più che gli anglosassoni non amano le bugie, specie quelle dette "to pervert the course of justice". Le sanzioni sociali possono essere più pesanti di quelle giudiziarie. I Tory, che nel 1999 stavano per candidare Sir Jeffrey a sindaco di Londra, lo hanno messo fuori dal partito fino al 2005. Il Marylebone Cricket Club, che risale a prima che Dickens nascesse, lo ha sospeso per sette anni.
Mentre Lord Archer stava per tornare a casa, il 18 luglio veniva trovato, con i polsi recisi, il corpo di David Kelly, lo scienziato del governo che aveva passato alla Bbc le informazioni da cui è partita la polemica, contro Blair, sulle armi di distruzione di massa irachene. In meno di tre giorni è stato nominato l'alto magistrato che guiderà l'inchiesta sulla sua morte, il Lord Justice Hutton. E per prima cosa Blair ha dichiarato di essere a disposizione del giudice. L'inchiesta dovrebbe durare un paio di mesi e Lord Hutton ha già fatto sapere che essa sarà pubblica, che la trascrizione dei verbali sarà disponibile in tempo reale e che egli non darà interviste.
Tiriamo le somme. Un Pari d'Inghilterra, miliardario e con un seggio alla House of Lords, va difilato in prigione perché si scopre che, 14 anni addietro, aveva deviato il corso della giustizia. Non ha cercato di bloccare il processo, anche perché avrebbe rimediato un'imputazione in più, per "oltraggio alla Corte". Condannato, ha criticato la mensa, non i giudici. Una radio-televisione di Stato indipendente, la Bbc, mette in croce il "Number 10". E Mr. Blair, che di suo non possiede neppure un'edicola, si difende, ma non cerca risse né scappatoie. Da solo, non dispone di pretoriani. Il Lord magistrato, nominato senza strepiti di parte, tace. Si chiude un occhio sulla professione della Signora Warren, salvo metterne alla berlina i clienti famosi. Ma non si tollerano i mentitori. E nemmeno i furbi.
God save the Queen e, se possible, dia una mano anche a noi.
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CORSERA 27-7
Ricordiamoci Guglielmo Tell
Se si tratta del Cavaliere, il Ministro si scorda della Giustizia e pensa solo all’amicizia
di ENZO BIAGI
Il Guardasigilli, ingegner Roberto Castelli, ha forse una discutibile idea della giustizia ma ha un forte senso dell’amicizia che qualcuno potrebbe perfino interpretare come servilismo. Ha detto no alla inchiesta che la Procura di Milano dovrebbe condurre a proposito di certi diritti tv di Mediaset. L’accusa, come al solito, è alla stampa, incolpata di avere riportato la notizia "in modo parziale... con informazioni fuorvianti se non potentemente false". L’ingegner Castelli, guai a chi lo tocca, ha chiesto soltanto ai magistrati milanesi, trattandosi oltretutto, per una strana coincidenza, per la forza del destino, del presidente del Consiglio "di valutare meglio la situazione", per "non incorrere in violazioni". Questi giudici sono dei superficiali, per loro un anno di più o di meno di galera, se si sono svegliati di un certo umore, non fa poi tanta differenza.
I pm milanesi, irritati, gli hanno intimato, come prevedono i codici, di inoltrare senza indugio le rogatorie, oltretutto "con toni minacciosi". Infatti, ha scritto il reggente la Procura: "Il compito di questo ministro mi sembra sia quello non di favorire il corso della giustizia ma di intralciarlo".
Cerchiamo di essere sereni: dipende. Se si tratta, facciamo una ipotesi, del Cavalier Berlusconi è un conto, se invece c'è di mezzo un qualunque signor Rossi, il Guardasigilli non si distrae: la legge è quasi uguale per tutti.
I politici dovrebbero tenere presente che gli italiani sono come gli elefanti: per un po’ lasciano che il guardiano gli freghi qualche mela della loro razione, poi mollano una zampata. Non si possono fare le leggi in funzione degli interessi dei membri del governo, sperando che la gente dimentichi: non bisogna sottovalutare l'importanza che ha la mela da Eva a Guglielmo Tell in giù, nel travagliato romanzo dell'umanità. Spero che i vari Tell comincino ad allenarsi coi cocomeri.
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Il premier affronta i problemi del Paese. " "Io anche di notte lavoro. Questa ad esempio l’ho scritta stanotte". Tira fuori dalla tasca un foglio. È la sua nuova canzone creata insieme a Mario Apicella. Il titolo in napoletano è appunto "Chesta notte" ".
Silvio Berlusconi, intervista la Repubblica, 26 luglio 2003
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Le ultime avventure del governo Bossi-Berlusconi
Tratti caratteristici: abuso di potere, volgarità, protervia, incompetenza
di Furio Colombo
Come in una prova di laboratorio, il comportamento arbitrario e offensivo del ministro della Giustizia che con una mano nega la richiesta di grazia per Adriano Sofri e con l’altra blocca il percorso legittimo di una rogatoria internazionale, contiene tutti gli elementi che connotano questo governo: incompetenza, incostituzionalità, offesa alle istituzioni. In particolare una offesa ripetuta e clamorosamente pubblicizzata al Presidente della Repubblica.
Nel caso della grazia a Sofri viene negato un atto dovuto. Come hanno spiegato illustri giuristi, il Guardasigilli ha il dovere di istruire la pratica di grazia anche quando non intende aggiungere un suo parere favorevole. Gli resta la libertà di non controfirmare l’eventuale concessione di grazia, ma non la libertà di interrompere la procedura dovuta, anzi obbligatoria, del suo ufficio.
Nel caso del blocco della rogatoria internazionale c’è invece l’altro tratto caratteristico del governo Bossi-Berlusconi: l’abuso di potere. Nella breve e infelice storia di questo ministro della Giustizia occorre aggiungere un altro tratto infrequente persino tra i ministri del governo Berlusconi: una profonda incompetenza che è resa dannosa da una vanteria imbarazzante, dalla pretesa di essere tanto più bravo in quanto più incompetente.
Castelli è orgoglioso di non sapere, e compie ogni volta, con arroganza infantile, il gesto che i libri di scuola attribuiscono a Brenno: mette la spada sulla bilancia, e - tutto contento di non capire le implicazioni e, a volte, il senso di quello che fa - proclama: comunque comando io.
Gli piace offendere e lo fa subito, prontamente, dando il segnale che il suo è un mondo di poche stanze, occupate da pregiudizi, idee modeste mai rivisitate, malizie da studente invecchiato male (io almeno ho la laurea, lui no), nessuna curiosità, e anzi orgoglioso rigetto delle cose che non sa e che, perché non sa, disprezza. Castelli disprezza moltissimo. Le sue finestre sono chiuse e si capisce che, da una vita, non filtra aria nel suo piccolo mondo. Non è così piccolo perché leghista ma il contrario: aveva bisogno di un ambiente angusto, rancoroso, negativo, propenso all’offesa come forma di comunicazione, e l’ha trovato nella Lega Nord. Esemplare il suo modo di rispondere al sottosegretario del suo ministero. Vietti si è permesso di osservare che, certo, Castelli ha interferito per sbaglio con la rogatoria internazionale dei Pm di Milano (falso in bilancio) che riguarda Berlusconi e che sta provocando l’offesa, lo scandalo, la richiesta di dimissioni del ministro della Giustizia da parte del partito dei Democratici di sinistra e di tutto l’Ulivo.
Vietti è un giurista e ha invocato, per il suo capo, la ragionevole attenuante di non sapere. Ha detto: sarà stato mal guidato da qualche funzionario zelante. Vietti mostra di non conoscere il nervo scoperto di Castelli, che è, come si è detto, il vanto della incompetenza. "Penso sempre con la mia testa", ha detto al suo vice, a cui non può perdonare di essere avvocato e dunque di avere un minimo di orientamento sulla questione. È una frase che - detta da Castelli - sembra fatta per provocare un "purtroppo".
Ma il nostro Guardasigilli provvede subito ad aggiungere alla sua esibizione di contentezza per quel che non sa (in altri Paesi si chiama arroganza del potere) una offesa che sia in linea con il suo modo naturale di esprimersi. Dice di non temere le dimissioni del suo sottosegretario, in caso di disaccordo, e spiega: "non ho mai visto un democristiano dimettersi". Vietti appartiene all’Udc e il suo intero partito reagisce con forza. Intorno a questa vicenda si accumulano molte domande: perché il governo Bossi-Berlusconi ha scelto proprio adesso di aggravare le tensioni interne alla maggioranza? Perché questa campagna per imbarazzare e antagonizzare il presidente della Repubblica? Perché Berlusconi, dopo la collezione di brutte figure e di spettacoli umilianti nel viaggio del suo circo da Strasburgo al Texas, sceglie di mostrare con sempre maggiore evidenza che nella sua ormai lacerata maggioranza solo Bossi, che pure è a capo di un partito in rotta, conta e comanda? Se non è il voto - e non lo è, vedi il Friuli - che cosa dà a Bossi e Castelli un simile potere di vandalismo dentro la loro coalizione?
Occorre però ricordare l’intera vicenda nella quale si situa quest’ultimo episodio di volgarità, di protervia, di incompetenza, di abuso. Ciascuna delle due storie - blocco della grazia ad Adriano Sofri e blocco di una rogatoria internazionale - ha un suo antefatto che è necessario ricordare. In tutti e due i casi, il protagonista dell’antefatto è Berlusconi, che, poco dopo, viene regolarmente sbugiardato, in modo smaccato, e impunemente, da quelli della Lega. Dal team Bossi-Castelli.
Dunque Sofri. Un anno fa Berlusconi scrive al "Foglio" che non vede l’ora che quella grazia venga concessa. Indica la possibile motivazione su come istruire la richiesta di grazia. Soprattutto mostra una persuasione profonda. Tanto che quando qualcuno, conoscendo Berlusconi, dice a Sofri di non fidarsi, viene redarguito perché sembra impossibile dubitare di toni tanto convinti e sinceri. Ma, come accade spesso con Berlusconi, quello che dice non significa niente e non porta ad alcuna conseguenza. Infatti Castelli fa tranquillamente sapere al Presidente della Repubblica che di chiedere la grazia per Adriano Sofri non ci pensa proprio. Berlusconi non si muove, non ha niente da dire, non riunisce neppure il suo governo. Eppure Filippo Mancuso ha osservato, a Radio Radicale (23 luglio ore 23.50), che è il governo nel suo insieme da un lato, e il presidente della Repubblica dall’altro a formare un procedimento di grazia. E che, in simili condizioni (parere del Capo dello Stato, del capo del Governo e di gran parte del Parlamento), il Guardasigilli, non può rifiutarsi di istruire la pratica senza commettere omissione di atti di ufficio.
Poi c’è la storia dell’ultima legge vergogna, quella che conferisce a Berlusconi l’immunità a vita per qualunque reato, compresi quelli commessi prima della politica e da privato cittadino. Anche qui Berlusconi ci dà la sua parola: "Io non sono interessato, la legge non è per me, se mai ne beneficeranno altri. L’ha voluta il presidente della Repubblica e l’ha votata il Parlamento". Con questa frase Berlusconi, fin dal mese scorso (quando l’ha pronunciata) attribuisce valore incontrovertibile a un chiarimento che, a quanto si apprende dai legislatori della Casa delle Libertà - e secondo quanto confermano giuristi ed esperti di tutte le tendenze - il Capo dello Stato ha preteso che fosse espresso con chiarezza nella legge: l’immunità ferma i processi ma non impedisce e non ferma le indagini. Dunque sicuramente non le rogatorie internazionali (vuol dire chiedere chiarimenti e documenti alle autorità giudiziarie di altri Paesi). Anche questa volta, dunque, quando Castelli ha messo le mani nella giustizia, esercizio che non gli compete perché è interferenza in un potere autonomo, e ha fermato atti che lui doveva soltanto inoltrare senza alcuna valutazione, il ministro della Giustizia ha sbugiardato il suo primo ministro. Vero, il più delle volte Berlusconi si sbugiarda da solo. E se lui non ha riguardo per la sua parola, come potrebbero averla i suoi più scomposti alleati?
Ma adesso siamo a questo punto. In due mosse il ministro della Giustizia del più strano Paese del mondo ha negato (fino a renderlo ridicolo) ciò che aveva appena detto il suo presidente del Consiglio. Ha sbattuto la porta in faccia con malagrazia al Capo dello Stato. E, per buona misura, ha insultato il suo sottosegretario, reo di competenza giuridica, un fatto che al ministro deve sembrare sospetto, forse un tradimento. E ha insultato tutto il partito del suo sottosegretario, al punto da far dire al Presidente della Camera, che un partito non può smentire una legge.
A questo punto tutto l’Ulivo chiede le dimissioni del ministro o il procedimento parlamentare di "sfiducia personale", una forma di giudizio che certo calza perfettamente alla figura, alla vita e alle opere di Roberto Castelli. Noi all’Unità, non ci vanteremo di avere scritto subito "CASTELLI DEVE DIMETTERSI". Troppo grande e troppo ovvio era l’abuso di potere che ha commesso bloccando una rogatoria che riguarda Berlusconi. Fermare una indagine mettendo le mani su documenti giudiziari è un atto da golpe. Castelli potrà reclamare il titolo a cui tiene di più, l’incompetenza, ma la gravissima violazione rimane, e in tanti, anche dalla sua parte, glielo fanno pesare. Resta la domanda: come mai nel governo Bossi-Berlusconi tutto il potere sembra passato a Bossi, politicamente l’alleato più irrilevante e elettoralmente il più piccolo, caratterialmente il più pericoloso (anche dal punto di vista di chi se lo tiene vicino)? Fini sembra ridotto a uno di quegli inservienti che puliscono la pista del circo dopo il passaggio degli elefanti. Follini dovrà dare adesso la sua prova, e non potrà dire ancora, nonostante la sua innata ragionevolezza, "abbiamo chiarito tutto". Questa storia è irragionevole, oltre che illegale e immorale. E se si collega questa storia con le affermazioni fatte da Bossi, negli stessi giorni a Treviolo ("in settembre la Lega si scatenerà, con le baionette innestate") con le fotografie inviate da un circolo di destra all’Unità, in cui si vedono leghisti di Viadana (Mantova) in parata con striscioni che dicono: "Devoluzione - secessione", con la frase con cui un rilevante leader della Lega, Borghezio, maledice, via Ansa, il sindaco di Torino per avere parlato di voto agli immigrati, si ha il quadro di un violento sbando nel vuoto della politica italiana, nel mezzo di un rischioso e incontrollato disordine costituzionale. I cittadini ormai lo sanno: Berlusconi non sa governare. Finito un comizio ne comincia un altro, e basta. Ma è talmente incapace o è anche soggetto a un ricatto?
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STAMPA 27-7
All’attenzione dell On. Silvio Berlusconi, Presidente del Consiglio dei Ministri
"God save" anche noi
di Claudio Benessia
IL detenuto FF82 ha lasciato lunedì scorso il carcere di Hollesley Bay, nel Suffolk, diretto alla sua splendida mansion house di Grantchester, nel Cambridgeshire.
Lord Jeffrey Howard Archer of Weston-super-Mer è così tornato in libertà, "early parole" cioè sub condicione, dopo due anni e due giorni di reclusione. Il 19 luglio 2001 era stato condannato a quattro anni per "spergiuro" e per avere "deviato il corso della giustizia". Scrittore ricco e famoso, genere Ken Follett, un seggio alla Camera alta, Lord Archer nel 1987 aveva denunciato per diffamazione un tabloid, a dire del quale egli avrebbe avuto certe conversazioni con una signorina che riceveva in un elegante alberghetto, nei pressi di Victoria Station. Aveva vinto la causa, ma Scotland Yard ha scoperto, anni dopo, che Sua Signoria aveva gabbato la Corte.
Hollesley Bay non è Reading e Lord Archer non è Oscar Wilde. Niente poemi, ha tenuto un diario. "Il vitto - dice - è abominevole".
Al di là dei tratti alla P. G. Wodhouse, la vicenda dimostra una volta di più che gli anglosassoni non amano le bugie, specie quelle dette "to pervert the course of justice". Le sanzioni sociali possono essere più pesanti di quelle giudiziarie. I Tory, che nel 1999 stavano per candidare Sir Jeffrey a sindaco di Londra, lo hanno messo fuori dal partito fino al 2005. Il Marylebone Cricket Club, che risale a prima che Dickens nascesse, lo ha sospeso per sette anni.
Mentre Lord Archer stava per tornare a casa, il 18 luglio veniva trovato, con i polsi recisi, il corpo di David Kelly, lo scienziato del governo che aveva passato alla Bbc le informazioni da cui è partita la polemica, contro Blair, sulle armi di distruzione di massa irachene. In meno di tre giorni è stato nominato l'alto magistrato che guiderà l'inchiesta sulla sua morte, il Lord Justice Hutton. E per prima cosa Blair ha dichiarato di essere a disposizione del giudice. L'inchiesta dovrebbe durare un paio di mesi e Lord Hutton ha già fatto sapere che essa sarà pubblica, che la trascrizione dei verbali sarà disponibile in tempo reale e che egli non darà interviste.
Tiriamo le somme. Un Pari d'Inghilterra, miliardario e con un seggio alla House of Lords, va difilato in prigione perché si scopre che, 14 anni addietro, aveva deviato il corso della giustizia. Non ha cercato di bloccare il processo, anche perché avrebbe rimediato un'imputazione in più, per "oltraggio alla Corte". Condannato, ha criticato la mensa, non i giudici. Una radio-televisione di Stato indipendente, la Bbc, mette in croce il "Number 10". E Mr. Blair, che di suo non possiede neppure un'edicola, si difende, ma non cerca risse né scappatoie. Da solo, non dispone di pretoriani. Il Lord magistrato, nominato senza strepiti di parte, tace. Si chiude un occhio sulla professione della Signora Warren, salvo metterne alla berlina i clienti famosi. Ma non si tollerano i mentitori. E nemmeno i furbi.
God save the Queen e, se possible, dia una mano anche a noi.
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CORSERA 27-7
Ricordiamoci Guglielmo Tell
Se si tratta del Cavaliere, il Ministro si scorda della Giustizia e pensa solo all’amicizia
di ENZO BIAGI
Il Guardasigilli, ingegner Roberto Castelli, ha forse una discutibile idea della giustizia ma ha un forte senso dell’amicizia che qualcuno potrebbe perfino interpretare come servilismo. Ha detto no alla inchiesta che la Procura di Milano dovrebbe condurre a proposito di certi diritti tv di Mediaset. L’accusa, come al solito, è alla stampa, incolpata di avere riportato la notizia "in modo parziale... con informazioni fuorvianti se non potentemente false". L’ingegner Castelli, guai a chi lo tocca, ha chiesto soltanto ai magistrati milanesi, trattandosi oltretutto, per una strana coincidenza, per la forza del destino, del presidente del Consiglio "di valutare meglio la situazione", per "non incorrere in violazioni". Questi giudici sono dei superficiali, per loro un anno di più o di meno di galera, se si sono svegliati di un certo umore, non fa poi tanta differenza.
I pm milanesi, irritati, gli hanno intimato, come prevedono i codici, di inoltrare senza indugio le rogatorie, oltretutto "con toni minacciosi". Infatti, ha scritto il reggente la Procura: "Il compito di questo ministro mi sembra sia quello non di favorire il corso della giustizia ma di intralciarlo".
Cerchiamo di essere sereni: dipende. Se si tratta, facciamo una ipotesi, del Cavalier Berlusconi è un conto, se invece c'è di mezzo un qualunque signor Rossi, il Guardasigilli non si distrae: la legge è quasi uguale per tutti.
I politici dovrebbero tenere presente che gli italiani sono come gli elefanti: per un po’ lasciano che il guardiano gli freghi qualche mela della loro razione, poi mollano una zampata. Non si possono fare le leggi in funzione degli interessi dei membri del governo, sperando che la gente dimentichi: non bisogna sottovalutare l'importanza che ha la mela da Eva a Guglielmo Tell in giù, nel travagliato romanzo dell'umanità. Spero che i vari Tell comincino ad allenarsi coi cocomeri.
CENTOMOVIMENTI-NEWS 27-7
Siamo vincoli o sparpagliati?
Cireno
Diciamoci la verità: se i partiti dell’opposizione a Berlusconi e alla Casa della sua Libertà continueranno a rimarcare le differenze, del resto logiche, tra partito e partito, se non perderanno occasione per dichiararsi in perfetto disaccordo l’uno con l’altro, se ogni leader o quasi leader dirà la sua su ogni tema, preferibilmente diversa da quella degli altri, alle prossime elezioni, malgrado il disastro che questo governo sicuramente avrà realizzato, si correrà il rischio concreto di vedere ancora vincere il Cavaliere con la sua corte di nani, saltimbanchi e ballerine. Le avvisaglie di questo timore sono sui giornali e sono apparse subito dopo che Prodi ha proposto, per le elezioni europee, uno schieramento unico di tutti i partiti del centro-sinistra. Ogni responsabile di partito ha detto la sua opinione, quasi mai in accordo sulla proposta. Mancino ha parlato di astrattezza politica, Franceschini di difficoltà realizzative, Follini dall’altra parte ha approfittato del momento per chiamare a raccolta gli ex-democristiani (che nostalgia della vecchia balena bianca..) sotto un’unica bandiera, naturalmente azzurra e probabilmente con richiamo alla vecchia DC, Bertinotti dice ma, D’Alema forse, Rutelli magari, Di Pietro osserva. Ora a me sembra logico che ognuno ami le proprie idee e i simboli che le rappresentano, come mi sembra normale che le differenze esistano specialmente, anzi forse solamente, nei partiti e nei movimenti di opposizione. Dall’altra parte, nella Casa della Libertà per Berlusconi & C., le differenze evidentemente ci sono ma ogni membro della corte del re, per forza o per amore, ha saputo, o deve, accettare come volontà comune quella del proprietario, perché questa negazione delle proprie idee ha dato, e loro sperano che continuerà a dare, poltrone e governo. Non è importante che Bossi gracchi le sue idee opposte a quelle di Fini, per esempio, importante è che comunque sia, pur con qualche distinguo di facciata, indispensabile proprio per non perdere la….facciata di fronte ai propri elettori, alla fine si trovi una forma di intesa comune, la compattezza del gruppo, come ieri l’ha definita Berlusconi: proprio come una qualsiasi SpA, dove il consiglio di amministrazione si muove, pur con idee e personalità diverse nei suoi componenti, per un solo obiettivo: il profitto. Nella SpA Casa delle Libertà personali, il profitto è il potere, il governo del paese, e l’obiettivo finale sembra davvero essere quello indicato nel programma della loggia P2 di Licio Gelli: controllo di tutti i media, repubblica presidenziale, ridimensionamento dei sindacati ecc.ecc. Davanti all’apparente "compattezza" del monolito Casa delle Libertà c’è la vivacità dell’opposizione, che non è una vivacità di idee e di proposte, che sarebbe altamente auspicabile, ma semplicemente una irrequietezza di opinioni quasi sempre diverse se non addirittura contrastanti. Chiaro che davanti a un simile panorama, unità di intenti e pensieri da una parte e frammentazione di idee e propositi dall’altra, l’elettore medio, quello che si forma l’idea su come votare all’ultimo momento, viene normalmente attratto più dal finto ordine delle truppe berlusconiane che non dall’apparente litigio continuo dell’opposizione. Del resto la passata legislatura, iniziata con Prodi leader e terminata con una bella esposizione di confusione, ha dimostrato, al di la di ogni ragionevole dubbio, come senza una linea comune condivisa, i partiti del centro sinistra siano stati capaci di far del male a loro stessi prima e poi di consegnare il governo del paese a questo assemblaggio di compagni di merende. Ora sembra che la lezione non abbia dato nessun frutto. Si prosegue nella linea delle discussioni continue, al punto che anche i più fedeli elettori del centro sinistra non ci capiscono più niente, e molti, proprio in ragione di questo fatto tipico del passato dell’Ulivo, che erano arrivati ad astenersi dal votare così continuando continueranno a farlo anche in futuro. Gli si può dare torto? Assolutamente no, perché non c’è peggior abito per vestire una coalizione che non quello che l’opposizione indossa: la confusione, la mancanza di chiarezza, il veder remare tutti nella medesima direzione e per lo stesso porto. E qui sorge la domanda che Totò, il nostro grande attore nemmeno tanto comico, rese famosa: ma siamo vincoli o sparpagliati? Che ha un significato preciso: uniti o divisi. Io sono convinto che gli italiani, nella loro maggioranza, siano istintivamente favorevoli ai partiti centro sinistra. Non posso pensare che i lavoratori votino contro i loro stessi interessi, contro una protezione sociale conquistata con decenni di lotte da loro stessi condotte, contro la protezione sindacale e tutte quelle opportunità che lo stato sociale offre ai suoi cittadini, quindi il problema sta nel manico: probabilmente non abbiamo, nelle nostre file, personaggi con una visione ampia della politica e che proprio per la loro ridotta dimensione e personalità, si accontentano di "partecipare" anziché puntare alla grande responsabilità di governare. Non vedo altre spiegazioni. Però noi, e quando dico noi mi riferisco ai rappresentanti dei centomovimenti, possiamo dare una scossa a questa situazione di passiva discordia. Possiamo ribellarci nei fatti, magari minacciando la totale astensione dal voto laddove non emerga con chiarezza una sicura unità progettuale. Potessimo farlo, dovremmo forse anche creare un comitato di coordinamento dei vari movimenti per poter parlare con voce unitaria a questi signori….della guerra che sembrano privilegiare i loro piccoli interessi di bottega a quelli più ampi del governo della nazione e della lotta, reale e non solo parlata, all’occupazione della casa del governo da parte di queste truppe straniere ai nostri interessi sociali. Non è che un personaggio sia migliore o peggiore di un altro, a sentirli parlare tutti potrebbero anche avere ragione, però SOLO dal loro punto di vista, troppo spesso appunto deformato da interessi di parte. Potrebbero anche aver ragione se presi singolarmente ma il fatto di essersi messi in una coalizione che punta a vincere le elezioni prossime, dimostra che hanno torto tutti, perché, così facendo non concluderanno un bel niente e noi ce ne staremo sempre qui, con la penna in mano, a descrivere gli errori e i disastri del governo del cavalier Berlusconi.
Siamo vincoli o sparpagliati?
Cireno
Diciamoci la verità: se i partiti dell’opposizione a Berlusconi e alla Casa della sua Libertà continueranno a rimarcare le differenze, del resto logiche, tra partito e partito, se non perderanno occasione per dichiararsi in perfetto disaccordo l’uno con l’altro, se ogni leader o quasi leader dirà la sua su ogni tema, preferibilmente diversa da quella degli altri, alle prossime elezioni, malgrado il disastro che questo governo sicuramente avrà realizzato, si correrà il rischio concreto di vedere ancora vincere il Cavaliere con la sua corte di nani, saltimbanchi e ballerine. Le avvisaglie di questo timore sono sui giornali e sono apparse subito dopo che Prodi ha proposto, per le elezioni europee, uno schieramento unico di tutti i partiti del centro-sinistra. Ogni responsabile di partito ha detto la sua opinione, quasi mai in accordo sulla proposta. Mancino ha parlato di astrattezza politica, Franceschini di difficoltà realizzative, Follini dall’altra parte ha approfittato del momento per chiamare a raccolta gli ex-democristiani (che nostalgia della vecchia balena bianca..) sotto un’unica bandiera, naturalmente azzurra e probabilmente con richiamo alla vecchia DC, Bertinotti dice ma, D’Alema forse, Rutelli magari, Di Pietro osserva. Ora a me sembra logico che ognuno ami le proprie idee e i simboli che le rappresentano, come mi sembra normale che le differenze esistano specialmente, anzi forse solamente, nei partiti e nei movimenti di opposizione. Dall’altra parte, nella Casa della Libertà per Berlusconi & C., le differenze evidentemente ci sono ma ogni membro della corte del re, per forza o per amore, ha saputo, o deve, accettare come volontà comune quella del proprietario, perché questa negazione delle proprie idee ha dato, e loro sperano che continuerà a dare, poltrone e governo. Non è importante che Bossi gracchi le sue idee opposte a quelle di Fini, per esempio, importante è che comunque sia, pur con qualche distinguo di facciata, indispensabile proprio per non perdere la….facciata di fronte ai propri elettori, alla fine si trovi una forma di intesa comune, la compattezza del gruppo, come ieri l’ha definita Berlusconi: proprio come una qualsiasi SpA, dove il consiglio di amministrazione si muove, pur con idee e personalità diverse nei suoi componenti, per un solo obiettivo: il profitto. Nella SpA Casa delle Libertà personali, il profitto è il potere, il governo del paese, e l’obiettivo finale sembra davvero essere quello indicato nel programma della loggia P2 di Licio Gelli: controllo di tutti i media, repubblica presidenziale, ridimensionamento dei sindacati ecc.ecc. Davanti all’apparente "compattezza" del monolito Casa delle Libertà c’è la vivacità dell’opposizione, che non è una vivacità di idee e di proposte, che sarebbe altamente auspicabile, ma semplicemente una irrequietezza di opinioni quasi sempre diverse se non addirittura contrastanti. Chiaro che davanti a un simile panorama, unità di intenti e pensieri da una parte e frammentazione di idee e propositi dall’altra, l’elettore medio, quello che si forma l’idea su come votare all’ultimo momento, viene normalmente attratto più dal finto ordine delle truppe berlusconiane che non dall’apparente litigio continuo dell’opposizione. Del resto la passata legislatura, iniziata con Prodi leader e terminata con una bella esposizione di confusione, ha dimostrato, al di la di ogni ragionevole dubbio, come senza una linea comune condivisa, i partiti del centro sinistra siano stati capaci di far del male a loro stessi prima e poi di consegnare il governo del paese a questo assemblaggio di compagni di merende. Ora sembra che la lezione non abbia dato nessun frutto. Si prosegue nella linea delle discussioni continue, al punto che anche i più fedeli elettori del centro sinistra non ci capiscono più niente, e molti, proprio in ragione di questo fatto tipico del passato dell’Ulivo, che erano arrivati ad astenersi dal votare così continuando continueranno a farlo anche in futuro. Gli si può dare torto? Assolutamente no, perché non c’è peggior abito per vestire una coalizione che non quello che l’opposizione indossa: la confusione, la mancanza di chiarezza, il veder remare tutti nella medesima direzione e per lo stesso porto. E qui sorge la domanda che Totò, il nostro grande attore nemmeno tanto comico, rese famosa: ma siamo vincoli o sparpagliati? Che ha un significato preciso: uniti o divisi. Io sono convinto che gli italiani, nella loro maggioranza, siano istintivamente favorevoli ai partiti centro sinistra. Non posso pensare che i lavoratori votino contro i loro stessi interessi, contro una protezione sociale conquistata con decenni di lotte da loro stessi condotte, contro la protezione sindacale e tutte quelle opportunità che lo stato sociale offre ai suoi cittadini, quindi il problema sta nel manico: probabilmente non abbiamo, nelle nostre file, personaggi con una visione ampia della politica e che proprio per la loro ridotta dimensione e personalità, si accontentano di "partecipare" anziché puntare alla grande responsabilità di governare. Non vedo altre spiegazioni. Però noi, e quando dico noi mi riferisco ai rappresentanti dei centomovimenti, possiamo dare una scossa a questa situazione di passiva discordia. Possiamo ribellarci nei fatti, magari minacciando la totale astensione dal voto laddove non emerga con chiarezza una sicura unità progettuale. Potessimo farlo, dovremmo forse anche creare un comitato di coordinamento dei vari movimenti per poter parlare con voce unitaria a questi signori….della guerra che sembrano privilegiare i loro piccoli interessi di bottega a quelli più ampi del governo della nazione e della lotta, reale e non solo parlata, all’occupazione della casa del governo da parte di queste truppe straniere ai nostri interessi sociali. Non è che un personaggio sia migliore o peggiore di un altro, a sentirli parlare tutti potrebbero anche avere ragione, però SOLO dal loro punto di vista, troppo spesso appunto deformato da interessi di parte. Potrebbero anche aver ragione se presi singolarmente ma il fatto di essersi messi in una coalizione che punta a vincere le elezioni prossime, dimostra che hanno torto tutti, perché, così facendo non concluderanno un bel niente e noi ce ne staremo sempre qui, con la penna in mano, a descrivere gli errori e i disastri del governo del cavalier Berlusconi.
MANIFESTO 26-7
Sommario di I pag.
Il sinistro della giustizia
Il ministro a orologeria esplode di nuovo. La settimana scorsa era piombato sul caso Sofri, stavolta deflagra sulla legge salva-Berlusconi. Il blocco delle rogatorie all'estero per l'inchiesta Mediaset fa insorgere anche i suoi alleati, oltre a mezzo parlamento, Quirinale, giudici Il sottosegretario Vietti (Udc): «O cambia o mi dimetto». Casini: «Il governo garantì: niente blocco alle indagini». Con Castelli gli avvocati del premier. L'Ulivo presenta la mozione di sfiducia. Il ministro indietreggia: «Decida il parlamento». Berlusconi: «Non parlo, l'aria è già inquinata». Da chi?
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CORSERA 26-7
BASTA GUARDIE ARMATE
La Lega e il ministro Castelli non sono nuovi a trasformarsi in guardia armata delle esigenze giudiziarie di Berlusconi
di ERNESTO GALLI DELLA LOGGIA
Possono fare molte cose i governi e le maggioranze che li sostengono: possono approvare le leggi che vogliono, creare condizioni di favore a questo o a quello, cancellare o modificare reati, e così via legiferando. Possono fare tutte queste cose con il crisma della piena validità giuridica, ancorché, come si capisce, esponendosi ogni volta nel merito alla legittima critica politica. C’è una cosa però che a nessun governo e a nessuna maggioranza è permesso di fare: votare il testo di una legge e poi, servendosi dei poteri dell’esecutivo, farne applicare uno di fatto diverso, forzandone un’interpretazione che non corrisponde alla lettera del testo stesso. Ciò non è permesso perché in tal modo viene cancellato quel confine decisivo per ogni democrazia liberale che è il confine tra la legge e l’arbitrio. È precisamente ciò, invece, che il ministro della Giustizia Castelli ha cercato di fare quando ha preteso di estendere la sospensione obbligatoria di qualunque iter giudiziario riguardante il presidente del Consiglio, che il «lodo Maccanico» appena approvato prevede solo per la fase dibattimentale, anche alla fase delle semplici indagini. Per l’appunto interpretando in tal modo la legge, Castelli ha deciso l’altro giorno di bloccare una rogatoria avviata dai magistrati milanesi negli Usa a proposito di eventuali falsi in bilancio e frodi fiscali di cui si sarebbero resi colpevoli i vertici Mediaset e l’onorevole Berlusconi. Ha deciso cioè di bloccare l’inchiesta.
Il fatto, per il rilievo dei principi che mette in gioco, era e continua a essere di una gravità politica indubbia. Lo ripetiamo: qui non si tratta di approvare la legge pure la più discutibile, pure la più smaccatamente compiacente a pro di questo o di quello, no, qui si tratta di manipolare con un atto d’imperio da parte del governo una legge; si tratta, con un semplice provvedimento amministrativo, di far dire a una legge ciò che essa non dice.
In realtà la Lega e il ministro Castelli non sono nuovi a trasformarsi in guardia armata a difesa delle esigenze giudiziarie del presidente del Consiglio. È la parte che essi si sono scelti da tempo, immaginando (non a torto, crediamo) di potere così disporre presso di lui di un’influenza particolare.
Ma se siamo bene informati, al governo, insieme a Berlusconi e alla Lega, dovrebbero esserci - anzi siamo sicuri che ci sono - pure degli altri partiti: Alleanza nazionale e l’Udc. Ebbene, a noi continua a parere inconcepibile che di fronte a ciò che è accaduto ieri e nelle ultime settimane (finte verifiche, finte cabine di regia, rappattumamenti che con ogni evidenza non rappattumano nulla) i suddetti partiti accettino ancora per molto la parte di semplici comprimari che di fatto hanno finora ricoperto. Il cedimento dell’ultima ora da parte del ministro Castelli dimostra che questa parte non è scritta in nessun libro del destino; e che, se vogliono, An e Udc possono convincere il Paese che la destra ha vinto le elezioni con un obiettivo alquanto più ampio che non quello di curare gli interessi - giudiziari e no - dell’onorevole Berlusconi.
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L’UNITA’ on-line
BANNER
«In Italia si può governare e allo stesso tempo possedere un impero di aziende. Ma non si può dirigerlo. Però che cosa succede se il primo ministro fa un favore al suo impero? Niente paura. Non succede niente. Stanno preparando una legge senza denti».
The Economist, 26 luglio
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Il pericolo che viene da via Arenula
Castelli è istituzionalmente incapace e non è in grado di dissociarsi dalla volontà di Berlusconi
di Nicola Tranfaglia
Le parole vanno sempre misurate quando si parla di una persona che ricopre un ruolo istituzionale importante ed è questo il caso dell’ingegnere Roberto Castelli, tuttora ministro della Giustizia nel secondo governo Berlusconi. Ma, a seguire il comportamento politico isituzionale di Castelli nelle ultime settimane, non è possibile evitare un giudizio assai pesante su di lui.
I casi sono due: o Castelli non è in grado di interpretare un ruolo così importante, oppure ritiene che la parola del capo del governo sia legge anche quando è in aperto contrasto con la Costituzione e con tutte le altre leggi. Propendiamo, a questo punto, per una spiegazione che mette insieme le due alternative. È istituzionalmente incapace e in più non è grado di dissociarsi, in nessun caso, dalla volontà del capo.
A questo va aggiunto il fatto che il ministro Castelli ha condotto una vera escalation nei suoi comportamenti: prima ha negato la grazia a Sofri senza portare comprensibili motivazioni se non quelle astratte di volere una nebulosa amnistia, poi ha assistito con evidente soddisfazione al fatto che a Milano un sedicente «comitato nazionale giustizia» del forzista Borrione denunciasse ai giudici di Brescia un presunto reato compiuto dai pm Boccassini e Colombo nei confronti di Previti e Berlusconi, quindi ha bloccato le indagini preliminari aperte dalla Procura di Milano contro Berlusconi per un falso in bilancio che riguarda Mediaset.
In quest’ultimo caso ha violato apertamente la legge di recente approvata dalle Camere a favore di cinque alte cariche dello Stato che esclude nei loro confronti l’apertura di nuovi processi durante la carica ma non le indagini preliminari.
Se si ricorda che il capo dello Stato ha firmato quella legge, nota come lodo Schifani, soltanto dopo aver ottenuto che le indagini preliminari non sarebbero state fermate, si ha più chiaro il senso della mossa di Castelli. Una mossa, dunque, contro i giudici di Milano costretti ora a ricorrere al Consiglio Superiore della Magistratura per far valere la loro interpretazione della legge, ma anche e soprattutto contro il presidente della Repubblica che ancora una volta si era speso per favorire una soluzione gradita alla maggioranza e ancora una volta deve fare i conti con lo scarso o nullo rispetto che i ministri di Berlusconi mostrano della sua azione quando è in pericolo il presidente del Consiglio. Prova eloquente, se ancora ce ne fosse bisogno, dell’improduttività di un dialogo e di una collaborazione con un governo che ogni giorno calpesta la Costituzione, le leggi e lo Stato di diritto in nome del successo elettorale due anni fa.
A questo punto, tuttavia, lo strappo istituzionale triplo compiuto da Castelli in questi giorni, ha persuaso l’Ulivo che la «moral suasion» non basta e che occorre far capire alla maggioranza come all’opinione pubblica italiana, che il ministro della Giustizia non gode più della fiducia delle opposizioni e di una parte, ormai probabilmente maggioritaria, degli italiani.
Come si fa a sopportare che proprio il ministro della Giustizia sia il peggior nemico dei magistrati e li perseguiti tutte le volte in cui nell’esercizio del loro compito esprimono pareri divergenti da quelli del ministro? E come si può tollerare che proprio lui, il titolare della giustizia, disattenda le leggi appena votate dal Parlamento pur di difendere gli interessi personali del leader massimo e dei suoi amici?
Se si vuole evitare che le istituzioni e gli uomini che dovrebbero incarnarle perdano qualsiasi prestigio di fronte agli italiani, è giunto il momento da parte di chi è responsabile di agire in modo che una situazione così incresciosa trovi una soluzione.
I problemi sempre più gravi sollevati dal comportamento del ministro Castelli richiedono, ora più che mai, una risposta limpida da parte del governo e della maggioranza.
Se non avverrà nulla nelle prossime settimane, la fiducia degli italiani nelle istituzioni subirà un nuovo e rovinoso ribasso e ci vorrà qualcuno che se ne assuma le responsabilità.
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CENTOMOVIMENTI-NEWS
EDITORIALE
Farsa Italia
di Massimo Del Papa
Quando si supera la decenza, l’indecenza, l’insolenza, l’ignominia e anche la tragedia, non resta posto che per la farsa. Come quella del comitato ribattezzatosi senz’ombra d’ironia "Sostenitori per la Giustizia", più esattamente per gli imputati eccellenti, ancora più precisamente per Previti Cesare e Berlusconi Silvio dei quali i nostri eroi sono sodali, difensori, soci, stipendiati. Insomma la congrega degli amici dell’uomo-Tartaruga mandati da se medesimo. L’altro aspetto della farsa è che la procura di Brescia, che da 10 anni deve patire qualche complesso emulativo verso quella di Milano, invece di utilizzare gli esposti dei ruffiani per gli unici scopi fisiologicamente immaginabili li piglia sul serio, apre fascicoli penali contro i colleghi Boccassini e Colombo che ardiscono processare, se e quando ci riescono, chi noleggia giudici avariati.
Poi, come non bastassero i membri che lo riempiono, ci sono pure i registi occulti, gli dei ex machina del comitato tra i quali, si mormora, Carlo Taormina, quello che difende i mafiosi dai quali doveva difenderci come parlamentare, uno che denuncia - altra farsa - la procura di Aosta se si permette di rinviare a giudizio i suoi assistititi e che a proposito dell’omicidio del piccolo Samuele, per il quale è imputata la madre, difesa da Taormina, dice: "So io chi è il colpevole, mi mancano solo le prove". Ah, il garantismo rovesciato di Forza Italia!
A questi le figuracce non gli bastano, non li spaventano perché nella farsa vivono, se ne nutrono, la respirano: quindici ispezioni contro la procura di Milano, sessanta dossier anonimi su Di Pietro, le videocassette taroccate sulle udienze dell’Ariosto, diffamata a ripetizione, le ricostruzioni fantastiche dei 10 anni di Mani Pulite sul "Foglio", quotidianamente smerdate da Travaglio: hanno rimediato solo schiaffi, sputtanamenti, squallidi "mea culpa", condanne a risarcimenti anche ingenti. Ma insistono, tanto mica pagano loro, paga sempre il solito padrone, quello un po’ incazzato perché "ha già speso 500 miliardi in avvocati" e, se non li trasformava in deputati (ennesima farsa), non sarebbero serviti a un ciufolo.
Sono arrivati a fare un sito dal titolo greco, icastico, "La verità" e qui oltrepassiamo anche la farsa, dove usano se stessi come testimonial, "la mia faccia" dice Previti "della quale vado fiero". Siamo al Grand-Guignol.
La penultima farsa è che il programma del comitato giustiziere è, come del resto già quello di Forza Italia, un plagio nudo e crudo del piano di Rinascita della P2 da cui proviene il padrone del comitato che lo tutela. Roba di quasi 30 anni fa, da cui si arguisce quale empito di novità, di modernizzazione animi i nostri eroi che vogliono "rivoltare l’Italia", cioè modernamente renderla una consociata della Fininvest, lo stato-azienda, da Publitalia a Forzitalia a Italia una volta eliminate le sovrastrutture.
L’ultima farsa è che di fronte a tanto scempio, non abbiamo sentito alcuna voce del centrosinistra schierarsi a fianco della magistratura in genere e dei pm Boccassini e Colombo in specie, che difendono la democrazia e la giustizia anche per l’opposizione un tantino svagata, che di fronte al conflitto d’interessi si distrae per 5 anni e il giorno in cui la norma che lo nobilita arriva alla Camera, manda a spasso 35 deputati, sì che la legge scellerata passa grazie alla latitanza dell’opposizione.
Eppure, quando c’erano da mandare avanti le Bicamerali anche quelle di sapore piduista per impastoiare la Giustizia, quando c’era da gridare al "regime", demenzialmente il proprio visto che era l’Ulivo a comandare, per la farsa del cimicione nell’ufficio di Berlusconi messovi da se medesimo, la voce dell’"amico Massimo", D’Alema, si sentiva, forte e chiara.
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ESPRESSO on-line 26-7
BERLUSCONIANA
Ferragosto di lotta e di governo
Tra le ville sparse per il mondo, ecco le ferie di alcuni nomi noti
Michele Serra
Abbiamo chiesto ad alcuni italiani celebri come trascorreranno le ferie d´agosto.
Silvio Berlusconi: Quest´anno trascurerò le mie ville in Sardegna, a Portofino, a Capri, alle Molucche e su Giove. Mi recherò in Germania, per dimostrare al cancelliere Schroeder come si sta al mondo. Trascorrerò il Ferragosto nella suggestiva città di Monaco di Baviera, per partecipare all´Oktoberfest. Andrò anche nella importante città di Berlino, per visitare l´omonimo Muro e firmarlo. Questo mi ricorderà i tempi del Muretto di Alassio, dove la mia firma è accanto a quelle di Memo Remigi e Topo Gigio. È in programma anche una gara di barzellette con gli abitanti di Mauthausen, che nonostante gli incresciosi episodi che tutti sappiamo, guardano con ottimismo al futuro.
Umberto Bossi: Rimarrò a Ponte di Legno in canottiera e ciabatte infradito, seduto al fresco nel mio giardinetto lungo la strada statale, salutando i camionisti e mangiando anguria. La sera una bella braciolata con gli amici, sempre nel mio giardinetto e sempre in canottiera e infradito. Poi vado a dormire in canottiera e ciabatte infradito, appoggiando sul comodino il forchettone della braciolata. Io sono un uomo semplice, del popolo. So che è ripugnante. Ma è così.
Roberto Castelli: Altro che ferie, ho un sacco di arretrati da sbrigare, sto perfezionando la lista dei detenuti da amnistiare per fare questa benedetta pacificazione nazionale. Al massimo, farò una breve vacanza di lavoro. Una puntata a Bressanone, per incontrare due anziani terroristi altoatesini, Sepp Moser detto ´l´Orco della Valstrudel´ perché abbatteva i tralicci a mani nude, e suo fratello Hans detto ´lo Stratega´ perché insegnò ai suoi compagni di lotta a spostarsi quando cadeva il traliccio. Sono bravissima gente. Ma siccome sono liberi dal ´67, il difficile sarà costringerli a rientrare in carcere perché io li possa amnistiare.
Sommario di I pag.
Il sinistro della giustizia
Il ministro a orologeria esplode di nuovo. La settimana scorsa era piombato sul caso Sofri, stavolta deflagra sulla legge salva-Berlusconi. Il blocco delle rogatorie all'estero per l'inchiesta Mediaset fa insorgere anche i suoi alleati, oltre a mezzo parlamento, Quirinale, giudici Il sottosegretario Vietti (Udc): «O cambia o mi dimetto». Casini: «Il governo garantì: niente blocco alle indagini». Con Castelli gli avvocati del premier. L'Ulivo presenta la mozione di sfiducia. Il ministro indietreggia: «Decida il parlamento». Berlusconi: «Non parlo, l'aria è già inquinata». Da chi?
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CORSERA 26-7
BASTA GUARDIE ARMATE
La Lega e il ministro Castelli non sono nuovi a trasformarsi in guardia armata delle esigenze giudiziarie di Berlusconi
di ERNESTO GALLI DELLA LOGGIA
Possono fare molte cose i governi e le maggioranze che li sostengono: possono approvare le leggi che vogliono, creare condizioni di favore a questo o a quello, cancellare o modificare reati, e così via legiferando. Possono fare tutte queste cose con il crisma della piena validità giuridica, ancorché, come si capisce, esponendosi ogni volta nel merito alla legittima critica politica. C’è una cosa però che a nessun governo e a nessuna maggioranza è permesso di fare: votare il testo di una legge e poi, servendosi dei poteri dell’esecutivo, farne applicare uno di fatto diverso, forzandone un’interpretazione che non corrisponde alla lettera del testo stesso. Ciò non è permesso perché in tal modo viene cancellato quel confine decisivo per ogni democrazia liberale che è il confine tra la legge e l’arbitrio. È precisamente ciò, invece, che il ministro della Giustizia Castelli ha cercato di fare quando ha preteso di estendere la sospensione obbligatoria di qualunque iter giudiziario riguardante il presidente del Consiglio, che il «lodo Maccanico» appena approvato prevede solo per la fase dibattimentale, anche alla fase delle semplici indagini. Per l’appunto interpretando in tal modo la legge, Castelli ha deciso l’altro giorno di bloccare una rogatoria avviata dai magistrati milanesi negli Usa a proposito di eventuali falsi in bilancio e frodi fiscali di cui si sarebbero resi colpevoli i vertici Mediaset e l’onorevole Berlusconi. Ha deciso cioè di bloccare l’inchiesta.
Il fatto, per il rilievo dei principi che mette in gioco, era e continua a essere di una gravità politica indubbia. Lo ripetiamo: qui non si tratta di approvare la legge pure la più discutibile, pure la più smaccatamente compiacente a pro di questo o di quello, no, qui si tratta di manipolare con un atto d’imperio da parte del governo una legge; si tratta, con un semplice provvedimento amministrativo, di far dire a una legge ciò che essa non dice.
In realtà la Lega e il ministro Castelli non sono nuovi a trasformarsi in guardia armata a difesa delle esigenze giudiziarie del presidente del Consiglio. È la parte che essi si sono scelti da tempo, immaginando (non a torto, crediamo) di potere così disporre presso di lui di un’influenza particolare.
Ma se siamo bene informati, al governo, insieme a Berlusconi e alla Lega, dovrebbero esserci - anzi siamo sicuri che ci sono - pure degli altri partiti: Alleanza nazionale e l’Udc. Ebbene, a noi continua a parere inconcepibile che di fronte a ciò che è accaduto ieri e nelle ultime settimane (finte verifiche, finte cabine di regia, rappattumamenti che con ogni evidenza non rappattumano nulla) i suddetti partiti accettino ancora per molto la parte di semplici comprimari che di fatto hanno finora ricoperto. Il cedimento dell’ultima ora da parte del ministro Castelli dimostra che questa parte non è scritta in nessun libro del destino; e che, se vogliono, An e Udc possono convincere il Paese che la destra ha vinto le elezioni con un obiettivo alquanto più ampio che non quello di curare gli interessi - giudiziari e no - dell’onorevole Berlusconi.
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L’UNITA’ on-line
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«In Italia si può governare e allo stesso tempo possedere un impero di aziende. Ma non si può dirigerlo. Però che cosa succede se il primo ministro fa un favore al suo impero? Niente paura. Non succede niente. Stanno preparando una legge senza denti».
The Economist, 26 luglio
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Il pericolo che viene da via Arenula
Castelli è istituzionalmente incapace e non è in grado di dissociarsi dalla volontà di Berlusconi
di Nicola Tranfaglia
Le parole vanno sempre misurate quando si parla di una persona che ricopre un ruolo istituzionale importante ed è questo il caso dell’ingegnere Roberto Castelli, tuttora ministro della Giustizia nel secondo governo Berlusconi. Ma, a seguire il comportamento politico isituzionale di Castelli nelle ultime settimane, non è possibile evitare un giudizio assai pesante su di lui.
I casi sono due: o Castelli non è in grado di interpretare un ruolo così importante, oppure ritiene che la parola del capo del governo sia legge anche quando è in aperto contrasto con la Costituzione e con tutte le altre leggi. Propendiamo, a questo punto, per una spiegazione che mette insieme le due alternative. È istituzionalmente incapace e in più non è grado di dissociarsi, in nessun caso, dalla volontà del capo.
A questo va aggiunto il fatto che il ministro Castelli ha condotto una vera escalation nei suoi comportamenti: prima ha negato la grazia a Sofri senza portare comprensibili motivazioni se non quelle astratte di volere una nebulosa amnistia, poi ha assistito con evidente soddisfazione al fatto che a Milano un sedicente «comitato nazionale giustizia» del forzista Borrione denunciasse ai giudici di Brescia un presunto reato compiuto dai pm Boccassini e Colombo nei confronti di Previti e Berlusconi, quindi ha bloccato le indagini preliminari aperte dalla Procura di Milano contro Berlusconi per un falso in bilancio che riguarda Mediaset.
In quest’ultimo caso ha violato apertamente la legge di recente approvata dalle Camere a favore di cinque alte cariche dello Stato che esclude nei loro confronti l’apertura di nuovi processi durante la carica ma non le indagini preliminari.
Se si ricorda che il capo dello Stato ha firmato quella legge, nota come lodo Schifani, soltanto dopo aver ottenuto che le indagini preliminari non sarebbero state fermate, si ha più chiaro il senso della mossa di Castelli. Una mossa, dunque, contro i giudici di Milano costretti ora a ricorrere al Consiglio Superiore della Magistratura per far valere la loro interpretazione della legge, ma anche e soprattutto contro il presidente della Repubblica che ancora una volta si era speso per favorire una soluzione gradita alla maggioranza e ancora una volta deve fare i conti con lo scarso o nullo rispetto che i ministri di Berlusconi mostrano della sua azione quando è in pericolo il presidente del Consiglio. Prova eloquente, se ancora ce ne fosse bisogno, dell’improduttività di un dialogo e di una collaborazione con un governo che ogni giorno calpesta la Costituzione, le leggi e lo Stato di diritto in nome del successo elettorale due anni fa.
A questo punto, tuttavia, lo strappo istituzionale triplo compiuto da Castelli in questi giorni, ha persuaso l’Ulivo che la «moral suasion» non basta e che occorre far capire alla maggioranza come all’opinione pubblica italiana, che il ministro della Giustizia non gode più della fiducia delle opposizioni e di una parte, ormai probabilmente maggioritaria, degli italiani.
Come si fa a sopportare che proprio il ministro della Giustizia sia il peggior nemico dei magistrati e li perseguiti tutte le volte in cui nell’esercizio del loro compito esprimono pareri divergenti da quelli del ministro? E come si può tollerare che proprio lui, il titolare della giustizia, disattenda le leggi appena votate dal Parlamento pur di difendere gli interessi personali del leader massimo e dei suoi amici?
Se si vuole evitare che le istituzioni e gli uomini che dovrebbero incarnarle perdano qualsiasi prestigio di fronte agli italiani, è giunto il momento da parte di chi è responsabile di agire in modo che una situazione così incresciosa trovi una soluzione.
I problemi sempre più gravi sollevati dal comportamento del ministro Castelli richiedono, ora più che mai, una risposta limpida da parte del governo e della maggioranza.
Se non avverrà nulla nelle prossime settimane, la fiducia degli italiani nelle istituzioni subirà un nuovo e rovinoso ribasso e ci vorrà qualcuno che se ne assuma le responsabilità.
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CENTOMOVIMENTI-NEWS
EDITORIALE
Farsa Italia
di Massimo Del Papa
Quando si supera la decenza, l’indecenza, l’insolenza, l’ignominia e anche la tragedia, non resta posto che per la farsa. Come quella del comitato ribattezzatosi senz’ombra d’ironia "Sostenitori per la Giustizia", più esattamente per gli imputati eccellenti, ancora più precisamente per Previti Cesare e Berlusconi Silvio dei quali i nostri eroi sono sodali, difensori, soci, stipendiati. Insomma la congrega degli amici dell’uomo-Tartaruga mandati da se medesimo. L’altro aspetto della farsa è che la procura di Brescia, che da 10 anni deve patire qualche complesso emulativo verso quella di Milano, invece di utilizzare gli esposti dei ruffiani per gli unici scopi fisiologicamente immaginabili li piglia sul serio, apre fascicoli penali contro i colleghi Boccassini e Colombo che ardiscono processare, se e quando ci riescono, chi noleggia giudici avariati.
Poi, come non bastassero i membri che lo riempiono, ci sono pure i registi occulti, gli dei ex machina del comitato tra i quali, si mormora, Carlo Taormina, quello che difende i mafiosi dai quali doveva difenderci come parlamentare, uno che denuncia - altra farsa - la procura di Aosta se si permette di rinviare a giudizio i suoi assistititi e che a proposito dell’omicidio del piccolo Samuele, per il quale è imputata la madre, difesa da Taormina, dice: "So io chi è il colpevole, mi mancano solo le prove". Ah, il garantismo rovesciato di Forza Italia!
A questi le figuracce non gli bastano, non li spaventano perché nella farsa vivono, se ne nutrono, la respirano: quindici ispezioni contro la procura di Milano, sessanta dossier anonimi su Di Pietro, le videocassette taroccate sulle udienze dell’Ariosto, diffamata a ripetizione, le ricostruzioni fantastiche dei 10 anni di Mani Pulite sul "Foglio", quotidianamente smerdate da Travaglio: hanno rimediato solo schiaffi, sputtanamenti, squallidi "mea culpa", condanne a risarcimenti anche ingenti. Ma insistono, tanto mica pagano loro, paga sempre il solito padrone, quello un po’ incazzato perché "ha già speso 500 miliardi in avvocati" e, se non li trasformava in deputati (ennesima farsa), non sarebbero serviti a un ciufolo.
Sono arrivati a fare un sito dal titolo greco, icastico, "La verità" e qui oltrepassiamo anche la farsa, dove usano se stessi come testimonial, "la mia faccia" dice Previti "della quale vado fiero". Siamo al Grand-Guignol.
La penultima farsa è che il programma del comitato giustiziere è, come del resto già quello di Forza Italia, un plagio nudo e crudo del piano di Rinascita della P2 da cui proviene il padrone del comitato che lo tutela. Roba di quasi 30 anni fa, da cui si arguisce quale empito di novità, di modernizzazione animi i nostri eroi che vogliono "rivoltare l’Italia", cioè modernamente renderla una consociata della Fininvest, lo stato-azienda, da Publitalia a Forzitalia a Italia una volta eliminate le sovrastrutture.
L’ultima farsa è che di fronte a tanto scempio, non abbiamo sentito alcuna voce del centrosinistra schierarsi a fianco della magistratura in genere e dei pm Boccassini e Colombo in specie, che difendono la democrazia e la giustizia anche per l’opposizione un tantino svagata, che di fronte al conflitto d’interessi si distrae per 5 anni e il giorno in cui la norma che lo nobilita arriva alla Camera, manda a spasso 35 deputati, sì che la legge scellerata passa grazie alla latitanza dell’opposizione.
Eppure, quando c’erano da mandare avanti le Bicamerali anche quelle di sapore piduista per impastoiare la Giustizia, quando c’era da gridare al "regime", demenzialmente il proprio visto che era l’Ulivo a comandare, per la farsa del cimicione nell’ufficio di Berlusconi messovi da se medesimo, la voce dell’"amico Massimo", D’Alema, si sentiva, forte e chiara.
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ESPRESSO on-line 26-7
BERLUSCONIANA
Ferragosto di lotta e di governo
Tra le ville sparse per il mondo, ecco le ferie di alcuni nomi noti
Michele Serra
Abbiamo chiesto ad alcuni italiani celebri come trascorreranno le ferie d´agosto.
Silvio Berlusconi: Quest´anno trascurerò le mie ville in Sardegna, a Portofino, a Capri, alle Molucche e su Giove. Mi recherò in Germania, per dimostrare al cancelliere Schroeder come si sta al mondo. Trascorrerò il Ferragosto nella suggestiva città di Monaco di Baviera, per partecipare all´Oktoberfest. Andrò anche nella importante città di Berlino, per visitare l´omonimo Muro e firmarlo. Questo mi ricorderà i tempi del Muretto di Alassio, dove la mia firma è accanto a quelle di Memo Remigi e Topo Gigio. È in programma anche una gara di barzellette con gli abitanti di Mauthausen, che nonostante gli incresciosi episodi che tutti sappiamo, guardano con ottimismo al futuro.
Umberto Bossi: Rimarrò a Ponte di Legno in canottiera e ciabatte infradito, seduto al fresco nel mio giardinetto lungo la strada statale, salutando i camionisti e mangiando anguria. La sera una bella braciolata con gli amici, sempre nel mio giardinetto e sempre in canottiera e infradito. Poi vado a dormire in canottiera e ciabatte infradito, appoggiando sul comodino il forchettone della braciolata. Io sono un uomo semplice, del popolo. So che è ripugnante. Ma è così.
Roberto Castelli: Altro che ferie, ho un sacco di arretrati da sbrigare, sto perfezionando la lista dei detenuti da amnistiare per fare questa benedetta pacificazione nazionale. Al massimo, farò una breve vacanza di lavoro. Una puntata a Bressanone, per incontrare due anziani terroristi altoatesini, Sepp Moser detto ´l´Orco della Valstrudel´ perché abbatteva i tralicci a mani nude, e suo fratello Hans detto ´lo Stratega´ perché insegnò ai suoi compagni di lotta a spostarsi quando cadeva il traliccio. Sono bravissima gente. Ma siccome sono liberi dal ´67, il difficile sarà costringerli a rientrare in carcere perché io li possa amnistiare.
PIU’ O MENO COME SOFRI, DICE CASTELLI…
CURRICULUM DEGLI STRAGISTI FASCISTI FRANCESCA MAMBRO E VALERIO FIORAVANTI
Tutte le volte che si parla degli esecutori della strage di Bologna, i terroristi fascisti Francesca Mambro e Valerio Fioravanti, sembra che non abbiano commesso altro e che il loro curriculum criminale se non fosse per quella condanna sarebbe completamente pulito e limpido.
Per fare chiarezza di queste omissioni o dimenticanze è bene sapere quanto segue:
la Mambro ha ucciso 96 persone e, oltre a 6 ergastoli, ha accumulato complessivamente 84 anni e 8 mesi di reclusione per gli ulteriori reati commessi; Fioravanti ha ucciso 93 persone e, oltre a 6 ergastoli, ha accumulato 134 anni e 8 mesi di reclusione per gli ulteriori reati commessi. Non hanno mai mostrato pentimento, non hanno aiutato in alcun modo le indagini, hanno offeso le Corti giudicanti, si sono più volte vantati di non avere alcun rimorso. Con tutto ciò hanno ottenuto comunque trattamenti da detenuti modello.
Le condanne di Francesca Mambro
Sei sono le sentenze che comminano l’ergastolo alla Mambro:
- sentenza della Corte d’Assise d’Appello di Venezia del 17 gennaio 1985
- sentenza della Corte d’Assise d’Appello di Bologna del 6 febbraio 1986
- sentenza della Corte d’Assise d’Appello di Milano del 5 novembre 1987
- sentenza della Corte d’Assise d’Appello di Roma del 7 aprile 1988
- sentenza della Corte d’Assise d’Appello di Roma del 3 marzo 1989
- sentenza della Corte d’Assise d’Appello di Bologna del 16 maggio 1994
Quindi:
ergastolo per l’omicidio di Franco Evangelista (28 maggio 1980)
ergastolo per l’omicidio di Mario Amato (23 giugno 1980)
ergastolo per la strage alla Stazione di Bologna (2 agosto 1980)
ergastolo per l’omicidio di Francesco Mangiameli (9 settembre 1980)
ergastolo per l’omicidio di Enea Codotto e Luigi Maronese (5 febbraio 1981)
ergastolo per l’omicidio di Giuseppe De Luca (31 luglio 1981)
ergastolo per l’omicidio di Mambroarco Pizzari (30 settembre 1981)
ergastolo per l’omicidio di F. Straullu e Ciriaco di Roma (21 ottobre 1981)
ergastolo per l’omicidio di Alessandro Caravillani (5 marzo 1982)
La mancata corrispondenza tra numero degli omicidi e numero di ergastoli è dovuta all’applicazione del vincolo della continuazione.
La Mambro ha inoltre accumulato complessivamente 84 anni e 8 mesi di reclusione per reati quali: furto e rapina (una ventina in tutto), detenzione illegale di armi, violazione di domicilio, sequestro di persona, ricettazione, falso, associazione sovversiva, violenza privata, resistenza e oltraggio, attentato per finalità terroristiche, occultamento di atti, danneggiamento, contraffazione impronte.
Morti attribuibili alla responsabilità di Francesca Mambro: 96.
Anni effettivamente scontati in carcere: 16
Le condanne di Valerio Fioravanti
Sei sono le sentenze che comminano l’ergastolo a Fioravanti:
- sentenza della Corte d’Assise d’Appello di Venezia del 17 gennaio 1985
- sentenza della Corte d’assise d’Appello di Roma del 30 maggio 1985
- sentenza della Corte d’Assise d’Appello di Bologna del 6 febbraio 1986
- sentenza della Corte d’Assise d’Appello di Roma del 7 aprile 1988
- sentenza del Tribunale di Bologna del 27 marzo 1990
- sentenza della Corte d’Assise d’Appello di Bologna del 16 maggio 1994
Quindi:
ergastolo per l’omicidio di Roberto Scialabba (28 febbraio 1978)
ergastolo per l’omicidio di Antonio Leandri (17 dicembre 1979)
ergastolo per l’omicidio di Maurizio Arnesano (6 febbraio 1980)
ergastolo per l’omicidio di Franco Evangelista (28 maggio 1980)
ergastolo per l’omicidio di Mario Amato (23 giugno 1980)
ergastolo per la strage alla Stazione di Bologna (2 agosto 1980)
ergastolo per l’omicidio di Francesco Mangiameli (9 settembre 1980)
ergastolo per l’omicidio di Enea Codotto e Luigi Maronese (5 febbraio 1981)
La mancata corrispondenza tra numero di ergastoli e numero di omicidi è dovuta all’applicazione del vincolo della continuazione.
Fioravanti ha inoltre accumulato complessivamente 134 anni e 8 mesi di reclusione per reati quali: furto e rapina (una ventina in tutto), violazione di domicilio, sequestro di persona, detenzione illegale di armi, spaccio di stupefacenti, ricettazione, violenza privata, falso, associazione a delinquere, lesioni personali, tentata evasione, banda armata, danneggiamento, tentato omicidio (28 febbraio 1976, 15 dicembre 1976, 9 gennaio 1977, 28 febbraio 1978, 6 marzo 1978), incendio, sostituzione di persona, strage, calunnia, attentato per finalità terroristiche e di eversione.
Morti attribuibili alla responsabilità di Fioravanti: 93.
Anni effettivamente scontati in carcere: 18.
Gli episodi più eclatanti
28 febbraio 1978. In piazza Don Bosco, a Roma, Fioravanti ed altri notano due ragazzi seduti su una panchina che dall’aspetto (capelli lunghi e giornali) identificano come appartenenti alla sinistra. Fioravanti scende dall’auto, si dirige verso il gruppetto e fa fuoco: Roberto Scialabba, 24 anni, cade a terra ferito e Fioravanti lo finisce con un colpo alla testa. Poi, si gira verso una ragazza che sta fuggendo urlando e le spara senza colpirla.
9 gennaio 1979. Fioravanti ed altre tre persone assaltano la sede romana di Radio città futura dove è in corso una trasmissione gestita da un gruppo femminista. I terroristi, dal volto travisato, fanno stendere le donne presenti sul pavimento e danno fuoco ai locali. L’incendio divampa e le impiegate, terrorizzate, tentano di fuggire. Sono raggiunte da colpi di mitra e pistola. Quattro rimangono ferite, di cui due gravemente.
7 marzo 1979. Per «festeggiare» l’8 marzo, un gruppetto di neofasciste, tra cui Mambro, piazzano una rudimentale bomba davanti alle finestre del Circolo culturale femminista nel quartiere Prati, a Roma. A pochi metri di distanza, Fioravanti ed altri sono lì, armati, pronti ad intervenire.
16 giugno 1979. Fioravanti guida l’assalto alla sezione comunista dell’Esquilino, a Roma. All’interno si stanno svolgendo due assemblee congiunte: di quartiere e dei ferrovieri. Sono presenti più di 50 persone. La squadra terrorista lancia due bombe a mano Srcm, poi scarica alla cieca un caricatore di revolver. Si contano 25 feriti, per puro caso non ci sono morti. Dario Pedretti, componente del Commando, verrà redarguito da Fioravanti perché, nonostante il ricco armamentario «non c’era scappato il morto». Che Fioravanti fosse colui che ha guidato il commando è accertato dalle testimonianze dei feriti e degli altri partecipanti all’azione, e da una sentenza passata in giudicato. Ciononostante, Fioravanti ha sempre negato questo suo pesante precedente stragista.
17 dicembre 1979. Fioravanti assieme ad altri vuole uccidere l’avvocato Giorgio Arcangeli, ritenuto responsabile della cattura di Pierluigi Concutelli, leader carismatico dell’eversione neofascista. Fioravanti non ha mai visto la vittima designata, ne conosce solo una sommaria descrizione. L’agguato viene teso sotto lo studio dell’avvocato, ma a perdere la vita è un inconsapevole geometra di 24 anni, Antonio Leandri, vittima di uno scambio di persona e colpevole di essersi voltato al grido “avvocato!” lanciato da Fioravanti.
6 febbraio 1980. Fioravanti uccide il poliziotto Maurizio Arnesano che ha solo 19 anni. Scopo dell’omicidio, impadronirsi del suo mitra M.12. Al sostituto procuratore di Roma, il 13 aprile 1981, Cristiano Fioravanti -fratello di Valerio- dichiarerà: «La mattina dell’omicidio Arnesano, Valerio mi disse che un poliziotto gli avrebbe dato un mitra; io, incredulo, chiesi a che prezzo ed egli mi rispose: “gratuitamente”; fece un sorriso ed io capii».
30 marzo 1980. Un commando di terroristi assalta il distretto militare di via Cesarotti a Padova. Un sergente viene ferito e vengono rubati 4 mitragliatori M.C, 5 fucili a ripetizione, pistole e proiettili. Sul muro della caserma, prima di andarsene, Mambro firma la rapina con la sigla BR per depistare le indagini.
23 giugno 1980. Luigi Ciavardini e Gilberto Cavallini uccidono a Roma il sostituto procuratore Mario Amato. Il magistrato, 36 anni, è appena uscito di casa; da due anni conduce le principali inchiesta sui movimenti eversivi di destra. Ha ereditato i fascicoli d’indagine dal giudice Vittorio Occorsio. Poco prima di essere assassinato aveva chiesto l’uso di un auto blindata. Gli fu negato. All’indomani dell’omicidio, i Nar telefonano ad un quotidiano e fanno ritrovare un volantino di rivendicazione che dice: «Oggi 23 giugno 1980 alle ore 8:05, abbiamo eseguito la sentenza di morte emanata contro il sostituto procuratore Mario Amato, per le cui mani passavano tutti i processi a carico dei camerati. Oggi egli ha chiuso la sua squallida esistenza imbottito di piombo. Altri, ancora, pagheranno». Amato aveva annunciato che le sue indagini lo stavano portando «alla visione di una verità d’assieme, coinvolgente responsabilità ben più gravi di quelle stesse degli esecutori degli atti criminosi». Per l'omicidio sono stati condannati anche Valerio Fioravanti e Francesca Mambro considerati i mandanti del delitto.
9 settembre 1980. Mambro e Fioravanti con Soderini, Vale e Cristiano Fioravanti, uccidono Francesco Mangiameli, dirigente di Terza Posizione in Sicilia e testimone scomodo in merito alla strage di Bologna (link all'omicidio Mangiameli).
5 febbraio 1981. Mambro e Fioravanti tendono un agguato a due carabinieri: Enea Codotto, 25 anni e Luigi Maronese, 23 anni. Dagli atti del processo è emerso che durante l’imboscata Fioravanti ha fatto finta di arrendersi. Poi ha gridato alla Mambro, nascosta dietro un’auto, «Spara, spara!».
31 luglio 1981. Nell’ambito di un regolamento di conti all’interno della destra eversiva viene ucciso Giuseppe De Luca. All’omicidio partecipa Mambro.
30 settembre 1981. Viene ucciso il ventitreenne Marco Pizzari, estremista di destra e intimo amico di Luigi Ciavardini, poiché ritenuto un “infame delatore”. Del commando omicida fa parte Mambro.
21 ottobre 1981. Alcuni Nar, tra cui Mambro, tendono un agguato, a Roma, al capitano della Digos Francesco Straullu e all’agente Ciriaco Di Roma. I due vengono massacrati. L’efferatezza del crimine è racchiusa nelle parole del medico legale: «La morte di Straullu è stata causata dallo sfracellamento del capo e del massiccio facciale con spappolamento dell’encefalo; quello di Di Roma per la ferita a carico del capo con frattura del cranio e lesioni al cervello». Il capitano Straullu, 26 anni, aveva lavorato con grande impegno per smascherare i soldati dell’eversione nera. Nel 1981 ne aveva fatti arrestare 56. La mattina dell’agguato non aveva la solita auto blindata, in riparazione da due giorni.
5 marzo1982. Durante una rapina a Roma, Mambro uccide Alessandro Caravillani, 17 anni. Il ragazzo stava recandosi a scuola e passava di lì per caso. La sua morte suscita scalpore anche perché il giovane viene colpito alla testa con un colpo di pistola sparatogli a bruciapelo.
(FONTE: Ass. Familiari Vittime Strage Bologna)
CURRICULUM DEGLI STRAGISTI FASCISTI FRANCESCA MAMBRO E VALERIO FIORAVANTI
Tutte le volte che si parla degli esecutori della strage di Bologna, i terroristi fascisti Francesca Mambro e Valerio Fioravanti, sembra che non abbiano commesso altro e che il loro curriculum criminale se non fosse per quella condanna sarebbe completamente pulito e limpido.
Per fare chiarezza di queste omissioni o dimenticanze è bene sapere quanto segue:
la Mambro ha ucciso 96 persone e, oltre a 6 ergastoli, ha accumulato complessivamente 84 anni e 8 mesi di reclusione per gli ulteriori reati commessi; Fioravanti ha ucciso 93 persone e, oltre a 6 ergastoli, ha accumulato 134 anni e 8 mesi di reclusione per gli ulteriori reati commessi. Non hanno mai mostrato pentimento, non hanno aiutato in alcun modo le indagini, hanno offeso le Corti giudicanti, si sono più volte vantati di non avere alcun rimorso. Con tutto ciò hanno ottenuto comunque trattamenti da detenuti modello.
Le condanne di Francesca Mambro
Sei sono le sentenze che comminano l’ergastolo alla Mambro:
- sentenza della Corte d’Assise d’Appello di Venezia del 17 gennaio 1985
- sentenza della Corte d’Assise d’Appello di Bologna del 6 febbraio 1986
- sentenza della Corte d’Assise d’Appello di Milano del 5 novembre 1987
- sentenza della Corte d’Assise d’Appello di Roma del 7 aprile 1988
- sentenza della Corte d’Assise d’Appello di Roma del 3 marzo 1989
- sentenza della Corte d’Assise d’Appello di Bologna del 16 maggio 1994
Quindi:
ergastolo per l’omicidio di Franco Evangelista (28 maggio 1980)
ergastolo per l’omicidio di Mario Amato (23 giugno 1980)
ergastolo per la strage alla Stazione di Bologna (2 agosto 1980)
ergastolo per l’omicidio di Francesco Mangiameli (9 settembre 1980)
ergastolo per l’omicidio di Enea Codotto e Luigi Maronese (5 febbraio 1981)
ergastolo per l’omicidio di Giuseppe De Luca (31 luglio 1981)
ergastolo per l’omicidio di Mambroarco Pizzari (30 settembre 1981)
ergastolo per l’omicidio di F. Straullu e Ciriaco di Roma (21 ottobre 1981)
ergastolo per l’omicidio di Alessandro Caravillani (5 marzo 1982)
La mancata corrispondenza tra numero degli omicidi e numero di ergastoli è dovuta all’applicazione del vincolo della continuazione.
La Mambro ha inoltre accumulato complessivamente 84 anni e 8 mesi di reclusione per reati quali: furto e rapina (una ventina in tutto), detenzione illegale di armi, violazione di domicilio, sequestro di persona, ricettazione, falso, associazione sovversiva, violenza privata, resistenza e oltraggio, attentato per finalità terroristiche, occultamento di atti, danneggiamento, contraffazione impronte.
Morti attribuibili alla responsabilità di Francesca Mambro: 96.
Anni effettivamente scontati in carcere: 16
Le condanne di Valerio Fioravanti
Sei sono le sentenze che comminano l’ergastolo a Fioravanti:
- sentenza della Corte d’Assise d’Appello di Venezia del 17 gennaio 1985
- sentenza della Corte d’assise d’Appello di Roma del 30 maggio 1985
- sentenza della Corte d’Assise d’Appello di Bologna del 6 febbraio 1986
- sentenza della Corte d’Assise d’Appello di Roma del 7 aprile 1988
- sentenza del Tribunale di Bologna del 27 marzo 1990
- sentenza della Corte d’Assise d’Appello di Bologna del 16 maggio 1994
Quindi:
ergastolo per l’omicidio di Roberto Scialabba (28 febbraio 1978)
ergastolo per l’omicidio di Antonio Leandri (17 dicembre 1979)
ergastolo per l’omicidio di Maurizio Arnesano (6 febbraio 1980)
ergastolo per l’omicidio di Franco Evangelista (28 maggio 1980)
ergastolo per l’omicidio di Mario Amato (23 giugno 1980)
ergastolo per la strage alla Stazione di Bologna (2 agosto 1980)
ergastolo per l’omicidio di Francesco Mangiameli (9 settembre 1980)
ergastolo per l’omicidio di Enea Codotto e Luigi Maronese (5 febbraio 1981)
La mancata corrispondenza tra numero di ergastoli e numero di omicidi è dovuta all’applicazione del vincolo della continuazione.
Fioravanti ha inoltre accumulato complessivamente 134 anni e 8 mesi di reclusione per reati quali: furto e rapina (una ventina in tutto), violazione di domicilio, sequestro di persona, detenzione illegale di armi, spaccio di stupefacenti, ricettazione, violenza privata, falso, associazione a delinquere, lesioni personali, tentata evasione, banda armata, danneggiamento, tentato omicidio (28 febbraio 1976, 15 dicembre 1976, 9 gennaio 1977, 28 febbraio 1978, 6 marzo 1978), incendio, sostituzione di persona, strage, calunnia, attentato per finalità terroristiche e di eversione.
Morti attribuibili alla responsabilità di Fioravanti: 93.
Anni effettivamente scontati in carcere: 18.
Gli episodi più eclatanti
28 febbraio 1978. In piazza Don Bosco, a Roma, Fioravanti ed altri notano due ragazzi seduti su una panchina che dall’aspetto (capelli lunghi e giornali) identificano come appartenenti alla sinistra. Fioravanti scende dall’auto, si dirige verso il gruppetto e fa fuoco: Roberto Scialabba, 24 anni, cade a terra ferito e Fioravanti lo finisce con un colpo alla testa. Poi, si gira verso una ragazza che sta fuggendo urlando e le spara senza colpirla.
9 gennaio 1979. Fioravanti ed altre tre persone assaltano la sede romana di Radio città futura dove è in corso una trasmissione gestita da un gruppo femminista. I terroristi, dal volto travisato, fanno stendere le donne presenti sul pavimento e danno fuoco ai locali. L’incendio divampa e le impiegate, terrorizzate, tentano di fuggire. Sono raggiunte da colpi di mitra e pistola. Quattro rimangono ferite, di cui due gravemente.
7 marzo 1979. Per «festeggiare» l’8 marzo, un gruppetto di neofasciste, tra cui Mambro, piazzano una rudimentale bomba davanti alle finestre del Circolo culturale femminista nel quartiere Prati, a Roma. A pochi metri di distanza, Fioravanti ed altri sono lì, armati, pronti ad intervenire.
16 giugno 1979. Fioravanti guida l’assalto alla sezione comunista dell’Esquilino, a Roma. All’interno si stanno svolgendo due assemblee congiunte: di quartiere e dei ferrovieri. Sono presenti più di 50 persone. La squadra terrorista lancia due bombe a mano Srcm, poi scarica alla cieca un caricatore di revolver. Si contano 25 feriti, per puro caso non ci sono morti. Dario Pedretti, componente del Commando, verrà redarguito da Fioravanti perché, nonostante il ricco armamentario «non c’era scappato il morto». Che Fioravanti fosse colui che ha guidato il commando è accertato dalle testimonianze dei feriti e degli altri partecipanti all’azione, e da una sentenza passata in giudicato. Ciononostante, Fioravanti ha sempre negato questo suo pesante precedente stragista.
17 dicembre 1979. Fioravanti assieme ad altri vuole uccidere l’avvocato Giorgio Arcangeli, ritenuto responsabile della cattura di Pierluigi Concutelli, leader carismatico dell’eversione neofascista. Fioravanti non ha mai visto la vittima designata, ne conosce solo una sommaria descrizione. L’agguato viene teso sotto lo studio dell’avvocato, ma a perdere la vita è un inconsapevole geometra di 24 anni, Antonio Leandri, vittima di uno scambio di persona e colpevole di essersi voltato al grido “avvocato!” lanciato da Fioravanti.
6 febbraio 1980. Fioravanti uccide il poliziotto Maurizio Arnesano che ha solo 19 anni. Scopo dell’omicidio, impadronirsi del suo mitra M.12. Al sostituto procuratore di Roma, il 13 aprile 1981, Cristiano Fioravanti -fratello di Valerio- dichiarerà: «La mattina dell’omicidio Arnesano, Valerio mi disse che un poliziotto gli avrebbe dato un mitra; io, incredulo, chiesi a che prezzo ed egli mi rispose: “gratuitamente”; fece un sorriso ed io capii».
30 marzo 1980. Un commando di terroristi assalta il distretto militare di via Cesarotti a Padova. Un sergente viene ferito e vengono rubati 4 mitragliatori M.C, 5 fucili a ripetizione, pistole e proiettili. Sul muro della caserma, prima di andarsene, Mambro firma la rapina con la sigla BR per depistare le indagini.
23 giugno 1980. Luigi Ciavardini e Gilberto Cavallini uccidono a Roma il sostituto procuratore Mario Amato. Il magistrato, 36 anni, è appena uscito di casa; da due anni conduce le principali inchiesta sui movimenti eversivi di destra. Ha ereditato i fascicoli d’indagine dal giudice Vittorio Occorsio. Poco prima di essere assassinato aveva chiesto l’uso di un auto blindata. Gli fu negato. All’indomani dell’omicidio, i Nar telefonano ad un quotidiano e fanno ritrovare un volantino di rivendicazione che dice: «Oggi 23 giugno 1980 alle ore 8:05, abbiamo eseguito la sentenza di morte emanata contro il sostituto procuratore Mario Amato, per le cui mani passavano tutti i processi a carico dei camerati. Oggi egli ha chiuso la sua squallida esistenza imbottito di piombo. Altri, ancora, pagheranno». Amato aveva annunciato che le sue indagini lo stavano portando «alla visione di una verità d’assieme, coinvolgente responsabilità ben più gravi di quelle stesse degli esecutori degli atti criminosi». Per l'omicidio sono stati condannati anche Valerio Fioravanti e Francesca Mambro considerati i mandanti del delitto.
9 settembre 1980. Mambro e Fioravanti con Soderini, Vale e Cristiano Fioravanti, uccidono Francesco Mangiameli, dirigente di Terza Posizione in Sicilia e testimone scomodo in merito alla strage di Bologna (link all'omicidio Mangiameli).
5 febbraio 1981. Mambro e Fioravanti tendono un agguato a due carabinieri: Enea Codotto, 25 anni e Luigi Maronese, 23 anni. Dagli atti del processo è emerso che durante l’imboscata Fioravanti ha fatto finta di arrendersi. Poi ha gridato alla Mambro, nascosta dietro un’auto, «Spara, spara!».
31 luglio 1981. Nell’ambito di un regolamento di conti all’interno della destra eversiva viene ucciso Giuseppe De Luca. All’omicidio partecipa Mambro.
30 settembre 1981. Viene ucciso il ventitreenne Marco Pizzari, estremista di destra e intimo amico di Luigi Ciavardini, poiché ritenuto un “infame delatore”. Del commando omicida fa parte Mambro.
21 ottobre 1981. Alcuni Nar, tra cui Mambro, tendono un agguato, a Roma, al capitano della Digos Francesco Straullu e all’agente Ciriaco Di Roma. I due vengono massacrati. L’efferatezza del crimine è racchiusa nelle parole del medico legale: «La morte di Straullu è stata causata dallo sfracellamento del capo e del massiccio facciale con spappolamento dell’encefalo; quello di Di Roma per la ferita a carico del capo con frattura del cranio e lesioni al cervello». Il capitano Straullu, 26 anni, aveva lavorato con grande impegno per smascherare i soldati dell’eversione nera. Nel 1981 ne aveva fatti arrestare 56. La mattina dell’agguato non aveva la solita auto blindata, in riparazione da due giorni.
5 marzo1982. Durante una rapina a Roma, Mambro uccide Alessandro Caravillani, 17 anni. Il ragazzo stava recandosi a scuola e passava di lì per caso. La sua morte suscita scalpore anche perché il giovane viene colpito alla testa con un colpo di pistola sparatogli a bruciapelo.
(FONTE: Ass. Familiari Vittime Strage Bologna)
MANIFESTO 25-7
Castelli blocca le rogatorie su Mediaset
Grazie al lodo Schifani il guardasigilli difende Berlusconi. Ma lo scudo non si applica alle indagini
M. BA.
Il ministro della Giustizia Roberto Castelli interviene a gamba tesa contro la procura di Milano e blocca, di fatto, le indagini su Mediaset e su Silvio Berlusconi. Sfruttando la legge salva premier, il lodo Schifani, Castelli ha infatti sospeso le richieste di rogatorie inviate dai pm milanesi negli Stati Uniti e in Svizzera nell'ambito dell'inchiesta sui fondi cinematografici di Mediaset. Il pretesto per la sospensione sarebbe la richiesta di un parere a un consulente sull'ipotesi che il lodo Schifani si applichi anche alla fase di acquisizione delle prove durante le indagini e non solo al dibattimento. Da Roma infatti sarebbe arrivata ieri a Milano la risposta ai pm Alfredo Robledo e Fabio De Pasquale che chiedevano notizie sulle rogatorie arenate da tempo a via Arenula. La procura ha definito «irricevibile» e «abnorme» la procedura seguita dal ministero, che sarebbe in «palese violazione della legge», e ha deciso di sollevare il caso di fronte al Csm, ritenendo ci siano gli estremi per un'illegittima interferenza nell'attività giudiziaria, che di fatto sarebbe bloccata dagli uffici del ministero.
Eppure, come si ricorderà, durante l'acceso dibattito parlamentare sul «lodo», era stato approvato un emendamento al testo originario che chiariva che la sospensione dei processi per le cinque alte cariche dello stato si applicava soltanto al dibattimento e non alle indagini preliminari. Questo punto, ricorda il responsabile giustizia della Margherita Giuseppe Fanfani, «è pacifico. Lo hanno detto reiteratamente, durante la discussione del provvedimento, sia il relatore Donato bruno, sia il sottosegretario Michele Vietti». In particolare, all'epoca si disse che la modifica fosse stata suggerita alla Cdl da ambienti vicini al Quirinale, che in caso contrario avrebbe minacciato di non firmare la legge Schifani.
Il caso però è diventato subito politico e gran parte dell'opposizione è insorta contro la decisione di Castelli. Ma perfino un falco come l'avvocato forzista Carlo Taormina dice di non condividere, «da tecnico», la decisione del ministro. Come spiega la responsabile giustizia dei Ds Anna Finocchiaro: «I lavori parlamentari sono assolutamente inequivoci: la sospensione del processo non si applica alla fase delle indagini preliminari. Lo hanno ribadito più volte su nostra sollecitazione sia il governo che il relatore di maggioranza». Per la Finocchiaro il ministro ha quindi compiuto «un'interferenza illegittima nelle attività giurisdizionali». Anche Antonio Maccanico della Margherita, che aveva inizialmente immaginato la legge, definisce l'iniziativa di Castelli «arbitraria», «bene hanno fatto i pm a segnalare la vicenda al Csm». E Fanfani della Margherita aggiunge: «Se il ministro non sa queste cose è bene che si dimetta. Se è in malafede, invece, è bene che ne risponda al tribunale dei ministri e se ne assuma le responsabilità».
Amaro il commento del presidente dei Verdi, Alfonso Pecoraro Scanio: «Purtroppo le leggi vergogna funzionano. Si fa sempre più urgente una mobilitazione delle opposizioni e di tutta la società civile». Antonio Di Pietro infatti accorre subito a rilanciare il referendum abrogativo del lodo.
- - - - - - - - - - - - - - - - - - - -
RARISSIMO EDITORIALE
Castelli ha ragione. Il Lodo Schifani è legge dello stato, debitamente controfirmata e promulgata dal Capo dello Stato. Le interpretazioni, antica norma di diritto, vanno fatte secondo lo spirito della legge. Il quale spirito è: Berlusconi non si tocca. Chi poteva farci qualcosa, doveva pensarci prima.
LUCIANO SENO
Castelli blocca le rogatorie su Mediaset
Grazie al lodo Schifani il guardasigilli difende Berlusconi. Ma lo scudo non si applica alle indagini
M. BA.
Il ministro della Giustizia Roberto Castelli interviene a gamba tesa contro la procura di Milano e blocca, di fatto, le indagini su Mediaset e su Silvio Berlusconi. Sfruttando la legge salva premier, il lodo Schifani, Castelli ha infatti sospeso le richieste di rogatorie inviate dai pm milanesi negli Stati Uniti e in Svizzera nell'ambito dell'inchiesta sui fondi cinematografici di Mediaset. Il pretesto per la sospensione sarebbe la richiesta di un parere a un consulente sull'ipotesi che il lodo Schifani si applichi anche alla fase di acquisizione delle prove durante le indagini e non solo al dibattimento. Da Roma infatti sarebbe arrivata ieri a Milano la risposta ai pm Alfredo Robledo e Fabio De Pasquale che chiedevano notizie sulle rogatorie arenate da tempo a via Arenula. La procura ha definito «irricevibile» e «abnorme» la procedura seguita dal ministero, che sarebbe in «palese violazione della legge», e ha deciso di sollevare il caso di fronte al Csm, ritenendo ci siano gli estremi per un'illegittima interferenza nell'attività giudiziaria, che di fatto sarebbe bloccata dagli uffici del ministero.
Eppure, come si ricorderà, durante l'acceso dibattito parlamentare sul «lodo», era stato approvato un emendamento al testo originario che chiariva che la sospensione dei processi per le cinque alte cariche dello stato si applicava soltanto al dibattimento e non alle indagini preliminari. Questo punto, ricorda il responsabile giustizia della Margherita Giuseppe Fanfani, «è pacifico. Lo hanno detto reiteratamente, durante la discussione del provvedimento, sia il relatore Donato bruno, sia il sottosegretario Michele Vietti». In particolare, all'epoca si disse che la modifica fosse stata suggerita alla Cdl da ambienti vicini al Quirinale, che in caso contrario avrebbe minacciato di non firmare la legge Schifani.
Il caso però è diventato subito politico e gran parte dell'opposizione è insorta contro la decisione di Castelli. Ma perfino un falco come l'avvocato forzista Carlo Taormina dice di non condividere, «da tecnico», la decisione del ministro. Come spiega la responsabile giustizia dei Ds Anna Finocchiaro: «I lavori parlamentari sono assolutamente inequivoci: la sospensione del processo non si applica alla fase delle indagini preliminari. Lo hanno ribadito più volte su nostra sollecitazione sia il governo che il relatore di maggioranza». Per la Finocchiaro il ministro ha quindi compiuto «un'interferenza illegittima nelle attività giurisdizionali». Anche Antonio Maccanico della Margherita, che aveva inizialmente immaginato la legge, definisce l'iniziativa di Castelli «arbitraria», «bene hanno fatto i pm a segnalare la vicenda al Csm». E Fanfani della Margherita aggiunge: «Se il ministro non sa queste cose è bene che si dimetta. Se è in malafede, invece, è bene che ne risponda al tribunale dei ministri e se ne assuma le responsabilità».
Amaro il commento del presidente dei Verdi, Alfonso Pecoraro Scanio: «Purtroppo le leggi vergogna funzionano. Si fa sempre più urgente una mobilitazione delle opposizioni e di tutta la società civile». Antonio Di Pietro infatti accorre subito a rilanciare il referendum abrogativo del lodo.
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RARISSIMO EDITORIALE
Castelli ha ragione. Il Lodo Schifani è legge dello stato, debitamente controfirmata e promulgata dal Capo dello Stato. Le interpretazioni, antica norma di diritto, vanno fatte secondo lo spirito della legge. Il quale spirito è: Berlusconi non si tocca. Chi poteva farci qualcosa, doveva pensarci prima.
LUCIANO SENO
STAMPA 24-7
Dubbi sull'assalto
di Lietta Tornabuoni
MA perché hanno ucciso i figli (e forse un nipote) di Saddam Hussein? Che bisogno c'era? Per quale motivo ammazzarli? Una volta identificato (grazie a una soffiata da 30 milioni di dollari) il posto dove stavano, li avrebbero comunque presi. Erano in quattro dentro una casa a Mossul, nel Nord dell'Iraq. Bastava circondare l'edificio, metterlo sotto assedio e aspettare. E invece i parà della 101ª divisione aerotrasportata, le truppe speciali dell'esercito e dell'aviazione, i duecento uomini delle «Aquile Urlanti», i diversi tipi di armi, l'attacco con razzi da parte degli elicotteri: uno spiegamento guerresco che serviva assolutamente a nulla.
Erano pericolosi in quel momento? Sicuramente no. S'erano barricati nell'interno? Era sufficiente attrezzarsi. Facevano resistenza? Bastava collocarsi fuori tiro. Ma perché uccidere? I figli di Saddam Hussein saranno certo stati violenti, efferati assassini, seminatori di terrore in città, figure-chiave dell'ex regime: ma se si dovessero ammazzare tutti i criminali politici, le feroci canaglie, staremmo freschi, sarebbe un eccidio al giorno. In casi simili si catturano i colpevoli, si arrestano, si processano, si uccidono se nel Paese è legale la pena di morte oppure si condannano all'ergastolo o alla pena che il tribunale ha sentenziato: il modo di agire civile e democratico è questo. Perché ammazzare? E perché proprio gli americani dovevano assumersi il compito di ammazzare? Perché hanno vinto una guerra preventiva illegale, mossa per motivi inconfessati, combattuta sulla base di menzogne? Ma l'Iraq non è in guerra. La guerra è finita.
Le uccisioni dei figli di Saddam Hussein non sono originate dalla «giustizia popolare» né dall'odio popolare, come fu per Mussolini e i suoi: in ogni caso quell'esecuzione del dittatore, nel tempo tanto criticata e caricata di tanti rimorsi, venne eseguita dai partigiani italiani, non dagli americani o dagli inglesi che presidiavano l'Italia alla fine della seconda guerra mondiale. Non è incomprensibile immaginare che i figli di Saddam Hussein siano stati uccisi per motivi politico-militari: per poter vantare un’azione riuscita e guadagnarsi il plauso del presidente Bush deviando l'attenzione dalle bugie all'origine del conflitto iracheno; per intimorire quei singoli tiratori che ogni giorno uccidono soldati Usa; per una prepotenza poco ragionata simile a quella con cui, nei film, vengono descritte le irruzioni di militari o di agenti della Cia. E per quella mancanza di rispetto per la vita altrui che ha segnato tutta la guerra.
Dubbi sull'assalto
di Lietta Tornabuoni
MA perché hanno ucciso i figli (e forse un nipote) di Saddam Hussein? Che bisogno c'era? Per quale motivo ammazzarli? Una volta identificato (grazie a una soffiata da 30 milioni di dollari) il posto dove stavano, li avrebbero comunque presi. Erano in quattro dentro una casa a Mossul, nel Nord dell'Iraq. Bastava circondare l'edificio, metterlo sotto assedio e aspettare. E invece i parà della 101ª divisione aerotrasportata, le truppe speciali dell'esercito e dell'aviazione, i duecento uomini delle «Aquile Urlanti», i diversi tipi di armi, l'attacco con razzi da parte degli elicotteri: uno spiegamento guerresco che serviva assolutamente a nulla.
Erano pericolosi in quel momento? Sicuramente no. S'erano barricati nell'interno? Era sufficiente attrezzarsi. Facevano resistenza? Bastava collocarsi fuori tiro. Ma perché uccidere? I figli di Saddam Hussein saranno certo stati violenti, efferati assassini, seminatori di terrore in città, figure-chiave dell'ex regime: ma se si dovessero ammazzare tutti i criminali politici, le feroci canaglie, staremmo freschi, sarebbe un eccidio al giorno. In casi simili si catturano i colpevoli, si arrestano, si processano, si uccidono se nel Paese è legale la pena di morte oppure si condannano all'ergastolo o alla pena che il tribunale ha sentenziato: il modo di agire civile e democratico è questo. Perché ammazzare? E perché proprio gli americani dovevano assumersi il compito di ammazzare? Perché hanno vinto una guerra preventiva illegale, mossa per motivi inconfessati, combattuta sulla base di menzogne? Ma l'Iraq non è in guerra. La guerra è finita.
Le uccisioni dei figli di Saddam Hussein non sono originate dalla «giustizia popolare» né dall'odio popolare, come fu per Mussolini e i suoi: in ogni caso quell'esecuzione del dittatore, nel tempo tanto criticata e caricata di tanti rimorsi, venne eseguita dai partigiani italiani, non dagli americani o dagli inglesi che presidiavano l'Italia alla fine della seconda guerra mondiale. Non è incomprensibile immaginare che i figli di Saddam Hussein siano stati uccisi per motivi politico-militari: per poter vantare un’azione riuscita e guadagnarsi il plauso del presidente Bush deviando l'attenzione dalle bugie all'origine del conflitto iracheno; per intimorire quei singoli tiratori che ogni giorno uccidono soldati Usa; per una prepotenza poco ragionata simile a quella con cui, nei film, vengono descritte le irruzioni di militari o di agenti della Cia. E per quella mancanza di rispetto per la vita altrui che ha segnato tutta la guerra.
CORSERA 24-7
MOLTI CAVALLI MA IL CAVALIERE E’ UNO SOLO
Berlusconi smonti da cavallo -- è l’unica soluzione per fare di quella stalla un'aula parlamentare
di FRANCESCO MERLO
Sembra più adatto alla politica che alla Lancia Thesis e ai suoi 230 cavalli lo spot televisivo della splendida Cucinotta: «Molti cavalli. E un solo cavaliere». Di sicuro l'idea, selvaggia e indecente, che un solo cavaliere domini tutti quei cavalli, 474 tra Camera e Senato, e addirittura li degradi a ronzini, è perfettamente adeguata alla giornata di martedì, quando la pur rissosa maggioranza di governo ha approvato, in un solo pomeriggio, ben due leggi che, alla fine, hanno un'unica sostanza, trattano la stessa materia: la tv di Berlusconi, l'interesse del padrone. Ormai è accertato che sulle televisioni, sul proprio patrimonio personale, sulla guerra ai magistrati che lo stanno processando e sui «lodi» che lo ibernano, Silvio Berlusconi tiene l'Italia in uno stato di eccitazione sentimentale, una specie di infiammazione uterina che ci riguarda tutti, sostenitori e oppositori.
Ed è un'ossessione che, comunque vada a finire l'avventura, diventerà materia di studio politologico per la posterità. Da un lato bisognerà decifrare infatti la passione assatanata di questa maggioranza che si comporta come personale di servizio, dove tutti si azzuffano su tutto, ma poi come le api e come le mosche tutti vengono risucchiati sull'essudato.
Dall'altro lato ogni volta che la maggioranza si compatta sulla pastura del biscione, nell’opposizione scatta subito l'intransigenza etica, dettata da codici lontani, ma nessuno sa mettere le mani nel pasto. E nessuno, nell’opposizione, sa modificare la ricetta, ridosare gli ingredienti in maniera più o meno surrettizia, entrista o troskista, di lotta e di governo. E difatti il presidente della Rai Lucia Annunziata promette le dimissioni, e a piazza Navona si gira in tondo, nelle feste dell' Unità si fanno spettacoli incandescenti, e i comici si candidano a leader della politica della risata e degli sfottò dove, come tutti capiscono, deriso e derisori sono sostanzialmente solidali. Al punto che il più intransigente degli oppositori, Nando Dalla Chiesa, è diventato, in teatro, il più fedele e il più applaudito imitatore di Berlusconi. Insomma non potendolo sfidare lo si ridicolizza amabilmente, come facevamo a scuola con l'odiato professore al quale riconoscevamo il monopolio del sapere, e lo sfottò era dunque l'unica licenza, l'estremo rifugio perché nessuno poteva contestargli l'abilità professionale, lui solo sapeva che l'aoristo di lambano era elabon , e la metrica di Virgilio e di Seneca, e l'esametro dattilico, una lunga e due brevi...
Ebbene, come quel professore deteneva il monopolio del sapere così Berlusconi detiene l'iniziativa della politica italiana. E' infatti il solo che riesce a compattare e a mantenere uniti sia i secchioni e sia le birbe, la maggioranza dei diligenti e la minoranza dei monelli, ad assicurare insomma la disciplina in classe.
Perciò alla fine ha ragione la Cucinotta, non meraviglia tanto il cavaliere: qui il problema sono i 474 cavalli della maggioranza ridotti a ronzini da un solo cavaliere. Silvio Berlusconi, per la verità, sa anche governarli con leggerezza questi suoi cavalli, lascia che scalpitino sulle pensioni o sull'immigrazione, permette a Fini di dare dell'arrogante a Tremonti, concede a Bossi di insolentire chi gli pare, e a Follini ha assegnato il ruolo più elegante, quello della discrezione al galoppo.
La settimana scorsa, ricordate?, Berlusconi l'ha pure detto che i suoi cavalli «devono sfogarsi» ed è andato a comprarsi la villa di Zeffirelli a Positano: «Tanto, senza di me si suiciderebbero». Berlusconi del resto era stato molto liberale pure sulle quote latte, e aveva persino permesso ad An di votare con i comunisti di Rifondazione per bloccare la vendita dei beni immobili dello Stato. Sulla grazia a Sofri poi, tutti si sono ricordati di essere cavalli, e si sono persino imbizzarriti. Ma sulle televisioni no. Su tutti gli affari del presidente del Consiglio, imprenditore interessato, vale lo slogan della Cucinotta e il Parlamento diventa il bivacco di un solo cavaliere.
Davvero dunque la giornata di martedì scorso è la giornata simbolo dell'infelicità di questa Italia che deve scegliere tra i ronzini e i goliardi. Nulla di più lontano dalla tradizione e della storia del Paese, fosse pure la più controversa, fosse pure la più cortigiana. Si sa, per esempio, che Fanfani dipingeva e magari teneva ai suoi quadri più che ai suoi progetti politici. Ma non ha mai creato il partito delle tele, non ha ridotto la Dc a un'accozzaglia di adulatori né il Parlamento ha mai legiferato per dare a Fanfani il monopolio della pittura.
No, la strada sulla quale Berlusconi sta portando i suoi ronzini potrebbe presto diventare senza via d'uscita: presto, molto presto, quando la legge Gasparri sul riordino televisivo e la legge Frattini sul conflitto di interessi verranno definitivamente approvate. Svanirà così la possibilità che il presidente del Consiglio si liberi completamente del suo dominio televisivo e smonti da cavallo, che è l’unica soluzione, proprio l’unica, per fare di quella stalla un'aula parlamentare.
MOLTI CAVALLI MA IL CAVALIERE E’ UNO SOLO
Berlusconi smonti da cavallo -- è l’unica soluzione per fare di quella stalla un'aula parlamentare
di FRANCESCO MERLO
Sembra più adatto alla politica che alla Lancia Thesis e ai suoi 230 cavalli lo spot televisivo della splendida Cucinotta: «Molti cavalli. E un solo cavaliere». Di sicuro l'idea, selvaggia e indecente, che un solo cavaliere domini tutti quei cavalli, 474 tra Camera e Senato, e addirittura li degradi a ronzini, è perfettamente adeguata alla giornata di martedì, quando la pur rissosa maggioranza di governo ha approvato, in un solo pomeriggio, ben due leggi che, alla fine, hanno un'unica sostanza, trattano la stessa materia: la tv di Berlusconi, l'interesse del padrone. Ormai è accertato che sulle televisioni, sul proprio patrimonio personale, sulla guerra ai magistrati che lo stanno processando e sui «lodi» che lo ibernano, Silvio Berlusconi tiene l'Italia in uno stato di eccitazione sentimentale, una specie di infiammazione uterina che ci riguarda tutti, sostenitori e oppositori.
Ed è un'ossessione che, comunque vada a finire l'avventura, diventerà materia di studio politologico per la posterità. Da un lato bisognerà decifrare infatti la passione assatanata di questa maggioranza che si comporta come personale di servizio, dove tutti si azzuffano su tutto, ma poi come le api e come le mosche tutti vengono risucchiati sull'essudato.
Dall'altro lato ogni volta che la maggioranza si compatta sulla pastura del biscione, nell’opposizione scatta subito l'intransigenza etica, dettata da codici lontani, ma nessuno sa mettere le mani nel pasto. E nessuno, nell’opposizione, sa modificare la ricetta, ridosare gli ingredienti in maniera più o meno surrettizia, entrista o troskista, di lotta e di governo. E difatti il presidente della Rai Lucia Annunziata promette le dimissioni, e a piazza Navona si gira in tondo, nelle feste dell' Unità si fanno spettacoli incandescenti, e i comici si candidano a leader della politica della risata e degli sfottò dove, come tutti capiscono, deriso e derisori sono sostanzialmente solidali. Al punto che il più intransigente degli oppositori, Nando Dalla Chiesa, è diventato, in teatro, il più fedele e il più applaudito imitatore di Berlusconi. Insomma non potendolo sfidare lo si ridicolizza amabilmente, come facevamo a scuola con l'odiato professore al quale riconoscevamo il monopolio del sapere, e lo sfottò era dunque l'unica licenza, l'estremo rifugio perché nessuno poteva contestargli l'abilità professionale, lui solo sapeva che l'aoristo di lambano era elabon , e la metrica di Virgilio e di Seneca, e l'esametro dattilico, una lunga e due brevi...
Ebbene, come quel professore deteneva il monopolio del sapere così Berlusconi detiene l'iniziativa della politica italiana. E' infatti il solo che riesce a compattare e a mantenere uniti sia i secchioni e sia le birbe, la maggioranza dei diligenti e la minoranza dei monelli, ad assicurare insomma la disciplina in classe.
Perciò alla fine ha ragione la Cucinotta, non meraviglia tanto il cavaliere: qui il problema sono i 474 cavalli della maggioranza ridotti a ronzini da un solo cavaliere. Silvio Berlusconi, per la verità, sa anche governarli con leggerezza questi suoi cavalli, lascia che scalpitino sulle pensioni o sull'immigrazione, permette a Fini di dare dell'arrogante a Tremonti, concede a Bossi di insolentire chi gli pare, e a Follini ha assegnato il ruolo più elegante, quello della discrezione al galoppo.
La settimana scorsa, ricordate?, Berlusconi l'ha pure detto che i suoi cavalli «devono sfogarsi» ed è andato a comprarsi la villa di Zeffirelli a Positano: «Tanto, senza di me si suiciderebbero». Berlusconi del resto era stato molto liberale pure sulle quote latte, e aveva persino permesso ad An di votare con i comunisti di Rifondazione per bloccare la vendita dei beni immobili dello Stato. Sulla grazia a Sofri poi, tutti si sono ricordati di essere cavalli, e si sono persino imbizzarriti. Ma sulle televisioni no. Su tutti gli affari del presidente del Consiglio, imprenditore interessato, vale lo slogan della Cucinotta e il Parlamento diventa il bivacco di un solo cavaliere.
Davvero dunque la giornata di martedì scorso è la giornata simbolo dell'infelicità di questa Italia che deve scegliere tra i ronzini e i goliardi. Nulla di più lontano dalla tradizione e della storia del Paese, fosse pure la più controversa, fosse pure la più cortigiana. Si sa, per esempio, che Fanfani dipingeva e magari teneva ai suoi quadri più che ai suoi progetti politici. Ma non ha mai creato il partito delle tele, non ha ridotto la Dc a un'accozzaglia di adulatori né il Parlamento ha mai legiferato per dare a Fanfani il monopolio della pittura.
No, la strada sulla quale Berlusconi sta portando i suoi ronzini potrebbe presto diventare senza via d'uscita: presto, molto presto, quando la legge Gasparri sul riordino televisivo e la legge Frattini sul conflitto di interessi verranno definitivamente approvate. Svanirà così la possibilità che il presidente del Consiglio si liberi completamente del suo dominio televisivo e smonti da cavallo, che è l’unica soluzione, proprio l’unica, per fare di quella stalla un'aula parlamentare.
MANIFESTO 24-7
Il pericolo
VALENTINO PARLATO
Nell'editoriale di ieri scrivevamo allusivamente di «colpi di estate», per non parlare esplicitamente di «colpi di stato». L'approvazione delle due leggi, la Gasparri (che dà al Cavaliere tutto il potere mediatico, che oggi vale più della scuola, che ormai non è più pubblica) e quella sul conflitto di interesse, che dà spazio libero alla concezione patrimoniale dello stato (Giuliano Ferrara ci ha spiegato che il Cavaliere non fa più differenza tra il suo privato e il suo pubblico) sono se non proprio due colpi di stato, almeno due colpi contro lo stato di diritto. Roba molto più importante e pesante che non la Cirami o il falso in bilancio. Due colpi di stato di un governo estremamente debole, non più in grado di minacciare elezioni anticipate. Mai la maggioranza è stata così rissosa e precaria come in queste settimane. Ma, la storia ci insegna, che le maggioranze populistiche e autoritarie sono massimamente pericolose quando sono deboli: l'Italia è molto cambiata, ma non si può non ricordare che Mussolini passò alle leggi speciali dopo la sua crisi successiva al delitto Matteotti: Mussolini allora tacque per un bel po' come ora Berlusconi. La situazione è assai diversa ma l'analogia può aiutare a capire il presente.
Una volta, quando c'era ancora una forte coincidenza tra politica e società, si diceva «vigilanza». E' una parola che dovremmo ripetere, specie oggi quando il mondo del lavoro non ha più una dichiarata rappresentanza politica e maggioranza e opposizione sono entrambi polarizzate dalla ricerca del centro, cioè di una medietà che rischia di omologarle, tanto che molti disertano il voto.
A rendere più aspra la situazione c'è la prospettiva, ma già presente, un conflitto istituzionale tra governo e presidenza della Repubblica, tra Palazzo Chigi e Quirinale. Questo giornale ha criticato e critica la prudenza del Quirinale, il suo tentativo di salvare capre e cavoli. Ma il conflitto è già palese, dal caso Sofri alla Gasparri ed è (a mio parere e nelle mie speranze) a un punto di positiva esplicitazione. E' il conflitto tra lo stato di diritto e la dittatura della maggioranza. Ma anche questo conflitto, necessario e positivo, aggrava i pericoli per la democrazia, che non può affidarsi solo alle garanzie istituzionali, alla fiducia nel re come nel nostro passato.
Questo agosto non lo possiamo passare in una aventiniana vacanza. A settembre avremo un Cavaliere che benché zoppicante non potrà eludere come nel Dpef quelle riforme ammazza cristiani, alle quali lo esortano il Corriere della Sera e la Confindustria. Non solo le pensioni, ma anche le riforme costituzionali, presidenzialismo, magistratura (l'attacco a Colombo e Boccasini non ci dice niente?) e sempre la precarizzazione e frammentazione del mondo del lavoro. In questa situazione le opposizioni si comportano come se non sentissero il pericolo, sembrano sicure che la pera di Berlusconi cadrà da sola dall'albero: una pericolosissima sottovalutazione dell'avversario, che proprio perché in grave difficoltà le tenterà tutte.
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L’UNITA’ on-line 24-7
BANNER
Come si uccide la democrazia. «“Finalmente”, spiega soddisfatto Previti. “Una bomba”, sottolinea Fabrizio Cicchitto. “Era ora”, commenta il presidente del Consiglio. La notizia è che i Pm Boccassini e Colombo sono indagati».
A. Minzolini, La Stampa, 23 luglio
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MANIFESTO 24-7
BRESCIA
Il comitato dei «giusti»
Si definiscono un'associazione trasversale, senza fini politici, un pezzo di società civile che vuole battersi per riportare la legalità nell' ordinamento giudiziario ma il meno che si possa dire di loro è che sono un incrocio tra una succursale di Forza Italia e un'anticamera dello studio di Cesare Previti. Stiamo parlando, naturalmente del candido, comitato per la giustizia che si è presentato alla procura di Brescia per denunciare Ilda Boccassini e Gherardo Colombo di abuso d'ufficio. Chi sono i signori che compongono il comitato? E' presto detto. Il presidente dell' associazione, l' avvocato Giacomo Borrione è il responsabile giustizia di Forza Italia in Umbria e secondo qualcuno un simpatizzante della massoneria. Con una faccia tosta degna del suo presidente di palazzo Chigi, Borrione ha detto alla stampa che quella del comitato è una «denuncia al di fuori di qualsiasi logica politica», giurando e spergiurando che non c'è nulla contro i magistrati di Milano. Il segretario del comitato, Gianfranco Sassi, ex magistrato della procura circondariale di Perugia, dove Cesare Previti avrebbe voluto essere processato, è un vecchio amico di Marcello Dell'Utri, che come è noto con Berlusconi e con la politica non c'entra nulla. Entrambi hanno spiegato che l' esposto è nato come «una riflessione spontanea» all' interno del direttivo del comitato «dopo le tante notizie apparse sulla stampa» in merito al fascicolo 9520. Un altro «apolitico», esponente del comitato è Giancarlo Lehner, autore di libri contro «mani pulite» e l' ex procuratore Francesco Pintus, amico di Cesare Previti.
Il pericolo
VALENTINO PARLATO
Nell'editoriale di ieri scrivevamo allusivamente di «colpi di estate», per non parlare esplicitamente di «colpi di stato». L'approvazione delle due leggi, la Gasparri (che dà al Cavaliere tutto il potere mediatico, che oggi vale più della scuola, che ormai non è più pubblica) e quella sul conflitto di interesse, che dà spazio libero alla concezione patrimoniale dello stato (Giuliano Ferrara ci ha spiegato che il Cavaliere non fa più differenza tra il suo privato e il suo pubblico) sono se non proprio due colpi di stato, almeno due colpi contro lo stato di diritto. Roba molto più importante e pesante che non la Cirami o il falso in bilancio. Due colpi di stato di un governo estremamente debole, non più in grado di minacciare elezioni anticipate. Mai la maggioranza è stata così rissosa e precaria come in queste settimane. Ma, la storia ci insegna, che le maggioranze populistiche e autoritarie sono massimamente pericolose quando sono deboli: l'Italia è molto cambiata, ma non si può non ricordare che Mussolini passò alle leggi speciali dopo la sua crisi successiva al delitto Matteotti: Mussolini allora tacque per un bel po' come ora Berlusconi. La situazione è assai diversa ma l'analogia può aiutare a capire il presente.
Una volta, quando c'era ancora una forte coincidenza tra politica e società, si diceva «vigilanza». E' una parola che dovremmo ripetere, specie oggi quando il mondo del lavoro non ha più una dichiarata rappresentanza politica e maggioranza e opposizione sono entrambi polarizzate dalla ricerca del centro, cioè di una medietà che rischia di omologarle, tanto che molti disertano il voto.
A rendere più aspra la situazione c'è la prospettiva, ma già presente, un conflitto istituzionale tra governo e presidenza della Repubblica, tra Palazzo Chigi e Quirinale. Questo giornale ha criticato e critica la prudenza del Quirinale, il suo tentativo di salvare capre e cavoli. Ma il conflitto è già palese, dal caso Sofri alla Gasparri ed è (a mio parere e nelle mie speranze) a un punto di positiva esplicitazione. E' il conflitto tra lo stato di diritto e la dittatura della maggioranza. Ma anche questo conflitto, necessario e positivo, aggrava i pericoli per la democrazia, che non può affidarsi solo alle garanzie istituzionali, alla fiducia nel re come nel nostro passato.
Questo agosto non lo possiamo passare in una aventiniana vacanza. A settembre avremo un Cavaliere che benché zoppicante non potrà eludere come nel Dpef quelle riforme ammazza cristiani, alle quali lo esortano il Corriere della Sera e la Confindustria. Non solo le pensioni, ma anche le riforme costituzionali, presidenzialismo, magistratura (l'attacco a Colombo e Boccasini non ci dice niente?) e sempre la precarizzazione e frammentazione del mondo del lavoro. In questa situazione le opposizioni si comportano come se non sentissero il pericolo, sembrano sicure che la pera di Berlusconi cadrà da sola dall'albero: una pericolosissima sottovalutazione dell'avversario, che proprio perché in grave difficoltà le tenterà tutte.
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L’UNITA’ on-line 24-7
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Come si uccide la democrazia. «“Finalmente”, spiega soddisfatto Previti. “Una bomba”, sottolinea Fabrizio Cicchitto. “Era ora”, commenta il presidente del Consiglio. La notizia è che i Pm Boccassini e Colombo sono indagati».
A. Minzolini, La Stampa, 23 luglio
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MANIFESTO 24-7
BRESCIA
Il comitato dei «giusti»
Si definiscono un'associazione trasversale, senza fini politici, un pezzo di società civile che vuole battersi per riportare la legalità nell' ordinamento giudiziario ma il meno che si possa dire di loro è che sono un incrocio tra una succursale di Forza Italia e un'anticamera dello studio di Cesare Previti. Stiamo parlando, naturalmente del candido, comitato per la giustizia che si è presentato alla procura di Brescia per denunciare Ilda Boccassini e Gherardo Colombo di abuso d'ufficio. Chi sono i signori che compongono il comitato? E' presto detto. Il presidente dell' associazione, l' avvocato Giacomo Borrione è il responsabile giustizia di Forza Italia in Umbria e secondo qualcuno un simpatizzante della massoneria. Con una faccia tosta degna del suo presidente di palazzo Chigi, Borrione ha detto alla stampa che quella del comitato è una «denuncia al di fuori di qualsiasi logica politica», giurando e spergiurando che non c'è nulla contro i magistrati di Milano. Il segretario del comitato, Gianfranco Sassi, ex magistrato della procura circondariale di Perugia, dove Cesare Previti avrebbe voluto essere processato, è un vecchio amico di Marcello Dell'Utri, che come è noto con Berlusconi e con la politica non c'entra nulla. Entrambi hanno spiegato che l' esposto è nato come «una riflessione spontanea» all' interno del direttivo del comitato «dopo le tante notizie apparse sulla stampa» in merito al fascicolo 9520. Un altro «apolitico», esponente del comitato è Giancarlo Lehner, autore di libri contro «mani pulite» e l' ex procuratore Francesco Pintus, amico di Cesare Previti.
MANIFESTO 23-7
Leggi speciali
Portano entrambe il nome del padrone, Silvio Berlusconi
ROBERTA CARLINI
Due colpi in un solo giorno. Divisa su tutto, pronta a tirar fuori i coltelli a ogni passo, l'adunata della destra che governa ha trovato miracolosamente la concordia su due leggi speciali. Portano entrambe il nome del padrone, Silvio Berlusconi. La prima - approvata alla camera, deve ancora rimbalzare al senato - dice che la «mera proprietà» non fa problema e dunque risolve il conflitto di interessi tra il magnate editoriale e il presidente del consiglio semplicemente negandolo; la seconda - approvata al senato, deve rimbalzare alla camera - dice di conseguenza che la mera proprietà del presidente del consiglio attuale va tutelata, sottratta agli obblighi di legge e alle sentenze della Corte costituzionale, arricchita di ulteriori possibilità di espansione e guadagno. La prima è una legge di principio che nega un principio finora riconosciuto nelle democrazie capitalistiche (forse anticipando i tempi, tra un po' alla presidenza degli Stati uniti potrebbe andare un magnate dell'industria petrolifera invece che un politico da questa foraggiato); la seconda è una legge di sostanza che regala al gruppo Mediaset qualcosa come 1.500 miliardi di vecchie lire. Di cosa ci meravigliamo, contro cosa ancora protestiamo? Non è questo - il trionfo dell'intreccio tra politica e affari, il riconoscimento supremo della politica come affare - il succo del berlusconismo, il motivo per cui ha vinto, è stato premiato, trionfa? Abbiamo veramente sperato che un capriccio di Bossi o un malessere di Fini mettessero in crisi anche i capisaldi di quest'alleanza di governo, i soldi e il potere? E che alla debole opposizione parlamentare bastasse aspettare con pazienza, questionando nel frattempo su liste uniche e leadership?
No, non lo abbiamo mai veramente sperato. La resistenza e l'opposizione a questi «colpi d'estate» (definizione coniata dal nostro giornale appena un anno fa a proposito di un'altra legge speciale, la Cirami) non troveranno appigli o aiuti all'interno di quel patto di potere e soldi. I campioni leghisti stanno zitti, un gerarca di An firma la legge Mediaset, i moderati centristi colgono l'occasione per ricontrattare la loro presenza nella Rai. Stanno zitti anche i fantastici paladini del mercato e della concorrenza, i confindustriali che chiedono riforme e incassano privilegi e mani libere, la grande stampa del nord e i salotti buoni. Il quotidiano della Confindustria arriva a nascondere l'opinione del capo dei grandi editori, che certo non può accettare lo strapotere di uno a scapito di tutti gli altri.
Cosa resta? Resta l'altra metà - forse molto di più - del paese, quelli che non hanno votato per la Casa delle libertà e quelli che l'hanno votata non pensando di staccare un assegno in bianco. E resta quel minimo di tutele istituzionali allo strapotere di chi vince: il presidente della repubblica che sarà chiamato a firmare quella legge che dice l'esatto contrario di quanto da lui stesso comunicato solennemente alle camere esattamente un anno fa, e poi (se Ciampi digerirà anche questa) la Corte costituzionale. A occhio, punteremmo molto più sui primi (l'altra metà, forse più, del paese) che sui secondi (Quirinale, Consulta). La libertà di informazione - di questo si parla sotto l'astrusa sigla di Sic, Sistema integrato delle comunicazioni, inventata da Gasparri per alzare i limiti antitrust per le aziende del suo capo - è un bene comune, nostro. Ne sanno qualcosa i lettori di questo giornale, che tante volte hanno sborsato di tasca propria per tenersi una piccola proprietà comune. Ma ne sanno qualcosa anche tanti altri che cercano scampo dalla propaganda unificata che ci propinano le reti televisive, da un'industria culturale che taglia e censura il nuovo, da una stupidità di massa che non meritiamo. No, non ce li meritiamo. E la «mera proprietà», che si chiami Mediaset, rai, Publitalia o altro, non può bastare a perpetuarne il potere.
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CENTOMOVIMENTI-NEWS 23-7
EDITORIALE
Facce di bronzo piangono
di Massimo Del Papa
Dunque, vediamo di capire. Nello stesso giorno una delle due Camere approva una legge che rende istituzionale il conflitto d’interessi, l’impero televisivo fuorilegge ovunque altrove del presidente del Consiglio; contemporaneamente l’altra Camera approva una legge che permette all’impero catodico del presidente del Consiglio, già strabordante e cresciuto nel buco nero delle leggi (smettiamola con la frottola dell’”imprenditore geniale”: nessuno mai ha avuto tali e tanti appoggi politico-finanziari oltre l’umana comprensione, e ciò malgrado senza “i comunisti” al governo sarebbe sprofondato nei debiti), di crescere ancora e senza limiti, fino a inglobare ciò che resta dell’ex “concorrente” pubblica, già opportunamente disfatta; mentre un manipolo di sedicenti sostenitori per la Giustizia, più esattamente sicofanti a marchetta, dà seguito alle rappresaglie del guardasigilli di famiglia contro la magistratura presentando un esposto per farla pagare ai due magistrati che stanno processando il presidente del Consiglio, qualche suo impresentabile sgherro e alcuni giudici comperati al mercato.
C’è ancora qualcuno che ha difficoltà a parlare di regime? Diciamo qualcuno serio, con una coscienza e una dignità, non la sinistra parassitaria che pratica l’opposizione E.R., di pronto intervento per il padrone e per megafono ha il Riformista o il Riformato dietro il quale sta D’Alema che è una vita che lavora per il re di Prussia ovvero di Arcore.
Mentre stanno realizzando la fusione dell’antistato berlusconiano con lo Stato, quanto a dire il vero e unico programma della Casa delle Libertà, il capo ha la delicatezza di non farsi trovare, va all’estero da uno più capo di lui per dirgli servilmente che lui, a nome dell’Italia o viceversa, sarà sempre a sua disposizione qualunque cosa accada. Altre guerre, altre prove false con cui provocarle, veicolate da qualche giornale del padrone d’Italia che non dispiace alla sinistra parassitaria cui la parola regime resta nel gozzo. Fanno pena, e anche incazzare le facce di bronzo dell’opposizione E.R. mentre si stracciano le vesti ora che il regime regola a modo suo il conflitto d’interessi che loro non hanno mai risolto, quando denunciano la strapotenza inarginabile delle televisioni dell’imperatore che per anni hanno riempito dei loro birignao, dei loro sproloqui da padroni di casa perfettamente funzionali al regime che adesso li travolge, li cancella.
Incolpare Berlusconi di essere Berlusconi sarà anche inutile quanto incolpare uno squalo di essere uno squalo. Ma incolpare la sinistra parassitaria di quanto Berlusconi sta provvedendo a fare, a partire dal consolidamento del suo impero pubblico-privato, viceversa ha perfettamente senso. Un senso perfino imbarazzante tanto è evidente la responsabilità dei suoi disponibili oppositori.
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REPUBBLICA on-line 23-7
Uno strappo alla democrazia che Ciampi non può firmare
Un favore a Mediaset e agli interessi personali del Cavaliere.
di MASSIMO GIANNINI
"La garanzia del pluralismo e dell'imparzialità dell'informazione costituisce strumento essenziale per la realizzazione di una democrazia compiuta... Il principio fondamentale del pluralismo è sancito dalla Costituzione e dalle norme dell'Unione Europea... E' necessaria l'emanazione di una legge di sistema, intesa a regolare l'intera materia delle informazioni, delle radiotelediffusioni, dell'editoria di giornali e periodici...". Il 23 luglio 2002, il Presidente della Repubblica dettava così il suo primo ed unico messaggio trasmesso al Parlamento. Oggi, a un anno esatto da quel passo solenne, è arrivata la "risposta" del governo Berlusconi. La riforma Gasparri è stata approvata dal Senato, e ora passa all'esame della Camera per il varo definitivo. In teoria è la nuova "legge di sistema" invocata dal Quirinale. In pratica è uno schiaffo in faccia a Ciampi e alla Costituzione. Uno sberleffo alle sentenze della Consulta e alle direttive della Ue. Un favore a Mediaset e agli interessi personali del Cavaliere. Un danno alla concorrenza e agli interessi generali della collettività.
Stavolta, e almeno fino a questo momento, non sono bastati i segnali lanciati dal Colle e la "moral suasion" tentata in prima persona dal Capo dello Stato. Le televisioni sono il "core business" del potere berlusconiano. Contano quanto, se non più degli affari giudiziari del premier. La Gasparri esce da Palazzo Madama molto peggio di come c'è entrata. Se non cambierà a Montecitorio, Ciampi non firmerà un testo che, a questo punto, si può considerare davvero come la quinta "legge vergogna" della legislatura. Dopo le rogatorie, il falso in bilancio, la Cirami e il Lodo Schifani. La nuova legge blinda e perpetua la potenza di fuoco mediatico del Cavaliere, che conserva il controllo del servizio pubblico televisivo, mantiene la proprietà delle sue tre reti private e in prospettiva può allungare le mani sulla carta stampata. La nuova legge immanentizza il conflitto di interessi, e lo rende consustanziale al "virus videocratico" che Berlusconi sta inoculando nella nostra democrazia.
Ciampi non firmerà, perché non può sconfessare se stesso, e rinnegare l'atto formale più impegnativo di questa sua prima metà di settennato. Nel suo messaggio alle Camere, ha sollecitato l'immediato recupero dei principi costituzionali del "pluralismo, l'obiettività, la completezza e l'imparzialità dell'informazione". Ha richiamato almeno tre sentenze fondamentali della Corte costituzionale, sistematicamente ignorate dal legislatore e ora allegramente aggirate dalla Gasparri.
La prima sentenza, la 536 del 1988, aveva precisato che il pluralismo "non potrebbe in ogni caso considerarsi realizzato dal concorso tra un polo pubblico e un polo privato". Al "duopolio imperfetto" oggi dominante, governi e Parlamenti non hanno voluto o potuto porre un rimedio. Né la legge Mammì del 1990, né la legge Maccanico del 1997. La seconda sentenza, la 420 del 1994, aveva richiamato "il vincolo, imposto dalla Costituzione, di assicurare il pluralismo delle voci, espressione della libera manifestazione del pensiero, e di garantire il fondamentale diritto del cittadino all'informazione": quella pronuncia aveva dichiarato incostituzionale il limite del 25% (pari a tre reti televisive) che la Mammì aveva previsto come massimo consentito a ciascun concessionario, con la motivazione che "non garantisce la libertà e il pluralismo informativo e culturale". La terza e ultima sentenza, la 155 del 2002, aveva implicitamente confermato l'illegittimità della posizione degli operatori televisivi che possiedono più di due reti su scala nazionale. Ed aveva esplicitamente ribadito "l'imperativo costituzionale" secondo cui "il diritto di informazione garantito dall'articolo 21 della Costituzione deve essere qualificato e caratterizzato, tra l'altro, sia dal pluralismo delle fonti cui attingere conoscenze e notizie... sia dall'obiettività e dall'imparzialità dei dati forniti, sia infine dalla completezza, dalla correttezza e dalla continuità dell'attività di informazione erogata".
Nel suo messaggio, Ciampi ha giudicato questa sentenza, "particolarmente significativa là dove pone in rilievo che la sola presenza dell'emittenza privata (cosiddetto 'pluralismo esterno') non è sufficiente a garantire la completezza e l'obiettività della comunicazione politica, ove non concorrano ulteriori misure sostanzialmente ispirate al principio della parità di accesso delle forze politiche (cosiddetto 'pluralismo interno')".
A queste tre sentenze citate nel messaggio se n'è aggiunta pochi mesi dopo una quarta, la 466 del 20 novembre 2002. Evidenziava un ulteriore impoverimento del pluralismo: "Dalla previsione di 12 reti nazionali (di cui 9 private) si è passati a 11 reti (8 private), e ciò non garantisce l'attuazione del principio del pluralismo informativo esterno". Stabiliva che il regime transitorio (quello che ha permesso a Berlusconi di possedere tre reti private in tutti questi anni) "non può eccedere il termine del 31 dicembre 2003". Entro questa data, Mediaset deve vendere Retequattro, o trasferirla su satellite.
Ciampi non firmerà, perché non può non vedere quanto sia stata disattesa, nella prassi e nella legislazione, la richiesta espressa che lui stesso ha indirizzato alle Camere, invocando "una legge di sistema" nel settore dell'informazione, indicando persino i principi fondamentali che la devono caratterizzare: "Il pluralismo e l'imparzialità dell'informazione, così come lo spazio da riservare nei mezzi di comunicazione alla dialettica delle opinioni, sono fattori indispensabili di bilanciamento dei diritti della maggioranza e dell'opposizione: questo tanto più in un sistema come quello italiano, passato dopo mezzo secolo di rappresentanza proporzionale alla scelta maggioritaria...".
Di tutto quello che il Colle ha seminato un anno fa, il governo non raccoglie nulla nella riforma Gasparri. Come era stato annunciato dal ministro per le Comunicazioni, i vincoli antitrust introdotti dalla Camera sono stati puntualmente cancellati dal Senato. L'aula di Palazzo Madama ha reintrodotto un generico "divieto di cumulo dei programmi televisivi e radiofonici", in base al quale uno stesso concessionario "non può essere titolare di autorizzazioni che consentano di diffondere più del 20% dei programmi televisivi", né può avere ricavi superiori al 20%, calcolati secondo le "risorse complessive del Settore integrato delle comunicazioni". Il famigerato "Sic", un parametro volutamente vago e inafferrabile, al quale è impossibile ancorare paletti contro i monopoli. Al Senato Franco Debenedetti ha azzardato un'ipotesi quantitativa: il "Sic" varrebbe intorno ai 23 miliardi 387 milioni di euro. Uno sproposito, che rende pressoché irraggiungibile il tetto del 20%. Ma l'artificio consente al Cavaliere di eludere l'obbligo che da dieci anni gli rinnovano inutilmente leggi e sentenze: vendere Retequattro, o trasferirla sul satellite. A scanso di equivoci, la Gasparri approvata ieri ha previsto un salvacondotto in più. Un emendamento del relatore Luigi Grillo, ovviamente di Forza Italia, fa un ulteriore regalo alle reti che alla fine del 2004 copriranno almeno il 50% della popolazione con il sistema digitale: potranno ottenere una nuova concessione con il sistema analogico. Un altro trucco, che evita definitivamente a Emilio Fede il fastidio di doversi trasferire sul satellite.
Non resta molto altro, di questa "epocale riforma" televisiva. Nell'attesa palingenetica dell'era digitale, istituzionalizzerà una volta di più quella che un grande costituzionalista come Gaetano Azzariti ha definito la "temporaneità perpetua" del sistema televisivo: tra costanti rinvii e continue proroghe, il "regime transitorio" è diventato l'escamotage giuridico che serve a rendere definitivi gli squilibri esistenti. Nell'attesa di una chimerica privatizzazione della Rai (per la quale non si fissa neanche una data) non impedirà che si producano gli errori e gli orrori cui abbiamo assistito guardando i telegiornali in questi ultimi due anni: dal Televideo che occulta i dati Istat sul crollo della produzione industriale al Tg1 che censura gli insulti di Berlusconi a Schulz davanti all'Europarlamento di Strasburgo.
Ciampi non firmerà un testo che peggiora la qualità della nostra democrazia. Nella letteratura politica, gli studi di Larry Diamond e Marc Plattner misurano la democrazia di un Paese partendo dalla suddivisione tra "democrazie elettorali e democrazie liberali". Nelle prime, il criterio minimo di base è lo svolgimento di regolari elezioni tra partiti antagonisti. Nelle seconde si richiedono altri quattro criteri, assai più stringenti: il rispetto delle libertà civili (di fede, di espressione, di protesta), la certezza del diritto e la parità di trattamento di tutti i cittadini davanti alla legge, una magistratura indipendente e neutrale, e infine la garanzia di una società civile aperta e pluralista, di cui è parte integrante la libertà dei mass-media. L'Italia non è "un regime", non rischia derive dittatoriali. Ma dopo due anni di cura Berlusconi, si può dire che il nostro Paese è fuori dal secondo, dal terzo e dal quarto criterio di questa virtuale "Maastricht della democrazia". A un anno dal suo messaggio sul pluralismo, Ciampi non può esserne contento. Noi meno di lui.
Leggi speciali
Portano entrambe il nome del padrone, Silvio Berlusconi
ROBERTA CARLINI
Due colpi in un solo giorno. Divisa su tutto, pronta a tirar fuori i coltelli a ogni passo, l'adunata della destra che governa ha trovato miracolosamente la concordia su due leggi speciali. Portano entrambe il nome del padrone, Silvio Berlusconi. La prima - approvata alla camera, deve ancora rimbalzare al senato - dice che la «mera proprietà» non fa problema e dunque risolve il conflitto di interessi tra il magnate editoriale e il presidente del consiglio semplicemente negandolo; la seconda - approvata al senato, deve rimbalzare alla camera - dice di conseguenza che la mera proprietà del presidente del consiglio attuale va tutelata, sottratta agli obblighi di legge e alle sentenze della Corte costituzionale, arricchita di ulteriori possibilità di espansione e guadagno. La prima è una legge di principio che nega un principio finora riconosciuto nelle democrazie capitalistiche (forse anticipando i tempi, tra un po' alla presidenza degli Stati uniti potrebbe andare un magnate dell'industria petrolifera invece che un politico da questa foraggiato); la seconda è una legge di sostanza che regala al gruppo Mediaset qualcosa come 1.500 miliardi di vecchie lire. Di cosa ci meravigliamo, contro cosa ancora protestiamo? Non è questo - il trionfo dell'intreccio tra politica e affari, il riconoscimento supremo della politica come affare - il succo del berlusconismo, il motivo per cui ha vinto, è stato premiato, trionfa? Abbiamo veramente sperato che un capriccio di Bossi o un malessere di Fini mettessero in crisi anche i capisaldi di quest'alleanza di governo, i soldi e il potere? E che alla debole opposizione parlamentare bastasse aspettare con pazienza, questionando nel frattempo su liste uniche e leadership?
No, non lo abbiamo mai veramente sperato. La resistenza e l'opposizione a questi «colpi d'estate» (definizione coniata dal nostro giornale appena un anno fa a proposito di un'altra legge speciale, la Cirami) non troveranno appigli o aiuti all'interno di quel patto di potere e soldi. I campioni leghisti stanno zitti, un gerarca di An firma la legge Mediaset, i moderati centristi colgono l'occasione per ricontrattare la loro presenza nella Rai. Stanno zitti anche i fantastici paladini del mercato e della concorrenza, i confindustriali che chiedono riforme e incassano privilegi e mani libere, la grande stampa del nord e i salotti buoni. Il quotidiano della Confindustria arriva a nascondere l'opinione del capo dei grandi editori, che certo non può accettare lo strapotere di uno a scapito di tutti gli altri.
Cosa resta? Resta l'altra metà - forse molto di più - del paese, quelli che non hanno votato per la Casa delle libertà e quelli che l'hanno votata non pensando di staccare un assegno in bianco. E resta quel minimo di tutele istituzionali allo strapotere di chi vince: il presidente della repubblica che sarà chiamato a firmare quella legge che dice l'esatto contrario di quanto da lui stesso comunicato solennemente alle camere esattamente un anno fa, e poi (se Ciampi digerirà anche questa) la Corte costituzionale. A occhio, punteremmo molto più sui primi (l'altra metà, forse più, del paese) che sui secondi (Quirinale, Consulta). La libertà di informazione - di questo si parla sotto l'astrusa sigla di Sic, Sistema integrato delle comunicazioni, inventata da Gasparri per alzare i limiti antitrust per le aziende del suo capo - è un bene comune, nostro. Ne sanno qualcosa i lettori di questo giornale, che tante volte hanno sborsato di tasca propria per tenersi una piccola proprietà comune. Ma ne sanno qualcosa anche tanti altri che cercano scampo dalla propaganda unificata che ci propinano le reti televisive, da un'industria culturale che taglia e censura il nuovo, da una stupidità di massa che non meritiamo. No, non ce li meritiamo. E la «mera proprietà», che si chiami Mediaset, rai, Publitalia o altro, non può bastare a perpetuarne il potere.
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CENTOMOVIMENTI-NEWS 23-7
EDITORIALE
Facce di bronzo piangono
di Massimo Del Papa
Dunque, vediamo di capire. Nello stesso giorno una delle due Camere approva una legge che rende istituzionale il conflitto d’interessi, l’impero televisivo fuorilegge ovunque altrove del presidente del Consiglio; contemporaneamente l’altra Camera approva una legge che permette all’impero catodico del presidente del Consiglio, già strabordante e cresciuto nel buco nero delle leggi (smettiamola con la frottola dell’”imprenditore geniale”: nessuno mai ha avuto tali e tanti appoggi politico-finanziari oltre l’umana comprensione, e ciò malgrado senza “i comunisti” al governo sarebbe sprofondato nei debiti), di crescere ancora e senza limiti, fino a inglobare ciò che resta dell’ex “concorrente” pubblica, già opportunamente disfatta; mentre un manipolo di sedicenti sostenitori per la Giustizia, più esattamente sicofanti a marchetta, dà seguito alle rappresaglie del guardasigilli di famiglia contro la magistratura presentando un esposto per farla pagare ai due magistrati che stanno processando il presidente del Consiglio, qualche suo impresentabile sgherro e alcuni giudici comperati al mercato.
C’è ancora qualcuno che ha difficoltà a parlare di regime? Diciamo qualcuno serio, con una coscienza e una dignità, non la sinistra parassitaria che pratica l’opposizione E.R., di pronto intervento per il padrone e per megafono ha il Riformista o il Riformato dietro il quale sta D’Alema che è una vita che lavora per il re di Prussia ovvero di Arcore.
Mentre stanno realizzando la fusione dell’antistato berlusconiano con lo Stato, quanto a dire il vero e unico programma della Casa delle Libertà, il capo ha la delicatezza di non farsi trovare, va all’estero da uno più capo di lui per dirgli servilmente che lui, a nome dell’Italia o viceversa, sarà sempre a sua disposizione qualunque cosa accada. Altre guerre, altre prove false con cui provocarle, veicolate da qualche giornale del padrone d’Italia che non dispiace alla sinistra parassitaria cui la parola regime resta nel gozzo. Fanno pena, e anche incazzare le facce di bronzo dell’opposizione E.R. mentre si stracciano le vesti ora che il regime regola a modo suo il conflitto d’interessi che loro non hanno mai risolto, quando denunciano la strapotenza inarginabile delle televisioni dell’imperatore che per anni hanno riempito dei loro birignao, dei loro sproloqui da padroni di casa perfettamente funzionali al regime che adesso li travolge, li cancella.
Incolpare Berlusconi di essere Berlusconi sarà anche inutile quanto incolpare uno squalo di essere uno squalo. Ma incolpare la sinistra parassitaria di quanto Berlusconi sta provvedendo a fare, a partire dal consolidamento del suo impero pubblico-privato, viceversa ha perfettamente senso. Un senso perfino imbarazzante tanto è evidente la responsabilità dei suoi disponibili oppositori.
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REPUBBLICA on-line 23-7
Uno strappo alla democrazia che Ciampi non può firmare
Un favore a Mediaset e agli interessi personali del Cavaliere.
di MASSIMO GIANNINI
"La garanzia del pluralismo e dell'imparzialità dell'informazione costituisce strumento essenziale per la realizzazione di una democrazia compiuta... Il principio fondamentale del pluralismo è sancito dalla Costituzione e dalle norme dell'Unione Europea... E' necessaria l'emanazione di una legge di sistema, intesa a regolare l'intera materia delle informazioni, delle radiotelediffusioni, dell'editoria di giornali e periodici...". Il 23 luglio 2002, il Presidente della Repubblica dettava così il suo primo ed unico messaggio trasmesso al Parlamento. Oggi, a un anno esatto da quel passo solenne, è arrivata la "risposta" del governo Berlusconi. La riforma Gasparri è stata approvata dal Senato, e ora passa all'esame della Camera per il varo definitivo. In teoria è la nuova "legge di sistema" invocata dal Quirinale. In pratica è uno schiaffo in faccia a Ciampi e alla Costituzione. Uno sberleffo alle sentenze della Consulta e alle direttive della Ue. Un favore a Mediaset e agli interessi personali del Cavaliere. Un danno alla concorrenza e agli interessi generali della collettività.
Stavolta, e almeno fino a questo momento, non sono bastati i segnali lanciati dal Colle e la "moral suasion" tentata in prima persona dal Capo dello Stato. Le televisioni sono il "core business" del potere berlusconiano. Contano quanto, se non più degli affari giudiziari del premier. La Gasparri esce da Palazzo Madama molto peggio di come c'è entrata. Se non cambierà a Montecitorio, Ciampi non firmerà un testo che, a questo punto, si può considerare davvero come la quinta "legge vergogna" della legislatura. Dopo le rogatorie, il falso in bilancio, la Cirami e il Lodo Schifani. La nuova legge blinda e perpetua la potenza di fuoco mediatico del Cavaliere, che conserva il controllo del servizio pubblico televisivo, mantiene la proprietà delle sue tre reti private e in prospettiva può allungare le mani sulla carta stampata. La nuova legge immanentizza il conflitto di interessi, e lo rende consustanziale al "virus videocratico" che Berlusconi sta inoculando nella nostra democrazia.
Ciampi non firmerà, perché non può sconfessare se stesso, e rinnegare l'atto formale più impegnativo di questa sua prima metà di settennato. Nel suo messaggio alle Camere, ha sollecitato l'immediato recupero dei principi costituzionali del "pluralismo, l'obiettività, la completezza e l'imparzialità dell'informazione". Ha richiamato almeno tre sentenze fondamentali della Corte costituzionale, sistematicamente ignorate dal legislatore e ora allegramente aggirate dalla Gasparri.
La prima sentenza, la 536 del 1988, aveva precisato che il pluralismo "non potrebbe in ogni caso considerarsi realizzato dal concorso tra un polo pubblico e un polo privato". Al "duopolio imperfetto" oggi dominante, governi e Parlamenti non hanno voluto o potuto porre un rimedio. Né la legge Mammì del 1990, né la legge Maccanico del 1997. La seconda sentenza, la 420 del 1994, aveva richiamato "il vincolo, imposto dalla Costituzione, di assicurare il pluralismo delle voci, espressione della libera manifestazione del pensiero, e di garantire il fondamentale diritto del cittadino all'informazione": quella pronuncia aveva dichiarato incostituzionale il limite del 25% (pari a tre reti televisive) che la Mammì aveva previsto come massimo consentito a ciascun concessionario, con la motivazione che "non garantisce la libertà e il pluralismo informativo e culturale". La terza e ultima sentenza, la 155 del 2002, aveva implicitamente confermato l'illegittimità della posizione degli operatori televisivi che possiedono più di due reti su scala nazionale. Ed aveva esplicitamente ribadito "l'imperativo costituzionale" secondo cui "il diritto di informazione garantito dall'articolo 21 della Costituzione deve essere qualificato e caratterizzato, tra l'altro, sia dal pluralismo delle fonti cui attingere conoscenze e notizie... sia dall'obiettività e dall'imparzialità dei dati forniti, sia infine dalla completezza, dalla correttezza e dalla continuità dell'attività di informazione erogata".
Nel suo messaggio, Ciampi ha giudicato questa sentenza, "particolarmente significativa là dove pone in rilievo che la sola presenza dell'emittenza privata (cosiddetto 'pluralismo esterno') non è sufficiente a garantire la completezza e l'obiettività della comunicazione politica, ove non concorrano ulteriori misure sostanzialmente ispirate al principio della parità di accesso delle forze politiche (cosiddetto 'pluralismo interno')".
A queste tre sentenze citate nel messaggio se n'è aggiunta pochi mesi dopo una quarta, la 466 del 20 novembre 2002. Evidenziava un ulteriore impoverimento del pluralismo: "Dalla previsione di 12 reti nazionali (di cui 9 private) si è passati a 11 reti (8 private), e ciò non garantisce l'attuazione del principio del pluralismo informativo esterno". Stabiliva che il regime transitorio (quello che ha permesso a Berlusconi di possedere tre reti private in tutti questi anni) "non può eccedere il termine del 31 dicembre 2003". Entro questa data, Mediaset deve vendere Retequattro, o trasferirla su satellite.
Ciampi non firmerà, perché non può non vedere quanto sia stata disattesa, nella prassi e nella legislazione, la richiesta espressa che lui stesso ha indirizzato alle Camere, invocando "una legge di sistema" nel settore dell'informazione, indicando persino i principi fondamentali che la devono caratterizzare: "Il pluralismo e l'imparzialità dell'informazione, così come lo spazio da riservare nei mezzi di comunicazione alla dialettica delle opinioni, sono fattori indispensabili di bilanciamento dei diritti della maggioranza e dell'opposizione: questo tanto più in un sistema come quello italiano, passato dopo mezzo secolo di rappresentanza proporzionale alla scelta maggioritaria...".
Di tutto quello che il Colle ha seminato un anno fa, il governo non raccoglie nulla nella riforma Gasparri. Come era stato annunciato dal ministro per le Comunicazioni, i vincoli antitrust introdotti dalla Camera sono stati puntualmente cancellati dal Senato. L'aula di Palazzo Madama ha reintrodotto un generico "divieto di cumulo dei programmi televisivi e radiofonici", in base al quale uno stesso concessionario "non può essere titolare di autorizzazioni che consentano di diffondere più del 20% dei programmi televisivi", né può avere ricavi superiori al 20%, calcolati secondo le "risorse complessive del Settore integrato delle comunicazioni". Il famigerato "Sic", un parametro volutamente vago e inafferrabile, al quale è impossibile ancorare paletti contro i monopoli. Al Senato Franco Debenedetti ha azzardato un'ipotesi quantitativa: il "Sic" varrebbe intorno ai 23 miliardi 387 milioni di euro. Uno sproposito, che rende pressoché irraggiungibile il tetto del 20%. Ma l'artificio consente al Cavaliere di eludere l'obbligo che da dieci anni gli rinnovano inutilmente leggi e sentenze: vendere Retequattro, o trasferirla sul satellite. A scanso di equivoci, la Gasparri approvata ieri ha previsto un salvacondotto in più. Un emendamento del relatore Luigi Grillo, ovviamente di Forza Italia, fa un ulteriore regalo alle reti che alla fine del 2004 copriranno almeno il 50% della popolazione con il sistema digitale: potranno ottenere una nuova concessione con il sistema analogico. Un altro trucco, che evita definitivamente a Emilio Fede il fastidio di doversi trasferire sul satellite.
Non resta molto altro, di questa "epocale riforma" televisiva. Nell'attesa palingenetica dell'era digitale, istituzionalizzerà una volta di più quella che un grande costituzionalista come Gaetano Azzariti ha definito la "temporaneità perpetua" del sistema televisivo: tra costanti rinvii e continue proroghe, il "regime transitorio" è diventato l'escamotage giuridico che serve a rendere definitivi gli squilibri esistenti. Nell'attesa di una chimerica privatizzazione della Rai (per la quale non si fissa neanche una data) non impedirà che si producano gli errori e gli orrori cui abbiamo assistito guardando i telegiornali in questi ultimi due anni: dal Televideo che occulta i dati Istat sul crollo della produzione industriale al Tg1 che censura gli insulti di Berlusconi a Schulz davanti all'Europarlamento di Strasburgo.
Ciampi non firmerà un testo che peggiora la qualità della nostra democrazia. Nella letteratura politica, gli studi di Larry Diamond e Marc Plattner misurano la democrazia di un Paese partendo dalla suddivisione tra "democrazie elettorali e democrazie liberali". Nelle prime, il criterio minimo di base è lo svolgimento di regolari elezioni tra partiti antagonisti. Nelle seconde si richiedono altri quattro criteri, assai più stringenti: il rispetto delle libertà civili (di fede, di espressione, di protesta), la certezza del diritto e la parità di trattamento di tutti i cittadini davanti alla legge, una magistratura indipendente e neutrale, e infine la garanzia di una società civile aperta e pluralista, di cui è parte integrante la libertà dei mass-media. L'Italia non è "un regime", non rischia derive dittatoriali. Ma dopo due anni di cura Berlusconi, si può dire che il nostro Paese è fuori dal secondo, dal terzo e dal quarto criterio di questa virtuale "Maastricht della democrazia". A un anno dal suo messaggio sul pluralismo, Ciampi non può esserne contento. Noi meno di lui.
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